Redlining graphic Stefano Grassi

Cos’è il redlining? La segregazione razziale accelerata dalla gentrificazione di Kennedy

Il redlining si mescola ai processi di gentrificazione dell’urban renewal program iniziato da Kennedy, consolidando la segregazione razziale nella geografia delle città statunitensi. Perpetuando la disuguaglianze nella ricchezza immobiliare e nell’accesso a un’istruzione di qualità.
Una storia longform che porta lontano dall’America, dentro alle frizioni degli Stati Uniti.
[immagine di copertina: illustrazione di Stefano Grassi per TBU]

Per decine di anni, una delle immagini più rappresentative degli Stati Uniti è stata quella del suburban neighbourhood: file interminabili di eleganti abitazioni unifamiliari, molto simili (se non identiche) fra loro, circondate da giardini perfettamente curati e separate al massimo da una staccionata, a fiancheggiare larghe strade secondarie, che spesso terminano in un cul-de-sac. Sin dagli anni ’50, quando questi quartieri hanno iniziato a formarsi in seguito ad incentivi economici promossi dallo Stato, sono entrati nell’immaginario collettivo come l’emblema del sogno americano. A partire da essi è nato il mito della white picket fence, usato per simboleggiare la perfetta famiglia americana: due figli, un cane e una grande casa nei sobborghi. Quest’immagine così inflazionata e forzatamente positiva del classico quartiere americano nasconde un inquietante rovescio della medaglia: la nascita e il progressivo sviluppo di fenomeno che può essere considerato tra le maggiori cause dell’enorme racial wealth gap che tutt’oggi caratterizza il paese: il redlining.

La storia di questo fenomeno ha radici molto profonde, che risalgono al 1934. Siamo nel bel mezzo della Grande Depressione: gli USA stanno cercando di riprendersi dopo la crisi del 1929, grazie al piano firmato l’anno prima da Franklin Delano Roosevelt, il New Deal. Nonostante questo, la disoccupazione non è ancora scesa sotto il 20% e le tensioni sociali non mancano. Ai primi di aprile a Toledo, in Ohio, gli operai della Auto-lite avviano uno sciopero che passerà alla storia come la “Battaglia di Toledo”: dopo aver manifestato per oltre un mese chiedendo migliori condizioni di lavoro, circa 6000 operai radunati davanti alla sede dell’azienda si scontrano con 1300 uomini della Guardia Nazionale in un confronto che durò cinque giorni. Due operai vennero uccisi con colpi di arma da fuoco e oltre 200 rimasero feriti. Nel maggio dello stesso anno, si abbatté sul paese una delle dust bowls –  le terribili tempeste di sabbia che si verificarono negli Stati Uniti nel corso degli anni ‘30 – peggiori del decennio: per due giorni un vento implacabile soffiò su tutto il Midwest, distruggendo 35 milioni di acri di terreno coltivabile e spingendosi fino a Chicago, che venne ricoperta dai detriti. Di lì a poco,  l’estrema siccità e la distruzione di migliaia di fattorie avrebbero costretto oltre 500.000 americani a lasciare le proprie case e spostarsi verso la California, in un esodo senza precedenti che verrà descritto magnificamente da Steinbeck nel suo The Grapes of Wrath

È in questo contesto storico che viene approvato il National Housing Act, un provvedimento che aveva lo scopo di risollevare il mercato immobiliare attraverso agevolazioni per l’acquisto di case e incentivi per le aziende del settore delle costruzioni. Il problema è che dispone anche la nascita della Federal Housing Administration, che come vedremo giocherà un ruolo fondamentale nello sviluppo del redlining. 

Facciamo un salto in avanti di alcuni mesi: nel 1935, la Federal Home Loan Bank chiede alla Home Owners Loan Corporation – un altro attore fondamentale nella nostra storia, istituito nel 1933 –  di creare delle “residential security maps”, con la funzione di valutare il rischio legato all’acquisto di immobili in tutte le aree metropolitane del paese. È così che il governo federale, tramite la HOLC, pubblica mappe di 236 città. Si tratta di mappe dove ad ogni quartiere viene assegnato un livello di rischio sugli investimenti immobiliari, segnalato con l’utilizzo dei colori verde, blu, giallo e rosso e rinominate con le lettere: A, considerata sicura; B, desiderabile; C, in declino; D, rischiosa. Le zone in rosso erano quelle a maggioranza afroamericana, ispanica o di altre minoranze, a seconda dello Stato.  È il vero e proprio inizio del redlining. Il termine venne coniato nel corso degli anni ’60 dal sociologo e attivista della Northwestern University John McKnight, che si ispira appunto alla pratica, ormai consolidata, di segnare in rosso i quartieri meno “desiderabili”. 

