L’Arabia Saudita ha un problema di bullismo

Qualsiasi bulletto sa che il modo più semplice per non sentirsi debole e spaventato è spaventare e rendere deboli gli altri. (Laurie Penny)

Improvvisamente in Arabia Saudita il tempo ha cominciato a scorrere più velocemente rispetto al passato. Questo avvenimento non può essere battezzato con una data precisa, bensì con molte date diverse. Una potrebbe essere quella del 25 marzo 2015, il giorno in cui è cominciata la campagna militare nello Yemen. Un’altra potrebbe corrispondere al 25 aprile 2016, quando viene annunciato il piano economico Vision 2030. Qualche osservatore indicherebbe il più recente 5 giugno 2017, quando è avvenuta la rottura diplomatica con il Qatar, accusato di sostenere il terrorismo ma punito – più realisticamente – per i rapporti commerciali con l’Iran. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.

Forse nessuna di queste date è quella giusta e forse lo sono tutte.

Ma oltre al “quando”, un’altra domanda fondamentale che dobbiamo porci è il “chi”. Il grande attore di questa inattesa accelerazione del treno saudita porta un nome solo e ben preciso: Mohammed bin Salman (spesso abbreviato in MBS). Il 21 giugno scorso – ecco che ritornano le date – è stato nominato principe ereditario, una mossa che ha automaticamente escluso dalla successione al trono il cugino più anziano Mohammed bin Nayef.

Mohammed bin Nayef Mohammed bin Salman
Mohammed bin Nayef (a sinistra) e Mohammed bin Salman (a destra). Fonte: Dailymail

Non perdiamoci di vista

Alla fine del 2015 l’Arabia Saudita lancia una coalizione militare islamica per combattere l’avanzata dello Stato islamico. Dando una scorsa ai suoi membri (potete trovare la lista sul sito ufficiale della coalizione, qui) viene qualche dubbio sulla reale efficacia di una simile alleanza. A parte Turchia, Egitto e Pakistan, ci sembra legittimo chiedersi quale ruolo possano avere gli eserciti di paesi come Gibuti, Comore, o Maldive. Oppure quale contributo ci si possa aspettare da Stati falliti come la Somalia, la Libia o l’Afghanistan che tra l’altro hanno già le loro guerre civili da fronteggiare. Nella “coalition of the willing” in salsa mediorientale compare addirittura lo Yemen, un paese sottoposto a un durissimo embargo e a bombardamenti indiscriminati da parte della stessa Riad.

A ciò si aggiunga che oggi, con l’ISIS che batte in ritirata, la coalizione sembra perdere la sua stessa ragion d’essere. Ora l’attenzione torna a concentrarsi sullo scenario regionale. Un focolaio di tensione si spegne, si posano le armi, potrebbe essere un momento di riflessione e dialogo, magari anche un’occasione di distensione fra avversari.

Ma ecco che, il 4 novembre 2017, l’orologio della storia ci mette il suo zampino e ricomincia a correre frenetico. Quel giorno, nel giro di poche ore, il primo ministro libanese Saad Hariri presenta le sue dimissioni (poi ritirate) mentre è in visita a Riad. Nel frattempo MBS fa arrestare diverse personalità di spicco fra cui principi, ministri e imprenditori. Come se non bastasse, il vicino yemenita pensa bene di sparare un missile verso la capitale saudita, un attacco poi rivendicato dai ribelli houthi.
L’Arabia Saudita subito punta il dito contro l’Iran e rivendica il diritto a difendersi. Di fronte a simili dichiarazioni però il blocco arabo-sunnita di cui sopra non sembra così ansioso di prendere le parti di bin Salman. Se la Turchia ha diffuso comunicati molto prudenti in cui si invita alla stabilità, l’Egitto sta combattendo i terroristi nel Sinai, mentre il Pakistan non può dimenticare i buoni rapporti con Teheran. E i paesi del Maghreb? Silenzio assoluto.

