“Soyalism”, conosci e parla (di) come mangi. Intervista a Stefano Liberti

Negli anni Sessanta, in Cina, si consumavano circa 6 kg di carne a testa in un anno, oggi la quantità è lievitata fino a 60 kg (dati FAO). Come è stato possibile? È successo che, mentre cresceva il benessere fuori dagli Stati Uniti e dall’Europa Occidentale, si diffondevano anche modelli di consumo alimentare che hanno fatto sì che la carne non fosse considerata più un bene di lusso. È ormai accessibile, a poco prezzo, nei supermercati quasi ovunque, ma non significa che questa globalizzazione dei consumi non abbia un altro costo che paghiamo collettivamente. Un costo che si compone dell’inquinamento provocato dal sistema di allevamento intensivo (pari al 14,5% delle emissioni di gas serra su scala globale), della deforestazione di interi territori dedicati a coltivazioni intensive che consumano il suolo, dello sfruttamento delle risorse ambientali e umane si celano dietro al sottocosto.

Questi sono i temi al centro dell’incontro “Parla (di) come mangi”, mercoledì 13 marzo a partire dalle ore 17.30 al circolo CostArena di via Azzo Gardino 78 a Bologna. Insieme alla redazione di The Bottom Up ci saranno il giornalista e scrittore Stefano Liberti, Raffaele Guarino, presidente di ExAequo, e Roberta Mazzetti dell’emporio solidale Camilla. L’incontro ad ingresso gratuito, organizzato in collaborazione con Resilienze Festival, anticipa la prima proiezione bolognese di “Soyalism” (Cinema Lumière, alle ore 20, biglietti disponibili online), un documentario realizzato proprio da Liberti insieme ad Enrico Parenti. Si tratta di un vero e proprio viaggio dalla Cina agli Stati Uniti fino al Sud America e all’Africa per poter raccontare la filiera dell’allevamento dei maiali.

Chiediamo proprio al giornalista – che da anni si occupa dell’argomento, a proposito del quale ha pubblicato il volume “I signori del cibo” e diversi reportage su Internazionale – come è nato questo lavoro di inchiesta dal respiro globale. 

“Siamo partiti dall’idea di indagare il funzionamento del sistema di produzione alimentare mondiale. Solo dopo, cercando di ridimensionare l’argomento, abbiamo scelto di concentrarci sulla carne di maiale che è un caso emblematico, utile a comprendere come funziona l’intero sistema.

Emerge come la filiera si alimenti di una serie di esternalità negative come l’inquinamento, il consumo di suolo e via dicendo, che vengono scaricate sulla comunità intera, ma non sul prezzo che paghiamo al supermercato. Anzi, il costo sostenuto dal consumatore singolo è molto basso, ma le conseguenze collettive restano sistematicamente fuori.

Prima in Cina e poi negli Stati Uniti abbiamo visto come gli allevamenti intensivi di suini producano effetti negativi sia sull’ambiente che sui legami sociali in tutto il pianeta. Il viaggio ha fatto tappa anche in Sud America e Africa per poter mostrare come, oggi, è tutto interconnesso a livello globale. Quello che si vede sullo schermo accade identico ovunque nel mondo, anche nella Pianura Padana.”

 

Si parla di un vero e proprio sistema che nasce negli Stati Uniti, ma ha trovato terreno fertile anche in Cina a comporre un asse dello sfruttamento che si regge su metodi ed elementi comuni e ha conseguenze intrinsecamente globali. Quali sono queste caratteristiche che si ritrovano ovunque e danneggiano il pianeta?

“Cosa succede quando un miliardo e mezzo di cinesi decide di emulare i modelli alimentari occidentali, con consumi di proteine animali molto elevati, replicando un modello che già di per sé è insostenibile? Questa è la domanda da cui parte l’osservazione di una filiera che, nelle varie tappe, si compone sì dell’allevamento intensivo dei maiali stipati nei capannoni, ma anche delle grandi monocolture, sviluppate principalmente in Sud America, per poterli nutrire.

Quando chiudi gli animali, che siano maiali, mucche o polli, in spazi ristretti, hai bisogno di garantire loro del cibo per alimentarsi, dato che non lo possono più fare da soli. È qui che troviamo i mangimi, prodotti con mais e soia che, in particolare, viene prodotta in spaventose distese che stanno portando al disboscamento di intere aree del Mato Grosso e della Foresta Amazzonica.” 

Il rischio, quando si parla di questi temi, è di scontrarsi con il disinteresse del pubblico in Italia che si sento poco coinvolto in quanto accade nel cuore della Foresta Amazzonica oppure in Cina. I rami di questo sistema di produzione insostenibile dal punto di vista ambientale, prima ancora che etico, arrivano però fino in Italia. In che modo?

“Ricordiamo che quando mangiamo il Prosciutto di Parma DOP, questo è prodotto da maiali alimentati con la soia che con ogni probabilità arriva dal Sud America. E quindi, non soltanto ha fatto migliaia di km per poter arrivare in Italia (con l’inquinamento che ne consegue), ma ha anche indirettamente portato ad una devastazione dell’ambiente che si ripercuote su tutto il pianeta. 

Spesso, alle presentazioni di “Soyalism”, ci viene chiesto perché non abbiato trattato l’Europa o l’Italia nel film. La nostra risposta è in realtà molto semplice. L’obiettivo è raccontare un modello di produzione globale e per farlo abbiamo scelto degli esempi dalle dimensioni imponenti. Pensiamo che in Cina vengono allevati e macellati ogni anno 700 milioni di maiali, mentre in Italia 9 milioni.

