Baby Boomers contro Millennias: nessuno è sincero

“Dice che non ritornerà mai più, ma dovremo rinunciare alla salsa di soia e a Red Dead Redemption II…”

“oh…. Solo semplice riso in bianco?

“Già… Quello che ho pensato anch’io”

Per capire e raccontare il cambiamento climatico, per cercare non solo di immaginare, ma anche di descrivere gli effetti che il riscaldamento globale (e non solo) avrà sulle nostre vite, la tendenza collettiva è quella di semplificare. Sarebbe tutto più facile, infatti, se si potesse individuare subito una vittima e un carnefice, qualcuno che ha colpa (i Baby Boomers, nati nel periodo del boom economico tra il 1945 e il 1964) e qualcuno che ne subisce le conseguenze (i Millennials, nati fra gli ’80 e i ’90), pulito e incolpevole.

È un discorso che non è, di per sé, necessariamente sbagliato, ma va espresso con cautela. Non è errato sostenere che il sistema socio-economico nel quale siamo immersi carichi i costi ambientali e sociali su una fetta (enorme) di popolazione, mentre concentra i benefici su una minuscola parte. Al contrario, sostenere che lo status di vittima e carnefice si applichi su base temporale – per cui le generazioni passate, crudeli, hanno ignorato egoisticamente i costi che sarebbero ricaduti sulle incolpevoli generazioni future – non solo ha poco senso, ma crea anche problemi interpretativi.

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L’equivoco è alla portata. Da una parte una generazione, quella dei Baby Boomers, spesso accusata di essere l’origine di ogni squilibrio contemporaneo, che ha beneficiato dello sviluppo economico reso possibile dallo sfruttamento incontrollato delle materie prime, dall’altra i Millennials, giovani vittime di un equilibrio ambientale ormai compromesso. Indica il colpevole, indica la vittima.

Al netto però di queste semplificazioni, ogni ragionamento sulle cause del disastro ambientale che ci minaccia e si fa sempre più vicino, non può più prescindere da una presa di coscienza collettiva del fatto che non esistono ruoli determinati su base anagrafica.
Per rendere quest’analisi un po’ più pop, sosterrò la mia tesi aiutandomi con il sempre verde South Park, che nella sua ventiduesima stagione dedica una mini-storia di due episodi (22×06 Time to get cereal? e 22×07 Nobody got cereal) al tema del cambiamento ambientale (riabilitando in parte la figura di Al Gore, denigrata dallo stesso programma poco più di dieci anni fa per aver per primo espresso preoccupazioni riguardo al tema del cambiamento climatico).

La storia comincia con un essere semi-mitologico che comincia a fare strage nella cittadina del Colorado. L’uomo-orso-maiale, trasposizione cartoon del cambiamento climatico, è un essere misterioso, a cui la maggior parte delle persone inizialmente non crede, ma che comincia a destare preoccupazione.

nessuno è sincero
Quando dovrei cominciare a preoccuparmi?
Credo sia arrivato il momento di porci seriamente l’interrogativo se sia il caso di cominciare a valutare la possibilità di preoccuparci presto.
da South Park 22×07 Nobody Got Cereal

Man mano che la bestia miete le sue vittime, i bambini di South Park si rendono conto che l’origine del problema è stato un patto firmato dalla generazione dei nonni con l’uomo-orso-maiale. In cambio di macchine e gelati deluxe, i boomers di South Park sacrificavano il loro futuro, ai loro occhi così lontano.

Pensavamo saremmo morti prima che arrivasse il momento!

Scoperto ciò, i bambini convocano la bestia e, in una scena grottesca, chiedono la revoca del patto, proponendo di restituire le macchine costose e i gelati domandati dai boomer. Ma i tempi sono cambiati e la bestia, per scomparire, esige in cambio due beni largamente utilizzati nella cittadina: salsa di soia e Red Dead Redemption II, il popolarissimo videogame. I bambini non ci stanno, rinegoziano il patto, ritardando così gli effetti del disastro di cinque anni.

L’episodio ben rappresenta come l’uomo e le economie avanzate affrontano il problema del cambiamento climatico. Anche quando comincia a colpire, quando i suoi effetti si fanno manifesti, persiste nella società una sorta di resistenza a percepire il pericolo come tale.
Sì, d’accordo, dovremmo preoccuparci, ma poi? In cosa evolve la preoccupazione? Le scene ricorrenti di personaggi televisivi e cittadini vari che, nel cartone, ragionano sulla necessità o meno di cominciare a preoccuparsi non è tanto una facile forma di ironia rivolta verso chi non crede al cambiamento climatico, quanto semmai la traduzione satirica di una confusione di massa: preoccuparci di cosa? Serve davvero a qualcosa?