Mappa di Atlanta, Georgia. Evidente il centro della città, l’inner city, colorata in rosso, l’aumento della ricchezza e della presenza di bianchi all’avvicinarsi ai quartieri residenziali delle periferie.

In un documento ufficiale del 1936 distribuito dalla Federal Housing Administration, l’agenzia governativa che si occupa di regolare l’erogazione di prestiti per l’acquisto di immobili, viene chiaramente disposto che la composizione sociale e razziale dei quartieri debba rimanere invariata, per “preservare la loro stabilità”. I quartieri a maggioranza bianca dovranno rimanere tali, per evitare svalutazioni. 

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Con l’autorizzazione della FHA, banchieri e agenti immobiliari vengono quindi esplicitamente invitati dal governo federale a fare aperta discriminazione razziale, di fatto impedendo a persone di colore, di origini ispaniche e ad altre minoranze di stabilirsi nei quartieri a maggioranza bianca, dove di solito il valore degli immobili era maggiore, e le condizioni di vita – in quanto a servizi, scuole, sicurezza – erano migliori. Non è quindi una questione esclusivamente urbanistica: negli Stati Uniti ogni scuola riceve soldi dal governo federale e da quello statale. Tuttavia, circa la metà delle risorse arrivano dalle tasse locali sulla casa. In estrema sintesi, chi nasce in un quartiere povero, obbligato ad andare nella scuola di quartiere  – incluse le superiori – avrà a disposizione strutture di qualità enormemente inferiori ad una persona nata in una famiglia ricca, e quindi un quartiere ricco.

Dopo la seconda guerra mondiale il problema diventa ancor più pressante. Al ritorno dal fronte, oltre un milione di afroamericani che avevano combattuto nel conflitto speravano di trovare un paese più equo e condizioni migliori per ricostruire la propria vita dopo aver servito nell’esercito. Quello che trovarono fu un’America forse ancor più razzista, diseguale e incapace di mostrare riconoscenza per il loro contributo. Dopo aver impugnato le armi per un paese del quale si sentivano parte ma che non li considerava allo stesso modo, i rappresentanti delle minoranze non poterono nemmeno usufruire appieno delle misure messe in atto per stimolare l’economia.

You give me second class houses
And second class schools
Do you think that all the colored folks
Are just second class fools? 

Nel 1967, Nina Simone cantava queste parole nella sua Backlash Blues, adattamento musicale della poesia di Langston Hughes “Mr. Backlash”. Una delle richieste più pressanti del movimento per i diritti civili degli anni ’60 era quella del libero acquisto sul mercato immobiliare. I quartieri “migliori”, segnati con il verde nelle mappe, erano riservati solo alle famiglie bianche, e la sola presenza nelle vicinanze di un complesso di abitazioni occupate da membri di una minoranza avrebbe potuto portare ad una svalutazione degli immobili.

Nel 1941, a Detroit, nei pressi della Eight Mile Road – una zona considerata in stato di degrado –  un costruttore decide di dare una nuova vita all’area e realizzare un nuovo complesso residenziale destinato ad acquirenti bianchi. La Home Owners Loan Corporation, tuttavia, non approva il progetto perché sarebbe troppo vicino ad un quartiere a maggioranza afroamericana. Il risultato fu che le due parti giunsero ad un compromesso: l’HOLC darà la propria approvazione alla costruzione del complesso, a patto che venga costruito un muro fra esso e il quartiere a maggioranza afroamericana. Quel muro è il Birwood Wall di Detroit, ed è in piedi ancora oggi, a testimoniare quanto il redlining fosse – e sia tutt’ora – una pratica vergognosa e discriminatoria. 

