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Né vittime, né criminali: la resistenza migrante

Tratta di esseri umani, interconnessioni con il fenomeno dei richiedenti asilo e dei minori stranieri non accompagnati, carenza di investimenti nelle politiche di welfare e supporto sociale, politiche migratorie e di mobilità sempre più ostili ed escludenti: avendo l’opportunità di osservare da vicino il funzionamento del sistema anti-tratta del Comune di Verona (Progetto N.A.Ve), ci si rende subito conto di quanto sia difficile isolare tra queste un’unica problematica, evitando così di dover fare i conti con l’evidenza dei fatti: tra i richiedenti asilo si celano sempre più spesso le vittime della tratta. Sono per lo più donne di origine africana, in particolar modo nigeriane, e il dato inquietante è che hanno un’età media che le Unità di Strada, grazie ai contatti diretti con le ragazze, stimano tra i 18 e i 25 anni.

Tuttavia da osservatrice privilegiata, con un cambio di prospettiva che può risultare inaspettato e fors’anche azzardato, intendo spostare l’attenzione sulle interazioni tra le donne nigeriane che accedono al Servizio e gli operatori, perché rappresentative del confronto/scontro tra soggetto migrante “estraneo” e società d’arrivo.

Sullo sfondo la Nigeria, gigante d’Africa che ogni anno fornisce ai trafficanti di esseri umani la materia prima per alimentare il remunerativo mercato del sesso a pagamento che, a Verona, non conosce crisi, nonostante una politica criminalizzante esercitata attraverso un uso ricorrente di ordinanze sindacali anti-prostituzione. Il Comune scaligero sta assistendo a un consistente aumento di richiedenti asilo di nazionalità nigeriana, in linea con i dati forniti dall’UNHCR, che riportano come il 21% delle 181.436 persone sbarcate nel 2016 in Italia provengano dalla Nigeria.

La rotta che attraversa il Mediterraneo centrale continua ad essere percorsa, a dispetto di chiusura ed esternalizzazione delle frontiere. Al contrario, in larga misura proprio per questo motivo. Tra i richiedenti asilo, la nazionalità nigeriana conta al suo interno la più alta percentuale di presenze femminili. Sono donne sempre più giovani, coinvolte nella prostituzione in strada, e questo spiega perché sia il “sistema tratta” a interfacciarsi con loro, sebbene il più delle volte neghino di essere coinvolte in qualche forma di sfruttamento e preferiscano proseguire l’iter della richiesta asilo.

Per non generare equivoci è doveroso ricordare come le donne nigeriane subiscano effettivamente, nella quasi totalità dei casi, una condizione di reale sfruttamento, fisico e psicologico. Si tratta quasi sempre di soggetti particolarmente vulnerabili, orfane e analfabete, con alle spalle storie familiari complesse e percorsi migratori che includono gli orrori delle detenzioni e delle torture nelle connection houses libiche. Né si deve banalizzare il grado di assoggettamento e dipendenza psicologica generati da anni di minacce, ricatti e dalla forza del juju, che agisce in maniera così profonda da risultare a tutti gli effetti una forma di contenimento, fisico e mentale.

intervista commissione territoriale richiedenti asilo
Un colloquio con un richiedente asilo. Fonte: Thewire.in

Migranti e operatori: le difficoltà di contatto

Nonostante subiscano forme di violenza inaudite e siano costrette a condurre esistenze precarie, stabilire contatti di reciproca fiducia tra operatore e richiedente asilo risulta spesso molto difficile. E questo è, ovviamente, un aspetto allarmante che il sistema anti-tratta e i circuiti d’accoglienza per richiedenti asilo stanno cercando di affrontare. Perché rifiutano la possibilità d’aiuto?

In realtà le motivazioni sono molteplici, e affidarsi alle semplificazioni non è mai una buona soluzione. Abbiamo già sottolineato come le pressioni e le catene psicologiche siano un aspetto di inquietante rilevanza, ma cercando di ampliare un po’ il nostro orizzonte di conoscenze, liberandoci dagli stereotipi culturali paternalistici e vittimizzanti di cui siamo inconsapevolmente imbevuti, si potrebbe ipotizzare che si tratti, in parte, di forme di resistenza a pratiche invadenti, a ricatti istituzionali che valutano con metodica sistematicità il loro grado di bisogno, utile a giustificare la loro accoglienza, perché solo così verrebbe legittimata. Partendo dall’opportunità offerta da un caso concreto, seppur molto specifico, si può restituire valore e dignità a queste piccole pratiche quotidiane di resistenza e lotta praticate dai migranti, volte a strappare piccoli spazi di autodeterminazione e autonomia, e a sottrarsi al processo di “etichettamento” che ti vorrebbe o soggetto disciplinato, docile e offeso, quindi inoffensivo e degno di entrare a far parte del patto di cittadinanza, o criminale. Il disciplinamento nega la soggettività, corregge le sfumature, limita le differenze e determina l’inclusione apparente. E rimane pur sempre un atto di dolce violenza. L’ennesima subita dai migranti.

