Dopo l’attentato del 31 maggio nella zona delle ambasciate, abbiamo intervistato Gianluca Solera, policy advisor di Cospe Onlus, sulla situazione in Afghanistan.
Di recente il Ministero degli Esteri ha ordinato il rientro di buona parte del personale diplomatico presente a Kabul, preoccupa molto il deteriorarsi della sicurezza, in particolare nella capitale. Signor Solera, la situazione nel paese è così grave?
Il motivo per cui hanno deciso questo ritiro è stato l’attentato avvenuto a giugno a lato del compound, sono state colpite le ambasciate tedesche e francese anche con dei danni materiali. Quindi c’è stato timore e hanno deciso di prendere questa misura anche perché questa è la prima volta che un attentato si avvicina così tanto alla zona diplomatica. Quindi questo è il segnale che le autorità non controllano la città e anzi anche molti attivisti sostengono che è difficile riuscire a organizzare l’attentato di questo tipo senza avere delle coperture, senza conoscere qualcuno che dica come avvicinarsi, da dove avvicinarsi. Per cui c’è anche il sospetto che ci siano alcune componenti dei servizi che comunque abbiano una mano in questa operazione terroristica.
Sicuramente il clima di sicurezza nella città è peggiorato, dovevamo portare degli attivisti all’audizione che abbiamo organizzato esattamente tre settimane fa, non abbiamo incontrato una sola ambasciata di un paese dell’Unione Europea che potesse dare seguito alla richiesta di visto.
Quindi sicuramente c‘è un clima di tensione, dovuto al fatto che c’è l’impressione che le autorità non controllino più la situazione, quindi potrebbe esplodere come non esplodere. Non so dire se sia utile smobilitare in questo modo, l’UE dà anche segnali contraddittori. Da un lato tutte le ambasciate hanno ormai ridotto al minimo il personale, hanno chiuso tutti gli uffici consolari, la cooperazione italiana rimpatria il personale, però dall’altro lato l’Unione europea dichiara il paese sicuro permettendo il rimpatrio dei rifugiati afgani.

A tal proposito a ottobre 2016 è stato siglato un accordo bilaterale tra Afghanistan e Unione europea per quei cittadini afgani che non hanno – cito testualmente l’accordo – “i requisiti per entrare, trovarsi o risiedere nel territorio dell’Unione europea”. Questo accordo sembra più che altro uno strumento per costringere l’Afghanistan a riprendersi molte persone (gli afgani sono la nazionalità più rappresentata tra i richiedenti asilo, secondi solo ai siriani), a prescindere dal loro effettivo status e dalle condizioni in cui si trova l’Afghanistan, un paese disastrato da anni di guerra.
Come può l’UE aspettarsi che il governo afgano sia in grado di sostenere l’espulsione e il rimpatrio forzato di massa dei tantissimi richiedenti asilo afgani?
Noi abbiamo ottenuto a margine dell’audizione al Parlamento europeo sui diritti delle donne una riunione con il Servizio di External Relations, questo tema lo abbiamo sollevato, loro dicevano che sono state rimpatriate in realtà circa 200-300 persone, quindi non si parla di grandi numeri.
A mio parere bisogna tenere conto di due elementi: la prima è che questa decisione è stata presa prima dell’attentato di giugno, ed è vero che la situazione in Afghanistan è peggiorata quest’anno, quindi bisogna dare atto di questo. In secondo luogo bisogna però anche dire che questa decisione è legata alla volontà di ridurre il numero di nazionalità che si dirigono verso l’Unione europea chiedendo asilo. Così, in una situazione di presunta emergenza, almeno si dichiara che l’Afghanistan è un paese più sicuro di altri e in questo modo si riducono o si scoraggiano gli arrivi da quel paese visto e considerato che ci sono molti arrivi dalla Siria, dalla Libia, dal Sahel e dal Corno d’Africa. Lo dico perché questa è una valutazione che non è necessariamente legata all’Afghanistan, ma, appunto, ad una precisa volontà di ridurre il numero di nazionalità che possano beneficiare del diritto d’asilo.
Considerato che la situazione è instabile, considerato che col processo di pace comunque sono state legittimate alcune fazioni, è in corso questa trattativa con i talebani, c’è una parte delle fazioni armate che fanno capo al Hezb-e Islami che fa parte della coalizione di governo, sono state in qualche modo legittimati, sono in parte accampate a Kabul, quindi la città è più militarizzata. Quindi la situazione effettivamente è più instabile dal punto di vista della sicurezza e più incerta dal punto di vista degli sviluppi.
