Dal primo dicembre 2017 sono aperte le domande per il Reddito di Inclusione, il nuovo e primo istituto strutturale di lotta alla povertà in Italia.
Leggiamo sulla pagina dedicata (che potete consultare qui) nel sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che:
“Il Reddito di inclusione (REI) è una misura di contrasto alla povertà dal carattere universale, condizionata alla valutazione della condizione economica. I cittadini potranno richiederlo dal 1° dicembre 2017 presso il Comune di residenza o eventuali altri punti di accesso che verranno indicati dai Comuni. Il REI si compone di due parti:
- un beneficio economico, erogato mensilmente attraverso una carta di pagamento elettronica (Carta REI);
- un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa volto al superamento della condizione di povertà, predisposto sotto la regia dei servizi sociali del Comune.”
Lette le linee guida e i requisiti di accesso, che potete trovare nella suddetta pagina, mi sono preso la libertà di stilare una (breve) lista di pro e una (lunga) lista di contro.
Cominicamo dai pro:
Il Reddito di Inclusione (REI) è una misura strutturale che dovrà essere rifinanziata dal prossimo governo (qualunque esso sia) anche per l’anno 2019, garantendo una continuità ad un progetto che per garantire qualsiasi tipo di risultato necessita di tempo.
È un istituto di lotta alla povertà (almeno nell’idea) che introduce nel dibattito politico la rinnovata necessità di una redistribuzione delle risorse in un territorio ancora piegato da sette anni di crisi che sembrano ormai sempre più il nuovo status quo.
A mio modesto parere, qui finiscono i pro.
La parte dedicata alle perplessità è decisamente più corposa. Innanzi tutto nella definizione, perché se è vero che il REI è una misura di contrasto alla povertà, almeno idealmente, non è di certo una misura dal carattere universale. I requisiti economici devono essere verificati tramite prova dei mezzi e soddisfatti a partire da un requisito giuridico, ossia rappresentare un nucleo familiare. Senza questo status, niente bonus. L’universalismo è più esteso di così.
Oltre a non essere una misura universale è anche condizionata allo svolgimento di un progetto personalizzato, pena la sospensione del contributo. Il destinatario, quindi, dovrà accettare un percorso formativo ad hoc, “predisposto sotto la regia dei servizi sociali del Comune”. La storia recente, in Italia come in Europa e nel mondo, ci ha insegnato che un contributo economico in cambio di lavoro equivale sostanzialmente a promuovere il lavoro coatto. Qualcuno disposto a svolgere mansioni per un importo dai 185€ (nucleo individuale) ai 485€ (nuclei di 5 individui) si troverà. Al progetto personalizzato può sostituirsi il programma di ricerca intensiva di lavoro, qualora la situazione economica dipenda esclusivamente dalla mancanza di un impiego (preparazione di curriculum, come affrontare un colloquio ecc…) tramite gli strumenti identificati dal Jobs Act con il d.lgs. 15/150 artt. 20 e 23.

Il sospetto è, dunque, che lo strumento vada nella direzione opposta rispetto a quella sperata, creando ulteriore vulnerabilità e, soprattutto, lasciando nelle stesse condizioni di prima il beneficiario allo scadere dei dodici mesi di erogazione e creando situazioni di marginalizzazione ulteriore tra individui in povertà. Una sorta di povertà di serie A (chi accede al REI) e una di serie B (chi non vi accede). Perché sì, il REI dura soltanto per un anno e mezzo e raggiunge circa il 38% degli individui in condizione di povertà assoluta (il 59% dei minori in povertà assoluta). La maggioranza delle persone in povertà assoluta (e una corposa minoranza di minori) non avrà accesso alla misura “universale” proposta dal governo (qui un articolo di Alleanza contro la Povertà, utile per alcuni approfondimenti).
Personalmente, inoltre, non apprezzo molto i sussidi erogati solo in caso di confermate condizioni di povertà (come avevo cercato di dire già qui)
Un reddito pari alla soglia di povertà (702 € mensili) dato a tutti i poveri e precari costerebbe allo stato tra i 14 e 21 miliardi di euro, mentre per il REI ne sono stati stanziati soltanto 1,8. Nel frattempo sono stati bruciati bonus a profusione, dai 9 miliardi per gli 80€ ai circa 40 miliardi in tre anni per gli sgravi per il Jobs Act. Tutta roba finanziata con la flessibilità europea, e che oggi possiamo giudicare come un sostanziale spreco di denaro.
Altro (grosso) problema concettuale del REI è che ragiona per cifre fisse, ossia non in relazione alla soglia di povertà. Non porta un ristretto numero di individui fuori dalla povertà (che sarebbe già di per sé un risultato, per quanto parziale), ma gli consegna un importo dato e slegato dalla sua condizione. Per fare un esempio molto semplice, se la soglia di povertà è fissata a 702€ e una persona (che rappresenta un nucleo familiare singolo) con un reddito di 400€, magari ottenuto tramite uno degli altri strumenti come Garanzia Giovani, ottiene l’accesso al sussidio, finirà col ricevere 187€ al mese per un anno. Di fatto il suo reddito salirà a poco meno di 600€ (solo per i dodici mesi seguenti), e sarà ancora in povertà assoluta.

I dati ISTAT appena divulgati, relativi alle rilevazioni dello scorso anno sui redditi del 2015 – e che potete leggere qui (da pagina 2 comincia il paragrafo sulle condizioni di vita) – ci mostrano una situazione grave e affatto positiva della condizione economica della nostra società. La percentuale di popolazione a rischio povertà (reddito inferiore al 60% del reddito mediano) è al 20% e siamo sopra al 10% per quanto riguarda la povertà assoluta. I redditi disponibili tornano a crescere, ma in modo fortemente diseguale (il 20% più ricco della popolazione detiene il 40% delle risorse, mentre il 20% più povero è fermo al 6,3%). L’aumento del primo quinto di popolazione è trainata dal lavoro autonomo, quei liberi professionisti che hanno approfittato dei vari Garanzia Giovani, tirocini e contratti a termine (il decreto Poletti del 2014). Questo quadro potrà essere confermato il prossimo anno, quando vedremo anche gli effetti del Jobs Act sull’impoverimento delle fasce più deboli della popolazione e, contestualmente, l’arricchimento di quelle più forti.
Il reddito di inclusione sembra solo una foglia di fico messa lì a coprire le vergogne non tanto di un’economia al collasso, quanto di una politica economica lunga ormai 20/30 anni e pure peggiorata negli ultimi 3. Un istituto contro la povertà serve davvero, e lo dimostra il caos agli sportelli all’apertura delle domande, o il dato inquietante di 12 milioni di persone che hanno rinunciato a prestazioni mediche per motivi economici lo scorso anno, in aumento sugli anni precedenti, lo dimostra il fatto che una persona sue tre è a rischio povertà e lo dimostrano quasi urlando gli oltre otto milioni di persone in povertà relativa. La risposta non può essere affidata a quello che, in tutta onestà, è solo un altro bonus per chi accetta un accordo e alla marginalizzazione (fisica) per tutti gli altri.
L’offerta di un bonus economico a fronte di lavoro è una tecnica vecchia come il capitalismo; all’epoca servì a formare forzatamente masse di lavoratori salariati tra persone non ancora abituate alla “disciplina” di fabbrica capitalista. Oggi è evidentemente tornato in auge e molti sono gli indizi che dichiarano il REI all’interno di questa logica. Vedremo col tempo, banalmente osservando chi aiuterà davvero.
Luca Sandrini @LucaSandrini8
2 pensieri su “Panta REI”