Questo perché, nei mesi di osservazione sul campo, ho avuto modo di cogliere come politiche migratorie escludenti, sistemi d’accoglienza e integrazione asfittici e forme di opposizione siano strettamente connesse. È possibile intravedere una trama brulicante di vita dietro a ribellioni che vengono spesso liquidate come mancanza di volontà di integrarsi. O, peggio ancora, come limiti culturali invalicabili. Sono invece proprio queste forme di resistenza “migranti”, diffuse a più livelli, più o meno organizzate, ad essere particolarmente interessanti perché dimostrano come i metodici tentativi di dispersione e disciplinamento della soggettività migrante non siano sufficienti ad annullare in toto la sua forza. Né ad annichilire la potenzialità delle differenze e a giustificare le categorizzazioni compiute da iniziative mosse sostanzialmente solo da valutazioni politiche securitarie e razziste.

donne e uomini scalzi marcia richiedenti asilo resistenza
Un’immagine della marcia delle donne e degli uomini scalzi. Fonte: Cronache di ordinario razzismo

Forme di opposizione e resistenza migrante

Per chi abbi la possibilità di “spiare” da una posizione privilegiata il lavoro degli operatori che si occupano dei colloqui informativi con le donne che accedono al Servizio, si renderà conto che le reazioni delle utenti non corrispondono affatto all’atteggiamento prostrato e affranto che molti di noi potrebbero immaginare da donne costrette a prostituirsi.

In linea con la retorica mediatico-politica dominante, ci si aspetta da loro gratitudine, sofferenza, richieste di aiuto esplicitate e accorate. Sono più sovente chiuse, poco collaborative, riportano informazioni parziali, confuse e, diverse volte, del tutto inventate. Proteggono con tenacia la loro individualità, mostrando insofferenza verso attenzioni caritatevoli, rifiutando pratiche di identificazione e medicalizzazione che hanno la pretesa di definire nell’immediato il loro status giuridico e nel concreto determinano la regolarità del loro soggiorno in Italia. Emerge con chiarezza un approccio altalenante e strumentale al Servizio, contattato più per la speranza di ottenere per vie traverse un permesso di soggiorno, che rimane a buona ragione la chiave d’accesso all’inclusione sociale.

Comportamenti apparentemente senza senso di fronte all’offerta di aiuto sono, in realtà, ricchi di significato e ci invitano a considerazioni più ampie. Possono essere, infatti, tentativi di sottrarsi all’omologazione che il Sistema d’accoglienza impone, per cui la ricchezza e la diversità di storie e vissuti personali vengono ricondotti unicamente alla distinzione tra il meritarsi o meno una possibilità di integrazione nella società d’arrivo. In un’altalena senza scampo tra criminalizzazione e vittimizzazione che vorrebbe ridurre il vario, eterogeneo e frammentato fenomeno migratorio a un’ondata grigia di persone prive di identità e trascorso personale.

Li accettiamo solo a patto che siano disposti a mettersi completamente a nudo, svisceriamo i loro trascorsi, i loro dolori e le loro sofferenze, con una freddezza chirurgica che ha abbandonato ogni rispetto ed empatia verso l’Altro. Chiediamo loro di privarsi di ogni difesa e non di rado li abbandoniamo perché il loro progetto migratorio non è ritenuto idoneo con l’impatto nella nostra società. Li incanaliamo in categorie rigide, praticando distinzioni che ci sono utili per orientare la bussola della conoscenza in fenomeni così complessi e ambivalenti, ma che vengono spesso vissuti come ulteriori forme di ricatto, con il rischio di ottenere esattamente l’effetto contrario: allontanare proprio le persone più fragili, contribuendo indirettamente alla loro “invisibilizzazione” o al loro completo affidamento alle reti di sfruttamento.

Pur non dimenticando la specificità del caso, osservare comportamenti oppositivi, talvolta anche aggressivi, potrebbe esserci utile a compiere un’opera di auto analisi più ampia. A comprendere, per esempio, che potrebbero essere proprio queste forme di resistenza a ridisegnare spazi politici e di contrattazione nuovi a obbligarci a fare i conti con la necessità di cambiare qualcosa nelle modalità di selezione e di gestione di fenomeni così complessi e in continua evoluzione. Perché se pensiamo che i migranti siano completamente privi di mezzi di difesa, pecchiamo di arroganza e superficialità.

Dai transitanti che quotidianamente rischiano la vita per passare i confini, alle persone che si oppongono all’identificazione nei centri hotspot, sino agli stessi cittadini europei che negli ultimi mesi sono stati accusati di “reati di solidarietà, è possibile intravedere un insieme composito di pratiche di dissenso riconducibili ad una comune insofferenza verso le limitazioni alla libertà di movimento imposte dai muri fisici e ideologici innalzati dall’Europa.

La criminalizzazione delle migrazioni non fermerà affatto gli arrivi e, se solo avessimo più lungimiranza, presteremmo ascolto a questi atti di pacifica protesta verso pratiche istituzionali violente. Filtri escludenti, permessi arbitrariamente meritocratici e accoglienze differenzianti sono forme di contenimento che agiscono sul corpo del migrante, costringendolo ad adattarsi a spazi d’azione fisica e politica limitati. I loro forti “no” ci stanno chiaramente indicando il fallimento delle politiche europee e la pesante responsabilità che abbiamo nella sistematica violazione di diritti e garanzie, vergognosamente depauperati in nome di un presunto diritto universale alla sicurezza. Non sottovalutiamoli.

Martina Facincani

[La fotografia di copertina è dell’UNHCR]

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