Il prossimo anno si terranno le elezioni parlamentari, la presenza nello schieramento politico di personaggi come Rashid Dostum o l’accordo di pace siglato a settembre con Gulbuddin Hekmatyar porta a chiedersi: qual è il ruolo dei war lords nell’Afghanistan di oggi?
La mia valutazione anche sulla base del lavoro portato avanti con gli attivisti nel quadro del progetto portato avanti sui difensori dei diritti umani. Io credo che i signori della guerra facciano capo a diverse bande, quindi non è che i signori della guerra siano tutti talebani o siano tutti legati al Hezb-e Islami ma ormai tutte le formazioni che hanno anche un ruolo politico nel processo di transizione o di riconciliazione che hanno fatto ricorso alla violenza in questi anni hanno le loro truppe, le loro milizie, i loro mercenari. Quindi tutti giocano la carta dell’avere dietro di sé o di essere legati a uomini che dispongono di armati e di armi.
È successo anche a molti difensori dei diritti umani che avevano chiesto protezione perché erano stati minacciati per le loro attività talvolta dai talebani, talvolta da signori della guerra… è successo che nel rivolgersi ai servizi di sicurezza si sentissero dire “Procuratevi delle armi per difendervi e noi vi daremo la licenza”. Il che dimostra che il rischio di un’esplosione della violenza è alto così come è alto il ricorso alla violenza in molte regioni dell’Afghanistan e allo stesso tempo i servizi di sicurezza afgani sanno dove sono le armi, chi le vende ma non ci possono fare nulla.
Credo sia molto difficile immaginare un processo di riconciliazione senza giustizia e senza il riconoscimento delle responsabilità di molti che sono stati criminali di guerra. Se il prezzo da pagare per la riconciliazione, per mantenere questo governo di unità nazionale è quello di dimenticare, senza riconoscere i crimini di guerra di molti degli uomini forti che hanno avuto un ruolo in questi anni, questo non genererà pace, non genererà stabilità, o lo genererà ma sarà una situazione temporanea, non di lungo periodo.
A metà giugno Trump ha dato mandato al segretario della Difesa Jim Mattis per l’invio di nuove truppe in Afghanistan. La guerra va avanti da quasi 16 anni e gli insorti continuano a guadagnare terreno.
Quindi dobbiamo aspettarci che l’opzione militare, rispetto a un processo di riconciliazione, alla fine prevalga?
Una parte degli attivisti considera la presenza di truppe occidentali come un’occupazione e quindi vogliono che questa, come tutte le occupazioni del proprio suolo nazionale, abbia termine. Una parte degli attivisti accusa le potenze occidentali di aver perpetrato dei crimini durante i bombardamenti, uccidendo anche i civili e distruggendo anche infrastrutture civili. Tutti gli attivisti condanno l’utilizzo del territorio afgano quale territorio di sperimentazione militare (mi riferisco a quello che è successo con la cosiddetta “Mother Of All Bombs”).
Nel 2015 quando andai in Afghanistan per la prima volta, venne organizzato da una compagnia telefonica privata un sondaggio tramite SMS su quale fosse la percezione degli afgani sulla presenza delle truppe straniere. La maggioranza si espresse perché non se ne andassero improvvisamente. Perché quantomeno la presenza di truppe straniere come forza di interposizione ha facilitato il raffreddamento delle tensioni. Perciò è difficile rispondere a questa domanda.
L’opzione militare – non nel senso di un attacco – dovrebbe essere funzionale a un rafforzamento delle istituzioni dello Stato, al consolidamento dello stato di diritto e di un’agenda di giustizia sociale, di applicazione della giustizia verso i crimini del passato.
I cittadini afgani devono poter sperare in un futuro migliore, nei campi dell’accesso all’istruzione, a una casa, al lavoro… nell’ottica di una politica integrata.
