Se la canicola estiva asseconda un’evaporazione dei contenuti ed un’esasperazione delle forme, voglio anch’io essere complice della stagione più superficiale dell’anno e suggerire 5 mostre che, anche a prescindere dai contenuti, risulteranno esteticamente vincenti per i vostri social network. Anche l’occhio vuole la sua parte.
Treasures From the Wreck of the Unbelievable – Damien Hirst
Palazzo Grassi e Punta della Dogana, Venezia
Fino al 3 dicembre 2017

Nuova meta favorita dai fashion bloggers con ambizioni culturali, il parossismo veneziano di Damien Hirst presenta le giuste qualità barocche per diventare il dilettevole sfondo dei vostri scatti più glamour. Costruita attorno ad una fan-fiction su un leggendario naufragio, la mostra è la visione postmoderna di un Cousteau sotto acidi, che ravviverà i vostri selfie con un’ambientazione hollywoodiana degna del set del prossimo Pirati dei Caraibi. Basata su una simulazione sufficientemente accattivante da scomodare i concetti di post-truth e fake news, la doppia esposizione si presterà docilmente ad inquadrare i vostri scatti nei gruppi Instagram più avanguardisti, seppur a sproposito. Grazie ad un dibattito culturale che sembra trascenderne enormemente i limiti concettuali, la mostra è stata, fin da poco dopo l’inaugurazione, tatticamente accusata di appropriazione culturale, di essere l’ennesima operazione finanziaria travestita da opera d’arte, di plagio e, immancabilmente, di non essere arte. Questo misto di polemiche deliziosamente contemporanee, opportunamente miscelate nei vostri hashtag, vi assicureranno sicuramente un incremento sostanziale dei vostri follower. Forse originariamente immaginata per essere la parodia del concetto di museo fagocitatore di cultura, simulacro di una civiltà colonialista e razziatrice, si riduce rapidamente ad un pastiche pop-esotico à la Voyager che sembra a volte tradire una filiazione diretta da fortunate ricerche estensive su Wikipedia.
Il vero relitto dell’operazione, che emerge arrogante tra i flutti delle opportune campagne mediatiche, è piuttosto la narrazione della hybris del collezionista, di un ego ipertrofico in scala con i titanici reperti impreziositi di un’enciclopedia di incrostazioni estetizzanti. In un’autoreferenzialità talmente patinata da non passare mai di moda, trova espressione una mitologia personale di tracotanza economica che sa come valorizzarsi. Così anche voi potrete finalmente sentire il brivido di diventare influencer per uno sponsor di grido, fotografandovi accerchiati dagli ultimi prodotti creati dal brand Hirst&Pinault.
Van Gogh Alive – The Experience
Ex Chiesa di San Mattia, Bologna
Fino al 31 ottobre 2017

Se siete alla ricerca di una parentesi cromatica per ravvivare le vostre instagram stories, Van Gogh Alive – The Experience è il luogo per voi. Salutata come l’esperienza per antonomasia, la mostra vi immergerà in un’adorabilmente colossale power point animata sulle opere dell’artista olandese. Permettendovi una qualità di visione e ripresa che difficilmente un originale su tela potrà mai offrirvi, potrete finalmente inoculare ogni dettaglio pittorico dei celebrati capolavori espressionisti nelle vostre memorie, soprattutto digitali. I vividi cromatismi delle pennellate, migliorati dalle più avanzate tecnologie ad alta definizione, risalteranno squisitamente anche senza la fastidiosa mistificazione di filtri menzogneri. La mostra è inoltre già corredata di colonna sonora, una soave quanto edulcorata partitura di musica classica di intramontabili, che donerà quel tocco casualmente chic ai vostri video. Liquidare The Experience come “troppo trash” potrebbe risultare un giudizio leggermente avventato per una delle mostre multimediali più visitate al mondo. La verità è che Van Gogh Alive è una mostra coraggiosa. Gli organizzatori, chiaramente interessati a riattivare l’annoso dibattito sul senso profondo della fruizione artistica, hanno deciso di fornire una risposta controcorrente: una mostra è bella perché piace. Forti di istanze critiche che vantano antecedenti illustri, hanno creato una videoinstallazione che non ha paura di essere graziosa, che non ha timore di piacere nella sua stessa, convenzionale, vezzosità. È una mostra che parla agli occhi, nel migliore dei casi al cuore, tralasciando tutti gli altri organi, che possono finalmente prendersi una meritata vacanza. Già in lizza per entrare nell’Olimpo dei classici, una mostra 3.0 di portata internazionale, ha anche lo straordinario vantaggio di farvi risparmiare inutili e dispendiosi viaggi per vedere gli originali Van Gogh, concentrandoli per voi in un unico stream di surrogati in dissolvenza.
Hansel & Gretel – Ai Weiwei e Herzog&De Meuron
Park Avenue Armory, New York