Insomma, dopo il sostegno ricevuto nelle crisi in Yemen e in Qatar, Riad pare aver scoperto i limiti dei suoi rilanci.

saad hariri
Saad Hariri. Fonte: AlManar

Come un elefante in una cristalleria

Lo stesso si può dire del “dossier libanese” e della delicatezza con cui i Saud sono calati su Beirut. Il paese dei cedri non è certo famoso per la solidità delle sue istituzioni o per l’armonia che regna fra le diverse confessioni che lo abitano. E una guerra civile durata quindici anni sta lì a testimoniarlo.
I sauditi non hanno dato molto peso a questi dettagli, preferendo focalizzare la loro attenzione su Hezbollah, il partner libanese dell’Iran. Il risultato è stato il gesto di Hariri, cui accennavamo sopra, un gesto che appare davvero poco spontaneo.

Perché? Perché Hezbollah è tra i partiti che sostengono il governo dello stesso Saad Hariri. Perché sempre Saad Hariri ha stretti (e proficui) legami economici con l’Arabia Saudita. E perché la nomina del primo ministro in Libano spetta al Presidente della Repubblica. E l’attuale presidente è un alleato di Hezbollah.
Ma del resto – qualcuno potrebbe ribattere – se neppure orrori come le epidemie di colera e la carestia fermano la politica estera saudita, perché dei noiosi cavilli istituzionali dovrebbero farlo?

MBS non ha però fatti i conti coi libanesi, risvegliandone l’orgoglio ferito e la loro rabbia. Sentimenti che ora non si stanno indirizzando verso Teheran, ma contro Riad, considerata una sorta di potente boss che licenzia un dipendente qualsiasi con un semplice gesto della mano. Insomma, un’umiliazione che ha allontanato ancor di più la prospettiva di un Libano membro della coalizione regionale contro l’Iran e men che meno servirà ai Saud per conquistare “il cuore e le menti” del popolo libanese.

La strana coppia (più uno)

Se c’è un fattore che accomuna le popolazioni dell’intero Medio oriente è l’acrimonia verso Israele. Neanche l’Arabia Saudita fa eccezione a questo dogma. Tuttavia, col tempo, la cosiddetta “questione palestinese” è stata utilizzata in modo sempre più strumentale dall’establishment politico-militare del mondo arabo, tant’è che oggi i commentatori arrivano a sostenere che “i palestinesi interessino ai sauditi solo come causa mobilitante e unificatrice delle opinioni pubbliche sunnite”. E mano a mano che il processo di pace si impantanava e gli accordi sul nucleare iraniano si concretizzavano, sauditi e israeliani si sono accorti di avere un problema in comune: Teheran.

Ed è così che si spiegano il moltiplicarsi degli inviti alla collaborazione militare e d’intelligence fra i due paesi, contatti che sono culminati con la visita di Mohammed Bin Salman a Tel Aviv il mese scorso, l’occasione perfetta per incontrare Be.

Due elementi poi, spingono verso l’inedito asse tra quelli che dovrebbero essere nemici: in primis, la sconfitta dell’ISIS in Siria, con l’incubo di basi militari iraniane vicine al confine israeliano che si fa sempre più concreto. E poi, ovviamente, un presidente americano che torna a sorridere ai suoi alleati storici nella regione e porta in dote un assegno da 110 miliardi di dollari in sistemi di difesa ed armamenti.

Donald trump Benjamin Netanyahu
Trump e Netanyahu. Fonte: ABC.net.au

La partita in Arabia Saudita è comunque molto aperta e sono diverse le domande che attendono ancora una risposta. Una delle principali di queste domande riguarda sicuramente il futuro del deus ex machina che, neanche tanto nell’ombra, sta manovrando molteplici attori in diversi scenari. Quello che sembra contraddistinguerlo è sicuramente la spregiudicatezza nell’approccio e l’azzardo nelle mosse.
Cercando di mettere in fila tutte le sue azioni sembra quasi di trovarsi di fronte al classico bullo prepotente e iperattivo che terrorizzata l’isolato. Solo che, nel caso di Riad, alla prepotenza si unisce un portafoglio ancora molto importante.
Si tratta di due caratteristiche – ricchezza e prepotenza – che mal si accompagnano a una visione (anche strumentale) del mondo. Visione che si vuole capace sia di mobilitare le masse dentro e fuori al paese sia di spingerle a schierarsi al proprio fianco convintamente.

Mohammed bin Salman dovrà dimostrarsi in grado non solo di consolidare una struttura di potere interna sempre più incentrata sulla sua figura, ma anche di proiettare verso l’esterno un’immagine dell’Arabia Saudita ben diversa da quella vista finora.

 

Marco Colombo

[L’immagine di copertina è tratta da Geopolitica.info]

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