Per di più, è importante sottolineare come l‘allevamento intensivo funzioni allo stesso modo anche in Europa. Il fatto che i maiali siano concentrati nei capannoni e che, nel momento in cui sono così stipati e non al pascolo, debbono essere nutriti è qualcosa che non solo accade anche qui, ma descrive una situazione che conosciamo. Senza dimenticare che gli animali così vanno, da un lato, nutriti e dall’altro producono degli scarti che non sono più una risorsa.

Una questione che rende necessario anche un sistema di smaltimento di questi scarti che diventano veri e propri rifiuti.

“Faccio sempre un esempio che trovo semplice ed efficace. Nella Mesopotamia, allevamento e agricoltura consistevano in una forma di economia circolare in cui non si buttava nulla e il letame prodotto dagli animali era un prezioso fertilizzante per il terreno.

Oggi si parla di un’economia lineare industriale, in cui gli animali sono considerati come macchine produttive della carne, che hanno bisogno del carburante e dei quali bisogna smaltire gli scarti. Il risultato è un sistema estremamente efficiente perché consente di concentrare molta carne in poco spazio, ma inefficace perché ha delle esternalità negative non conteggiate che inquinano gli ecosistemi, distruggono i territori e non vengono pagate da chi compra la carne. Lo paghiamo, però, come deterioramento dell’ambiente in cui viviamo.”

Sappiamo come funziona il sistema dell’allevamento intensivo, eppure non sempre questa conoscenza si traduce in un comportamento virtuoso… 

“Si è creata una specie di distanza fisica che diventa anche una distanza cognitiva tra ciò che sappiamo e ciò che mangiamo, nel senso che quando chiunque mangia della carne non tende ad associarla all’animale da cui proviene. È tuttora una specie di tabù.

Penso che sia necessario parlare ancora di più di come le filiere alimentari abbiano un impatto ambientale ed etico sulla collettività, a partire da quanto accade vicino. La stessa Pianura Padana è inquinata e non solo per la concentrazione industriale, ma anche per gli allevamenti. Le stesse eccellenze alimentari del prosciutto, per restare nell’ambito della filiera del maiale, hanno fatto una scelta di tipo industriale, ovvero produrre tanto e vendere a un prezzo che sia, in fondo, basso. Per esempio, il Prosciutto di Parma DOP si può trovare anche a 25/30€ al kg. In Spagna, invece, sono state fatte scelte completamente diverse e i prosciutti vengono prodotti con animali allevati all’aperto e secondo determinati standard di alimentazione, tant’è che il prodotto finale è venduto a 100 euro al kg.

Sarebbe importante inserire nel computo del prezzo ogni passaggio, per cui la carne dovrebbe tornare ad essere quel bene di lusso che era nel secondo Dopoguerra. Poca quantità e ben allevata, con effetti migliori sulla salute, e pagata il giusto prezzo che includa, a questo punto, tutto quello di cui c’è bisogno per produrre carne in maniera più sostenibile.

Oggi vediamo una vera e propria invasione delle proteine animali proprio perché sono accessibili, è stata banalizzata questa produzione e personalmente penso che sia utile tornare a mangiarne di meno, conoscendola meglio.” 

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È l’ambiente a pagare il conto al posto delle persone. Ma oggi registriamo una nuova attenzione a proposito di questo tema: si parla molto di ambiente, di cambiamento climatico e dell’esigenza di fare qualcosa per tutelare il pianeta, soprattutto da parte dei giovani uniti in tutta Europa. Perché è importante parlare delle filiere alimentari proprio in questo contesto?

“Penso che gli scioperi per il clima in tutta Europa, in tutto il mondo e finalmente anche in Italia, siano una delle cose più interessanti che stanno succedendo nell’ultimo periodo. Le nuove generazioni stanno dimostrando una sensibilità maggiore rispetto a chi prende le decisioni a proposito del cambiamento climatico, tra le cui cause c’è anche un certo modello di produzione alimentare. 

In generale, l’agricoltura è una modifica delle condizioni naturali da parte dell’uomo, è qualcosa che avviene da sempre, però bisogna trovare un equilibrio tra la rigenerazione delle risorse e il consumo. L’agricoltura industriale e l’allevamento intensivo hanno, invece, un approccio distruttivista, per cui si pensa a drenare risorse senza valutare come rigenerarle. L’ambiente, in fondo, è per tutte le persone che si occupano della produzione del cibo la risorsa che per prima permette di portare avanti l’attività, ma questo principio talvolta sembra sfuggire.

Rivedere, dunque, i modelli alimentari di produzione e consumo è una delle questioni più urgenti di questo tempo. Avremo un pianeta sempre più affollato e con risorse limitate, tocca a noi fare in modo che non si esaurisca tutto.” 

Un’ultima domanda che forse è quella più cruciale e che ci stiamo ponendo in tutti gli articoli di questo speciale di The Bottom Up dedicato all’ambiente che ormai è agli sgoccioli. Si dice “tocca a noi”, ma cosa si può fare concretamente?

“Partiamo dalla distanza che c’è tra gli oggetti e i beni che consumiamo, dal cibo ai vestiti fino agli smartphone, e la loro origine. Non sappiamo nulla di come sono arrivati da noi né di che processi hanno subito, sappiamo che ci interessa spendere il meno possibile. Superiamo questa prospettiva e ricerchiamo proposte dove ci sia un racconto, una trasparenza, una tracciabilità che ci permettano di capire – per esempio – che vita ha fatto un certo animale prima di diventare carne e che, se costa il doppio, è per questo. E queste informazioni le devo trovare sull’etichetta

In questo modo, ci mettiamo di fronte alla possibilità di operare una scelta consapevole e sulla base delle nostre priorità. È un dibattito che, per fortuna, si sta muovendo, ma al momento non c’è ancora una piena coscienza e conoscenza della provenienza del cibo che consumo, e questo è un problema.”

 

Angela Caporale

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