A novembre 2019, il quotidiano Newsday ha pubblicato un’inchiesta sulla discriminazione razziale nell’acquisto di case nella zona di Long Island, una di quelle dove il redlining è ancora una pratica difficile da estirpare. Per l’indagine sono stati contattati 93 agenti immobiliari, e registrate 240 ore di incontri fra essi e gli acquirenti  sotto copertura mandati dal giornale. Dall’operazione è risultato che nel 49% dei casi gli acquirenti afroamericani hanno ottenuto un trattamento discriminatorio. In undici casi, gli agenti hanno diretto gli acquirenti neri verso quartieri diversi rispetto a quelli che avevano consigliato a compratori bianchi. In cinque casi,  hanno preteso garanzie economiche maggiori ai rappresentanti delle minoranze. Come dimostra questa inchiesta, il redlining è una forma di discriminazione tutt’altro che superata, ma che continua a manifestarsi subdolamente, spesso senza che le sue stesse vittime se ne rendano conto. Rientra in quell’enorme categoria di trattamenti discriminatori che, nonostante i tentativi di cambiamento, continuano a resistere e contribuiscono ad ostacolare ogni tentativo di colmare il racial wealth gap.

Redlining graphic Stefano Grassi
Illustrazione: Stefano Grassi

Per capire meglio le origini del redlining, abbiamo posto il nostro focus sulla città di Lansing, capitale dello stato del Michigan, e abbiamo parlato con John Aerni Flessner, professore associato della Michigan State University e PhD in African and World History. Flessner è il responsabile del Lasing Urban Renewal Project, un progetto di ricerca che punta a ricostruire le storie delle persone che furono colpite dalle politiche di urban renewal e redlining in città.

L’urban renewal program consisteva in una serie di politiche volute dall’amministrazione Kennedy e portate avanti in seguito da Johnson, che prevedevano la costruzione di autostrade ed edifici pubblici, rimuovendo aree considerate “degradate”, le blighted areas,ghettos, usando i termini dispregiativi di allora. Una pratica non nuova nella storia: si pensi ai grand boulevard di Hausmann nella Parigi di Napoleone III, o gli sfratti nell’Oltretorrente parmigiano in epoca fascista. Negli USA degli anni ’60, il rinnovo e la ricostruzione di queste aree comportò lo sfratto di milioni di afroamericani, costretti a vivere nelle zone più povere della città proprio a causa delle politiche di redlining. Il numero di afroamericani colpiti da queste leggi era così alto, che all’interno delle comunità nere il programma venne soprannominatonegro removal“. Durante il periodo di maggiore attività del programma, venivano sfrattate 50,000 famiglie ogni anno.

urban renewal Washington DC
Urban renewal in Washington DC. Fonte: Smithsonian Magazine

Come ci ha riferito il prof. Flessner, per chi faceva parte di una minoranza riuscire a trovare una nuova sistemazione dopo essere stati sfrattati era molto difficile. In primo luogo, perché nella gran parte dei casi le famiglie non erano proprietarie delle abitazioni, ma le avevano affittate. Questo proprio per il motivo centrale del redlining: le banche non concedevano prestiti nelle zone “rosse”, e quindi le minoranze erano costrette ad affittare. Acquistare una casa era possibile solo pagando in contanti, oppure comprando on contract, una pratica predatoria che obbliga l’acquirente a pagare le rate, ma senza avere nessuna quota di proprietà, per cui basta un unico pagamento ritardato per perdere la totalità dell’investimento. Dunque, il contributo che lo stato dava ai proprietari in compensazione del danno ricevuto, non arrivava quasi mai nelle tasche delle persone rimaste senza casa, bensì in quelle di chi aveva la disponibilità finanziaria di pagare in contanti, accumulando ricchezza intergenerazionale.
Inoltre, proprio a causa delle politiche di redlining, il numero di abitazioni disponibili per afroamericani e minoranze era ridotto, e questo portò ad un forte aumento della densità abitativa. Spesso capitava che più famiglie dovessero condividere la stessa casa, affittandone solo una o più stanze, perché non c’era abbastanza spazio per tutti.

A Lansing, tuttavia, non ci sono state manifestazioni del redlining tanto marcate quanto a Detroit, con il suo muro. Perché? Secondo il prof. Flessner, la causa deve essere identificata in due fattori: le dimensioni della comunità e una maggiore permeabilità.

One [of the reasons, ed.] is the significantly smaller size of the community. The african american population did not start to grow significantly until the 1930s or 1940s, while the Detroit’s and Chicago’s received the 1910s and 1920s first wave. […] Two , there was more permeability. […] Two blocks apart you could find many african american families, and then two blocks away properties unavailable for african americans.

