Meron ha gli occhi stanchi e la schiena curva di chi, sulle proprie spalle, sente di portare un fardello. Vive in Svezia da anni, ormai, ma il suo cuore e i suoi pensieri non si sono mai distaccati dal suo paese d’origine: l’Eritrea. Governata da più di vent’anni da Isaias Afewerki, il piccolo stato del Corno d’Africa è uno dei più chiusi e poveri del mondo. Migliaia di persone tentano la fuga ogni mese, ma spesso il viaggio presenta rischi e pericoli che compromettono la vita dei giovani eritrei.
Appena superato il confine con il Sudan, bande di trafficanti di uomini rapiscono gruppi di migranti: li caricano su auto e pullman, li rivendono e li conducono fino al cuore del deserto del Sinai, terra di nessuno tra Egitto ed Israele dove la povertà è all’ordine del giorno. Proprio in quell’angolo arido di pianeta, i giovani eritrei vengono imprigionati per mesi e mesi, tenuti come ostaggi in uno scantinato e torturati.

Voyage en barbarie, documentario selezionato da Internazionale per il suo festival a Ferrara e presentato a Bologna per Mondovisioni martedì 15 marzo, racconta le storie di chi è riuscito a sopravvivere al Sinai, anche grazie al sostegno di Meron. Grazie alla sua trasmissione radio, da anni ormai raccoglie, ascolta, registra le voci e le testimonianze degli ostaggi e delle loro famiglie. Spesso ospita anche nel suo studio/salotto ragazzi come Robel, 24 anni, che se pensa a quello che ha passato, confessa di essere “vivo per errore”. Il documentario di Delphine Deloget e Cécile Allegra mostra più che raccontare, fa da megafono senza urlare, con le sue inquadrature pulite e la luce cruda pone al centro della narrazione le storie dei ragazzi.
Le testimonianze si incastrano e si intrecciano tra la Svezia e l’Egitto costruendo un unicum narrativo che, mano a mano che scorrono i minuti, dipinge di fronte allo spettatore il quadro di quello che sta succedendo proprio ora. Il più giovane ha 15 anni, il più “vecchio” 25, legati dalla stessa esperienza fatta di sangue, sangue ovunque, bastonate, pugni, catene, ferite causate da ferro incandescente, capelli bruciati, giornate trascorse appesi per le mani o per i piedi senza bere né mangiare. Il tutto per ottenere migliaia di euro di riscatto – la cifra standard per un eritreo si aggira tra i 40.000 e i 50.000 Euro, cifre considerevoli se si considera che il reddito pro-capite medio è pari a 400 $. “Non ho nulla contro gli africani, spiega cinicamente uno dei capi dei trafficanti, è solo commercio e gli eritrei valgono oro”.
Il sistema nei campi di tortura è strutturato al punto che, per indurre le famiglie a pagare i soldi richiesti, i migranti vengono costretti a telefonare a casa: una volta che qualcuno avrà risposto, cominceranno le torture. Le urla e i pianti dei propri cari echeggiano nella cornetta, lasciando una scia di disperazione. Spesso sono le madri ad assistere impotenti a questa barbarie, spesso sono loro poi a dover andare di casa in casa, nel paese, ad elemosinare qualche soldo per raggiungere le cifre richieste. Qualcuno ce la fa, come Filmon o Robel, ma cosa resta di questo Voyage en barbarie? Chi sanerà le ferite sulla pelle, e quelle sotto la pelle?

Meron ha fiducia. A un ragazzo che la chiama da uno scantinato sperduto nel deserto, risponde “Ti passo Robel, ha vissuto quello che hai vissuto tu. Ti darà un po’ di speranza.” Speranza come balsamo per curare le ferite di barbarie, i cui responsabili hanno nomi, volti, indirizzi. La battaglia di Meron è quella di chi ha ascoltato troppe madri disperate, troppi ragazzi pronti a togliersi la vita: briciole rispetto alle 50.000 persone che, si stima, sono state torturate dal 2008.
Voyage en barbarie è un documentario crudo e diretto che lascia lo spettatore in un silenzio denso di domande, nella disperata ricerca di un senso, di una reazione, di una spiegazione. Invece, di fronte, c’è soltanto ciò che accade a persone marginalizzate dalla storia, dall’attualità e dal diritto. In una condizione in cui l’umano è spogliato anche della sua dignità e nessuno se ne cura, restano persone senz’orbita, “schiuma della terra” li chiamerebbe Hannah Arendt, con le loro storie da raccontare e la loro pelle, proprio la pelle che parlerà sempre per loro.