L’assenza di un piano condiviso, di una chiara consapevolezza di come le varie comunità affrontano la lotta al climate change, si traduce in una vaga percezione di impotenza. L’impotenza, a sua volta, si traduce in costanza nello stile di vita e nel consumo. Inoltre, nella dialettica di South Park, la critica alla narrazione del conflitto intergenerazionale si fa evidente. Il problema non è che quella generazione particolare (i boomers) è stata avara e ha ipotecato il futuro dei nipoti, ma che chiunque posto nella condizione di trasferire un costo lontano da sé, geograficamente e cronologicamente, lo fa. Noi, ad esempio, lo facciamo, ogni giorno su questa terra. Nobody got cereal.

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Copyright © 2014 CartoonArts International

Alla rappresentazione del problema manca però una dimensione fondamentale: il nesso tra sistema di produzione e impatto ambientale. Da un certo punto di vista, la retorica insiste unicamente sulle abitudini di consumo, come se valesse una prerogativa della domanda sull’offerta. Si inizia a produrre (e si produce) perché qualcuno domanda.
In questo modo, l’analisi si riduce alla critica dei vizi di consumo delle società avanzate e delle loro popolazioni, colpevoli di commettere la stessa ingiustizia intergenerazionale su una dimensione spaziale. La realtà è molto più complessa di così, come sappiamo.

Il capitale è tale se esaurisce il suo ciclo in sé stesso, cioè se permette accumulazione. Sorrette da questo principio, le logiche di minimizzazione dei costi e massimizzazione dei profitti spingono la produzione verso modalità sempre più economiche, modalità che permettano la massima accumulazione per unità di capitale investito. L’aumento della base d’acquisto, ossia della domanda di determinati beni, che segue l’ascesa di una nuova classe media globale nei paesi in via di sviluppo, impone un aumento dell’offerta che è possibile solo aumentando il tasso di sfruttamento delle risorse.

Nel tempo, il processo di globalizzazione diretto liberamente dal capitale ha prodotto uniformità nella domanda che non è tanto noiosa, quanto insostenibile. Una domanda variegata, regionale e limitata, permette uno sfruttamento limitato delle risorse necessarie a soddisfarla. Allargare a miliardi di persone l’accesso a beni che una volta venivano prodotti per milioni di utenti crea una pressione sulla produzione e sull’utilizzo di materia prima.

avocado toast

La banana, bio-killer sui-generis è un ottimo esempio di produzione incompatibile con il mantenimento della bio-diversità. Stesso ragionamento per l’avocado, abitudine alimentare dei Millennials proprio perché prodotto in massa a scapito di altre coltivazioni. Se non venissero prodotti in questo modo, non sarebbero  poi acquistati in massa e si impedirebbe al capitale di completare il processo di accumulazione iniziato.

Non è un problema di colpe dei padri che ricadono sui figli, ma di modelli produttivi.

Questa riflessione, che non vuole essere una critica alla globalizzazione fine a sé stessa, intende solo mettere in luce come spesso, problemi che sono traslati sulla domanda (e quindi su tutti), sono frutto di una retorica che giustifica la produzione e la deresponsabilizza della sua funzione di creazione di domanda.
A conferma di ciò – ovvero della mancata individuazione di una responsabilità in chi propone modalità di consumo – c’è il fatto che la questione ambientale è un problema multidimensionale, composto da molti fenomeni, molti (se non tutti) riconducibili alla produzione industriale.

Il problema più urgente, quello del surriscaldamento del clima per via delle emissioni di gas serra, è stato riconosciuto ed è obiettivo di politiche di contenimento, mentre gli altri sono ancora poco interiorizzati dall’opinione pubblica. E parliamo di tematiche fondamentali per la sopravvivenza dell’umanità come la perdita di biodiversità, il consumo dei suoli, l’inquinamento dei bacini idrici, la deforestazione e lo smaltimento dei rifiuti.

Secondo il WWF, nel 1964 si producevano 15 milioni di tonnellate di plastica, ora salite a 310 milioni. Plastiche che sono ormai presenti nei ghiacci, nelle fosse oceaniche, nei mari chiusi e nelle rocce vulcaniche, contribuendo a cambiare il volto geologico del pianeta. Anche questo elemento ha effetti che ancora non sono chiari e ancora non percepiamo come problema. Ancora, le modalità di consumo indotte dalla produzione, come le plastiche mono-uso, sono un fattore fondamentale.

Ripensare le modalità di consumo e di produzione, ripensare lo sviluppo capitalistico a livello globale, sono ormai step necessari per provare a dare una sferzata ai cambiamenti climatici in atto. Non possiamo più pensare che il modello economico attuale sia l’unico possibile, né il migliore.
Il tempo ci racconterà come ci adatteremo alle mutazioni in atto e come si adatterà l’ecosistema in cui viviamo, coscienti che la vita sulla terra è possibile all’interno di sistemi complessi di interdipendenza, che non possono venire rotti o modificati a piacimento.

Luca Sandrini

Immagine in evidenza pubblicata da Tom Dorrington su Facebook

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