Se invece si utilizza l’Afghanistan come terreno di sperimentazione della tecnologia militare, sia come pedina di una politica di controllo e di espansione regionale o di concorrenza fra le potenze in gioco, le cose non possono funzionare. Non dimentichiamoci che l’Afghanistan confina con l’Iran, con il Pakistan che ha la bomba atomica e con alcuni degli ex paesi dell’URSS che comunque sono alleati di Mosca per cui è chiaro che se poi l’obiettivo della presenza è comunque quello di poter incidere sui grandi giochi di controllo di grandi aree nel continente asiatico, questa concorrenza in corso fra Stati Uniti, Russia e ora Cina è chiaro che poi le cose possono sfuggire di mano.
Quindi non mi sentirei personalmente di condannare a priori la presenza di militari occidentali, purché la loro missione sia chiara e sia comunque necessariamente accompagnata da un obiettivo di ricostruzione delle istituzioni, delle infrastrutture e di lotta alla corruzione, elemento ancor più importante in questo paese, perché è con la corruzione che si alimentano i forzieri dei signori della guerra, da parte delle istituzioni internazionali e in particolare da parte dell’UE.
Da tempo è noto che in Afghanistan operano gli uomini di al-Baghdadi, la presenza dell’ISIS nel paese ha creato una sorta di competizione (negativa) con i talebani? Soprattutto se pensiamo agli attacchi alla comunità sciita, dai quali i talebani si sono di recente dissociati da simili azioni, in quello che pare un tentativo di accreditarsi come rappresentanti di tutta la società afgana e non sono dell’etnia pashtun da cui provengono.
Sicuramente ci sono delle differenze e delle divergenze e c’è concorrenza tra i gruppi. È anche difficile capire chi li abbia finanziati. Gli attivisti mi riferivano che molto spesso hanno osservato l’arrivo di gruppi che si rifacevano palesemente all’ISIS ad esempio sventolando il vessillo dello Stato islamico in presenza di elicotteri che portavano armi. Quindi è chiaro che avevano una logistica dietro e avendo degli elicotteri che portano delle armi vuol dire non essere da soli, vuol dire avere un’infrastruttura che comunque è tollerata da qualcuno. Addirittura alcuni sostengono che gli americani abbiano chiuso un occhio sull’arrivo di alcuni dei membri dell’ISIS in alcune province afgane.
Sono tutti elementi difficili da comprovare, la mia impressione è che anche l’ISIS venga utilizzato – o comunque il suo accesso venga facilitato – nella prospettiva di un gioco di concorrenza all’interno dell’Asia da parte delle superpotenze.

Il COSPE è presente da anni in Afghanistan con molti progetti riguardanti i diritti delle donne, di recente c’è stata anche un’importante audizione di fronte al Parlamento europeo a cui lei ha preso parte nell’ambito della campagna #WomenForChange. Alla luce dei tanti problemi di cui abbiamo parlato può dirci quali sfide e quale futuro attendono le donne afgane nei prossimi anni?
La campagna #WomenForChange è nata nell’ambito del progetto sui difensori dei diritti umani cui vi accennavo. Abbiamo cercato di creare una rete di difensori di diritti umani presente in tutte e trentaquattro le province del paese, quindi mobilitarli, naturalmente proteggerli creando una sorta di case-rifugio per le loro attività nelle zone più difficili.
Uno dei messaggi forti che ricevevamo era: è vero, c’è il problema della violenza, c’è il problema dell’instabilità, c’è il problema della corruzione ma noi dobbiamo investire in qualcosa che costruisca un futuro diverso. E la risorsa più importante per dare un futuro diverso al paese sono le donne di questo paese. Per me è stata una doccia fredda.
Per cui abbiamo pensato questa campagna per difendere la possibilità delle donne di avere un ruolo più importante nella vita politica, economica, civile, amministrativa del paese. La campagna quindi aveva un’agenda di accesso all’istruzione perché senza istruzione, a prescindere dal genere, non si va da nessuna parte.
Per cui investire sulle donne significa investire sulle energie migliori dell’Afghanistan dal punto di vista culturale, intellettuale e politico ma anche per dare consapevolezza alle donne che possono essere una forza di rottura, una forza di progresso. Però ciò avviene se le donne hanno accesso alle attività economiche, accesso a posizione di potere, di decisione nell’amministrazione e nei ministeri, avere la possibilità di essere elette e di andare a votare senza ricevere pressioni né minacce, ma penso anche alle quote rosa a livello di elezioni parlamentari e provinciali.
La sfida è dare loro più peso nella vita civile del paese.
Marco Colombo
[In copertina un’immagine di Kabul dopo un attacco. Fonte: Wadsam]
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