Johannes è un ragazzo di 39 anni. A guardarlo bene, però, ne dimostra poco più della metà. È nato e cresciuto a Roma da genitori eritrei. Il suo marcato accento romano mi lascia, sinceramente, un po’ spiazzato. Sua madre e suo padre sono fuggiti dall’Eritrea nei primi anni ’70. “Fanno parte, mi spiega, della prima grande diaspora del popolo eritreo”. Mi confida che la sua infanzia è stata, letteralmente, un inferno. Fino a 16 anni ha vissuto in collegio, perché sua madre faceva la colf per una ricca famiglia romana e non poteva badare a lui. Retaggio storico, tra le tante cose, di un’epoca post coloniale in cui era normale che gli italiani lasciassero il paese con domestiche al seguito.
“Il problema principale, mi dice, è che questo paese non riconosce la cittadinanza diretta a chi nasce sul suolo italiano”. A lui, se possibile, è andata anche peggio. Di cittadinanze, infatti, ne ha dovute cambiare addirittura tre. Per un periodo, quando l’Eritrea era parte federata dell’Etiopia, è stato cittadino etiope. Poi, quando il suo paese ha raggiunto l’indipendenza, nel 1993, ha preso quella dei suoi genitori. Oggi, invece, è un italiano a tutti gli effetti. Almeno sulla carta d’identità, e non è poco.
“Ottenere quella cittadinanza italiana, ammette con un po’ fastidio, non è stato facile”. Certificato di nascita, diplomi scolastici e vaccinazioni varie. Un ingarbugliatissimo iter burocratico, da portare a compimento entro il diciannovesimo anno di età. “Altrimenti rischi di perdere per sempre l’opportunità di farlo e sei costretto, se vuoi mettere nel portafoglio quel pezzo di carta, a sposare una donna italiana”. Qualche anno fa ha deciso di prendersi a cuore la causa di chi si oppone alla dittatura di Isaias Afewerki che, da quando è al potere, non ha più permesso libere elezioni. Una mancanza di democrazia che causa, oggi, questo, ininterrotto, esodo di massa.
Scappano, i giovani eritrei. Fuggono dalla povertà e dalle grinfie di un regime che mette in carcere gli oppositori, impone la leva obbligatoria a tempo indeterminato e costringe la popolazione ai lavori forzati. A flotte lasciano il paese, da oltre quarant’anni. Solo nel 2015 sono stati, numeri alla mano, il terzo gruppo di migranti e profughi sbarcati in Italia. Si può parlare di tutto con gli eritrei, ma non di politica. Quella fa paura. Gli occhi e le orecchie degli informatori, infatti, sono dappertutto.
Quando arrivano da noi sono i primi a chiedere lo status di rifugiato. Sanno benissimo di averne pieno diritto. Ad oggi, sono circa 9.000 gli eritrei presenti in Italia. La maggior parte di loro vive tra Roma e Milano dove ci sono le due comunità più grandi e radicate. Circa la metà sono donne. Tra tutte le comunità migranti, sono praticamente le uniche a mettersi in viaggio da sole. Sono “toste” le donne eritree, durante la guerra d’indipendenza sono salite sulle montagne come vere partigiane. Solo pochi mesi fa, hanno sfidato la polizia che voleva sgomberare il palazzo occupato di Via Curtatone. Protette solo dai loro nezelà bianchi. Della loro “pericolosità” se n’era accorto anche Mussolini, che volle eliminare le “belle abissine” dalle canzoni di propaganda e non solo.
Quasi il 90% degli eritrei sparsi nel mondo è passato da qui: dall’Italia. “È come quando litighi con i tuoi genitori e vai a cercare conforto a casa dei tuoi nonni”, spiega un anziano signore in un bellissimo documentario dal titolo evocativo: Good morning Abissinia. Ecco come ci vede, o forse sarebbe meglio dire ci vedeva, chi come i genitori di Johannes è partito dall’Eritrea nei gli anni ’70, con l’idea, un giorno, di farvi ritorno.

“Qui in Italia ci sente sempre un po’ stranieri”, mi dice Semir quando lo incontro a Porta Maggiore. Prima di arrivare in Italia, ormai 12 anni fa, faceva il giornalista. Poi, la repressione del regime per il controllo dell’informazione l’ha costretto alla fuga. Ora lavora per la Croce Rossa ed è sposato con una donna italiana di origini eritree. Secondo lui, chi nasce sotto la bandiera italiana dovrebbe essere automaticamente italiano. Il riferimento è a suo nonno, ascaro, e a suo padre nato quando in Eritrea gli uffici pubblici erano ancora italiani. “Nel suo certificato di nascita, infatti, c’è scritto che è italiano, ma la cittadinanza non l’ha mai ottenuta”. Come lui, centinaia di altri eritrei.
