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Via dall’Eritrea, per molti è la sola speranza

Eritrea, 2016. Il 3 % della popolazione ha lasciato ormai il paese, 127.000 persone sono giunte in Europa dopo un viaggio sfiancante, costoso e pericoloso e hanno richiesto asilo o protezione internazionale. Nel 2015, sono stati più di 40mila quelli che sono sbarcati sulle coste italiane, salvo poi lasciare il paese per richiedere protezione internazionale altrove: Svizzera, Germania, Paesi Bassi. Migliaia di persone che passano sotto ai nostri occhi, invisibili. Una massa umana senza volto, silenziosa, come se non si trovasse a centinaia di migliaia di chilometri dalle proprie case, come se non avesse dovuto attraversare il deserto e il mare per giungere qui, come se non avesse dovuto affidare la propria vita nelle mani di trafficanti senza scrupoli.

Nessuno, poi, che si chieda “perché?“. A quasi vent’anni dall’inizio dal conflitto con l’Etiopia, l’Eritrea non dovrebbe essere più un Paese in guerra dal 2000, anno in cui fu siglato l’armistizio. Ma quel cessate il fuoco non ha mai portato ad un trattato di pace, condannando di fatto la popolazione maschile alla leva obbligatoria permanente. L’Eritrea è sulla carta una Repubblica presidenziale, ma Isaias Afewerki è alla guida del Paese dal 1993. L’Eritrea ha una Costituzione dal 1997, ma non è mai entrata in vigore e il rapporto 2015 di Freedom House l’ha inserito tra i 12 paesi peggiori del mondo. Non esiste stampa indipendente, l’ultimo giornale non governativo è stato chiuso nel 2001, sono 17 i giornalisti attualmente detenuti in carcere e Internet raggiunge l’1% della popolazione.

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La dittatura controlla ogni aspetto della vita dei cittadini eritrei, bloccando in tutti i modi gli spostamenti: è praticamente impossibile ottenere, per esempio, un visto per lasciare il paese. Tuttavia è stimato che 4/5mila persone scappano ogni mese. L’emigrazione, nel Corno d’Africa, non è un fenomeno recente: una prima ondata verso l’Italia risale agli anni Sessanta. Al tempo il movimento migratorio faceva leva sui vecchi rapporti coloniali e si spiegava prevalentemente con ragioni di tipo economico. Oggi la situazione è differente: secondo le informazioni raccolte dalle molte organizzazioni non governative che operano con i richiedenti asilo in Europa, gli eritrei che oggi scappano sono giovani e la ragione della fuga è spesso da ricercare nel servizio militare obbligatorio.

Istituito nel 1995, in teoria dovrebbe durare 18 mesi, in pratica si trasforma in un incubo che segna intere generazioni. Caratterizzato da una paga misera (meno di 2$ al giorno) e da condizioni di vita al limite del dignitoso, il servizio militare sarebbe sopportabile, se almeno fosse possibile intravederne una fine. Durante la leva – che coinvolge ragazzi e ragazze a partire dai 16 anni – la vita è segnata dall’incertezza come racconta Rummo in un esclusivo reportage del Guardian: “Potrebbero chiamare il tuo nome da un momento all’altro, ti fanno raccogliere le tue cose. Devi alzarti e seguirli, non hai idea di cosa stai facendo o cosa succederà. Ti possono picchiare o anche solo lasciarti al sole per ore. Ma è come stare in un forno, ci sono 55 gradi”. Il passaggio dal servizio militare ai lavori forzati è breve. In molti, poi, raccontano di come i 18 mesi si prolunghino in anni e anni. Intere generazioni di uomini nel pieno delle capacità produttive vengono sottratti alla società civile, la stessa entità del salario condiziona la possibilità di crearsi una famiglia che, anche quando c’è, vive una vita parallela. Non sono pochi i casi in cui i figli crescono senza aver praticamente mai visto i propri padri.

Un recente report delle Nazioni Unite ha denunciato sommarie esecuzioni, tortura, arresti arbitrari, sparizioni forzate e, più in generale, un atteggiamento del governo che mantiene la popolazione in una constante condizione di paura e ansia. Nonostante il reiterato rifiuto delle autorità di Asmara alle richieste di accesso al paese, la commissione speciale incaricata dall’ONU ha raccolto più di 500 testimonianze che le hanno permesso di concludere che il governo eritreo è coinvolto in “sistematiche, diffuse e massicce violazioni dei diritti umani” e che, in Eritrea, “non vi è altra legge che la paura”.

Per Adam, intervistato da Patrick Kingsley, arrivare in Sicilia è stato come rinascere: “In Eritrea non ho mai pensato al futuro. Non sapevo nemmeno se sarei sopravvissuto alla giornata. Adesso ci sto finalmente provando.”

Angela Caporale

PER APPROFONDIRE: Martedì 15 marzo verrà proiettato all’Europa Cinema di Bologna il documentario Voyage en Barbarie nell’ambito della rassegna Mondovisioni, che in collaborazione con SferaCubica e Kinodromo porta in città i documentari selezionati da Internazionale. Scopri qui tutto il programma.