Se, secondo un curioso paradosso temporale, “1984” si configura ormai sempre più fatalmente come il nostro futuro più prossimo, non è il caso di demoralizzarsi, ma di cominciare piuttosto a trarre un qualche tipo di godimento, quantomeno estetico, dai sistemi di sorveglianza. La nuova installazione di Ai Weiwei offre dunque la possibilità ai più cinici tra voi di godere del piacere sottile di essere guardati a vista, se saprete volgerla a vostro favore. È ora più che mai legittimo, in un momento storico in cui persino i musei vi trovano meno attraenti dei dati dei vostri smartphone, di approfittare dei sistemi di sorveglianza come strumenti per assecondare le vostre vanità personali. Così, l’installazione interattiva che nel progetto di Ai Weiwei ed Herzog&de Meuron dovrebbe realizzarsi nell’appropriazione distopica di uno spazio pubblico da parte dei più avanzati sistemi di controllo, si trasforma, sugli schermi dei visitatori più smaliziati, in un parco di divertimenti implementato dai selfie. Partecipate dunque creativamente al controllo, ricorrendo ai vostri strumenti personali di sorveglianza in formato tascabile. È la visualizzazione stessa del meccanismo oppressivo ad assecondare la metamorfosi del sistema di controllo in strumentazione artistica, malleabile protesi dei vostri desideri narcisistici. Infatti, lo stormo di droni che veleggia nell’ambiente, stalkerandovi, proietterà sulla vostra scia un personalissimo film muto in slow motion del vostro duplicato digitale, dandovi perfino la possibilità di scattare simpatiche goliardie da postare su Snapchat. La mancanza totale di ricadute effettive sulle vostre libertà personali vi aiuterà a deresponsabilizzarvi ulteriormente, lasciandovi liberi di sbrigliare la vostra fantasia fotografica su questi nuovi gadget di autorappresentazione. Non perdete inoltre l’occasione di essere anche la guardia al centro del panopticon nella seconda parte della mostra e, iPad alla mano, partecipate a un “Where Is Wally” personalizzato per ritrovarvi fra i volti assorbiti all’interno del database di riconoscimento facciale. Assecondando un certo sentimentalismo civettuolo, per 10 dollari, potreste anche portarvi a casa in souvenir fotografico. Ma, come Hansel e Gretel, potreste rischiare di non ritrovare mai tutte le piccole briciole digitali che avete inconsciamente sparpagliato in giro. La trasparenza del dispositivo non è totale e il fine per cui le vostre tracce sono state raccolte non è esattamente specificato. Ma non è così importante, non risulta che siano in alcun modo commercializzabili. Per il momento.
Yayoi Kusama: Life Is the Heart of a Rainbow
National Gallery, Singapore
Fino al 3 settembre 2017

L’attuale operazione di banalizzazione mediatica attorno alla figura di Yayoi Kusama è finalmente riuscita a far dimenticare la portata artistica della sua pluridecennale carriera per arrivare a valorizzare unicamente l’estetismo, fortemente brandizzabile, delle sue installazioni. Potrete ora postare panoramiche delle sue Infinity Mirrored Rooms, una delle opere più ambite da inserire su almeno un profilo pubblico, senza dovervi preoccupare di tutte quelle fastidiose informazioni contestuali che avrebbero inficiato la spensieratezza dei vostri scatti. Dimenticate la sua poliedricità espressiva o il suo essere stata una delle prime artiste giapponesi a confrontarsi con i temi della malattia mentale e della sessualità. Non sono certo queste le ragioni che ne hanno fatto una delle artiste più famose al mondo. Concentratevi unicamente sul sensazionalismo delle quotazioni alle aste e sul numero di visitatori annuali per esaltare al meglio la libidine visuale dei suoi pattern distintivi. Scrutinate rapacemente i suoi universi installativi, alla ricerca indomita dell’inquadratura perfetta, annullando qualsiasi sentimento di comunione partecipativa alle loro vertiginose atmosfere. Le zavorre contenutistiche non sono rinomatamente fotogeniche. Per raggiungere una più ampia platea di ammiratori affezionati, potreste anche trasformavi in groupies d’esibizione, seguendo l’installazione nel suo tour attorno al mondo, per registrarne ogni nuova, sempre più tipizzata, declinazione. Attendete la prossima tappa nelle vostre vicinanze e collezionatele tutte.
From Selfie to Self Expression
Saatchi Gallery, Londra
Fino al 6 settembre 2017

Charles Saatchi ha deciso di legittimare definitivamente, musealmente, qualcosa di cui i più illuminati tra noi già da tempo domandavano a gran voce il dovuto riconoscimento. Finalmente trova espressione, nella prima mostra dedicata alla storia del selfie, l’intrinseca natura artistica del fenomeno. Dall’intimista XVII secolo, in cui i selfie dovevano ancora essere fatti a mano e rappresentavano un privilegio di pochi, la mostra illustra come questo specifico concetto di autorappresentazione animasse di sacro fuoco non solo noi contemporanei, ma anche i grandi artisti del passato. Mai un fenomeno sociale ha contribuito così possentemente a riscrivere la storia, riattivando le categorie classiche di autoritratto, ormai obsolete (e pure vagamente pedanti). Ricordandovi che l’arte vi somiglia, la mostra permette un’assimilazione retroattiva nella categoria di selfie di un ampio, eterogeneo gruppo di produzioni artistiche, con un’operazione critica eufemisticamente originale. Ma questa non è una mostra per gli scettici e i polemici, che domandano algide distinzioni tra selfie utilizzati a fini artistici e non, che chiamano questa consacrazione prematura e che istigano piuttosto a rivolgersi ad un’analisi “sociale” di questa forma dell’autorappresentazione. Essi auspicano crudelmente ad una lacerazione critica tesa a gambizzare il romanticismo e la spontaneità del fenomeno. Piuttosto, questa è una mostra pensata per te e per me, che crediamo nella democratizzazione dell’espressione visuale e nell’innocente desiderio di creare. È per noi sognatori, che finalmente potremo vedere i nostri scatti accanto ai nostri idoli ispiratori in ogni utilizzo della telecamera frontale: Rembrandt, Frida Kalho e Cindy Sherman. Datevi anche voi un titolo e fate il definitivo salto di qualità, inserendovi nel Pantheon dell’arte.
Arianna Casarini
Foto di copertina: https://www.reddit.com/r/alternativeart/comments/6qbn5z/friends_by_dan_cretu/