Colpa di una legge del 1992 quasi completamente disattesa dal Governo italiano. Una legge che, teoricamente, avrebbe dovuto garantire il riconoscimento della cittadinanza anche ai discendenti “in linea diretta di secondo grado”. Teoricamente sì, perché alla prova dei fatti, di tutte le domande inoltrate solo 80 sono state accolte. Le altre sembra siano rimaste chiuse in qualche cassetto di qualche sperduto ufficio romano.
Per capire il legame, profondo, che esiste tra questi due paesi Semir mi racconta del odore di cappuccino e cornetti caldi che si può respirare nei bar di Asmara. La piccola Roma, come il regime fascista amava chiamarla, Specchio riflesso di un passato, che sempre secondo Semir, non si può cancellare, ma del quale nessuno sembra aver voglia di parlare. “Del rumore assordante di vecchi bolidi, di cui ammetto di non sapere nemmeno l’esistenza, e che sembrano appena usciti, nuovi di zecca, da uno stabilimento FIAT. Dei nomi dei quartieri e della loro architettura simile a quella di alcune zone di una città che non l’ha fatto mai sentire davvero a casa sua”.
Tra tutti, c’è un quartiere che rimane particolarmente impresso. Campo cintato, si chiama, ed è il simbolo più evidente della segregazione a cui erano sottoposti gli eritrei durante l’epoca fascista. Una zona esclusivamente per bianchi, dove ai neri non era permesso passare. La madre di Johannes, a tal proposito gli raccontava delle frustate che riceveva se veniva scoperta ad attraversare le vie o le piazze di camposcintato, come lo chiamano le persone del luogo utilizzando una bizzarra traduzione fonetica. Di quel periodo, sono rimasti anche i nomi propri degli oggetti più comuni, i numeri e, persino, le parolacce.
Scopro con mia enorme sorpresa, per esempio, che gli eritrei chiamano il cucchiaino manca. Il nome deriva da un divertente episodio avvenuto durante gli anni ’30, quando la presenza italiana cominciava a farsi più massiccia. C’era un ristoratore che, nel vano tentativo di insegnare ad un cameriere eritreo la disposizione delle forchette e dei coltelli sui tavoli, si rese conto che qualcosa mancava sempre. Così, quel famigerato cucchiaino ora è ciò che più di ogni altra cosa ci unisce a questo paese così ricco di storia e cultura.
La cultura, la lingua e la storia sono, infatti, profondamente legate. Si può scommettere, senza rischiare troppo, che persino i libri di scuola siano molto simili ai nostri. Narrano le stesse vicende. Alcune pagine andrebbero rilette, forse. Ripulite da quella patina di sporco che proviene direttamente dall’epoca coloniale. “Defascistizzare la figura degli ascari sarebbe già un buon inizio”, dice Johannes. Guerrieri fedeli ed impavidi, senza i quali Libia ed Etiopia non sarebbero mai state conquistate.
Anche il sistema d’accoglienza, quando si rivolge agli eritrei, ma non soltanto, andrebbe rivisto. Una volta arrivati in Italia, infatti, agli eritrei vengono consegnati i moduli da compilare per fare domanda d’asilo. Poi, però, vengono abbandonati a loro stessi. “È proprio questo che, spiega Semir, rafforza in noi la convinzione di essere stati dimenticati ad un triste destino”. Costretti a vivere in palazzoni occupati, con la paura costante di essere sgomberati dalla polizia. O se va bene, di essere minacciati e insultati se ottengono legalmente una casa dal Comune.
Non c’è da stupirsi, allora, se tra gli eritrei bianchi che frequentano il bar Massawa a Roma o uno dei qualsiasi degli altri ristoranti e negozi eritrei sparsi un po’ in tutta Milano, il sentimento più diffuso sia il rancore. Lo stesso che Johannes ammette di provare ogni volta che ripensa a cosa è stata la sua vita. Figli di un Dio minore, senza diritti e privati della loro dignità. In attesa che un giorno qualcuno si accorga di loro e si offra di chiedere perdono per cinquant’anni di sfruttamento e violenza. Loro, gli eritrei, nel frattempo continueranno a sentirsi sempre un po’ italiani. Perché in fondo, è quello che sono. Fratelli e sorelle, figli e nipoti, di un paese dalla memoria corta e dal passato scomodo.
Mattia Bagnato
[La foto di copertina è tratta dal ZeroViolenza.org]