Mappa del redlining a Lansing, Michigan. Diverse di queste mappe storiche sono disponibili pubblicamente

A Lansing, dunque, era facile trovare all’interno dello stesso quartiere famiglie bianche e famiglie nere: la distinzione non era marcata come in altre città americane. Questo, oltre a sottolineare l’assurdità di una situazione in cui due abitazioni situate a poche centinaia di metri di distanza avessero un valore di mercato molto diverso, rendeva più difficile per le famiglie nere trasferirsi in città. Per poterlo fare bisognava conoscere bene il luogo, le zone in cui ci si poteva stabilire e quelle che invece erano off-limits, per motivi economici e razziali. Le famiglie afroamericane pagavano prezzi maggiorati per abitazioni che versavano in condizioni molto peggiori rispetto a quelle offerte ai bianchi per la stessa cifra. Dato che lo stato non agevolava i mutui nelle zone segnate in rosso, le persone non potevano ristrutturare le proprie case ed aumentarne il valore, con la conseguenza che interi quartieri si trasformarono in zone povere.

Anche le scuole subirono un progressivo cambiamento, dopo l’inizio dell’urban renewal. La storica decisione della Corte Suprema sul caso Brown vs Board of Education sancisce formalmente nel 1954 la fine della segregazione razziale nelle scuole. Nonostante si debba aspettare il 1968 prima di vedere cambiamenti sostanziali nel sistema scolastico americano in questo ambito, a partire dalla seconda metà degli anni ’50 molti ragazzi afroamericani iniziano ad andare a scuola in quartieri con una forte presenza bianca. Come ci ha illustrato il prof. Flessner, questo si verifica anche a Lansing. Fino agli anni ’50, l’istruzione scolastica in città era piuttosto buona anche per i rappresentanti delle minoranze, perché il Lansing School District poteva contare su finanziamenti adeguati. Dopo la seconda metà degli anni ’50, quando la scuola inizia ad essere più integrata, molte famiglie bianche si trasferiscono nei sobborghi – il white flight, che non è mai finito – e iscrivono i propri figli in scuole private.

Come anticipato, la maggior fonte di finanziamento per le scuole pubbliche negli USA è data dalle imposte sulla proprietà che vengono raccolte dalle amministrazioni locali. Se un gran numero di famiglie bianche benestanti si trasferisce e iscrive i propri figli altrove, i fondi vengono a mancare. In questo modo, le scuole che i bambini afroamericani potevano frequentare diventano sempre più povere, contribuendo al declino delle zone segnate da redlining. Nelle parole del prof. Flessner:

It’s all connected: the moving of industry out to the suburbs, that hollows out the taxpays, that brings the schools down, which furthers the impetus for those with money to flee to the suburbs.

I processi di redlining e urban renewal hanno scatenato una reazione a catena che ancora oggi fa fatica ad arrestarsi. Il razzismo sistematico negli USA non ha avuto una sola origine, né un’unica manifestazione, ma è il risultato di una moltitudine di fattori economici, giuridici e culturali che sono diventati endemici, e che continuano a causare danni anche decenni dopo la loro eliminazione. Il redlining è finito de jure nel 1968, con il Fair Housing Act:  titolo ottavo del più ampio Civil Rights Act, ha reso illegale l’atto di rifiutarsi di vendere o affittare immobili basandosi su razza, colore, disabilità, religione o sesso. Nonostante questo, nel primi mesi del 2018 solo il 44% delle famiglie afroamericane possedeva la propria casa, contro il 73.7% di quelle bianche. Oggi il divario è maggiore di quello del 1934. Un recente studio condotto dalla University of Indiana e dalla University of Utah ha mostrato come le famiglie nere paghino più tasse sulle proprietà immobiliari rispetto a quelle bianche. Ancora oggi, una famiglia nera ha cinque volte maggiori probabilità di vivere in un quartiere che un tempo era segregato. L’ennesimo segno di come ci sia ancora molta strada da fare verso l’uguaglianza e la fine del racial wealth gap, a più di cinquant’anni di distanza dalla fine del movimento per i diritti civili. 

Ilaria Palmas e Giacomo Romanini

Bonus: la mappa di Detroit per razza, sui dati del 2010:

Fonte: racial dot map

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