Banane al veleno: sai cosa mangi?

Le banane sono il frutto più commercializzato al mondo. Coltivate in più di centocinquanta paesi, ne vengono prodotte 107 milioni di tonnellate all’anno. Costituiscono una delle principali fonti di reddito di molti Paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Per fare solo qualche esempio, rappresentano il 10% del totale dei prodotti esportati dall’Ecuador e si stima che, per ogni dollaro che circola in Repubblica Dominicana, sei centesimi siano generati dalla produzione di banane.

Eppure, sappiamo ben poco su questo frutto, su quanti tipi ne esistano, su come sia prodotto. Avete mai provato a chiedervi quante varietà di banane ci sono? Probabilmente no, ma sono sicura che se lo faceste rispondereste: una sola. Invece non è così. Ne esistono quasi un migliaio, ci sono banane lunghe e sottili, corte e tozze, rosse (Red Dacca), arancioni, verdi e perfino blu (Blue Java Banana). Purtroppo però nessuno di noi le ha mai sentite nominare e stanno lentamente scomparendo. Il 99% delle banane consumate al mondo appartiene alla varietà Cavendish, l’unica che troviamo in commercio.

Sono vari i problemi legati alla produzione di banane, sia di tipo ambientale sia sociale. La coltivazione di banane richiede un’ingente quantità di pesticidi. Le piantagioni, che raggiungono i cinque mila ettari, sono irrorate con fertilizzanti chimici tre o quattro volte al mese. I pesticidi sono dannosi per l’ambiente e per la salute dei lavoratori, che sono quotidianamente vittime della loro unica fonte di reddito: paghe ben al di sotto della soglia del salario minimo, straordinari non pagati, ferie non garantite, assenza di assicurazione sanitaria, continua esposizione ad agenti chimici che causano cancro, aborti spontanei e malformazioni congenite. Alcune mansioni sono svolte solo da donne, che si trovano in una posizione ancora più debole e precaria sul luogo di lavoro. È così che accadono ulteriori violazioni di diritti, dalle avances agli abusi sessuali da parte dei capi. Storie difficili e dolorose di donne che rimangono incinte e nascondono la gravidanza per paura di essere licenziate e che rimanendo a contatto con le sostanze chimiche per tutto il periodo della gravidanza spesso hanno aborti spontanei. E poi c’è il lavoro minorile, che sebbene stia diminuendo è ancora presente in alcune piantagioni.

I problemi ambientali causati dall’uso massiccio di pesticidi sono gravissimi: contaminazione delle acque dei fiumi, erosione del suolo, aumento del rischio d’inondazioni e disboscamento. Inoltre, questo sistema industrializzato dell’agricoltura ha causato oltre alla perdita di biodiversità, anche l’indebolimento della tipologia di banana commercializzata: i sistemi di coltivazione uniforme a lungo andare diventano vulnerabili, incapaci di adattarsi agli imprevisti climatici, agli attacchi parassitari, ai funghi. Per questo diventa indispensabile l’uso d’insetticidi e pesticidi. I parassiti si adattano e sono necessari insetticidi sempre più forti. L’acqua inquinata è dannosa per l’ecosistema e per le persone che vivono in quelle zone, che la usano per lavarsi, bere e cucinare. Un circolo vizioso, da cui è difficile uscire, che porta alla distruzione dell’ecosistema e alla morte di molte persone.

Il viaggio verso il resto del mondo è lungo e per far arrivare le banane a destinazione con il giusto grado di maturazione, le imprese cospargono i frutti di sostanze chimiche. La più comune è il tiabendazolo, utilizzata per contrastare muffe e altri tipi di funghi. Tutto questo per una disperata ricerca del profitto che non guarda in faccia niente e nessuno.

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La campagna europea MakeFruitFair! mira a fermare lo sfruttamento dei lavoratori e l’inquinamento ambientale. Quello che si cerca di fare è formare dei consumatori consapevoli, che vogliano pagare il prezzo giusto per ciò che consumano. MakeFruitFair! è nata in Germania nel 2010 e nel marzo 2015 è stata ampliata a livello mondiale. Oggi diciannove ong europee ed extraeuropee – in Italia se ne occupa GVC onlus – sono impegnate nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica e della classe politica e pretendono pratiche di consumo, commercializzazione e condizioni di lavoro più sostenibili nella produzione della frutta tropicale.

Per raggiungere l’obiettivo, le ong lavorano in collaborazione con le piccole organizzazioni di agricoltori e sindacati nelle piantagioni in Africa, America Latina e Caraibi, dialogano con le grandi multinazionali coinvolte nella catena di produzione e distribuzione della frutta tropicale, realizzano campagne massmediatiche e studi approfonditi nei diversi paesi delle politiche di acquisto e prezzi dei supermercati. La campagna chiede ai supermercati, che sono i più potenti attori lungo la filiera, di pagare prezzi equi ai loro fornitori affinché coprano i costi di una produzione sostenibile. Si lotta affinché i salari nelle piantagioni siano adeguati alle mansioni svolte, sia garantita l’adesione ai sindacati, si rispetti l’ambiente attraverso la riduzione dell’utilizzo di agrochimici tossici e che i governi regolino l’acquisto e il commercio dei prodotti da parte dei supermercati per impedire qualsiasi tipo di abuso.

Se vogliamo che le cose cambino la palla in mano ce l’abbiamo noi consumatori. Si tratta di scegliere tra un prodotto che è il frutto di continue violazioni di diritti umani e ambientali e un prodotto che a fronte di un prezzo più elevato ne garantisce il rispetto.

Sabrina Mansutti

@sabrinamansutti

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