“Proviamoci, almeno non saremo complici.”
Luca Mercalli
Durante il mese di febbraio sono partita per una vacanza a Cuba. Un viaggio molto importante e impegnativo, sia a livello pratico che emotivo, per svariate ragioni. Cuba è ancora per molti versi una realtà isolata, dove l’accesso alle informazioni e la possibilità di viaggiare sono limitati. Le differenze, economiche, sociali e politiche con l’Europa sono enormi e, se si organizza un viaggio al di là dei resort e di qualche gita di un giorno, è impossibile non esserne colpiti.
Tra le varie differenze, una in particolare ha avuto su di me un impatto molto forte, probabilmente perché non l’avevo minimamente presa in considerazione prima di partire: la gestione dell’ambiente. Fin dall’arrivo a L’Avana ho notato una forte incuria da parte dei locali, che buttano rifiuti pressoché ovunque senza pensarci. A un certo punto io e il mio compagno ci siamo ritrovati all’interno di una fiera, con un luna park e tante bancarelle di cibo, con persone che mangiavano sedute su un prato. Un prato che era ricoperto di rifiuti, in cui bisognava stare attenti a non sedersi su un rimasuglio di pollo o su una bottiglia di vetro o su una lattina. Camminare per le strade è spesso un’esperienza forte per il naso, i cassonetti sono aperti e traboccano. Ovviamente tutti i rifiuti vengono buttati insieme e spesso è già tanto che almeno vengano buttati nei cassonetti e nei cestini.

Un’altra, probabilmente più grave ma meno visibile, differenza sono i mezzi a motore: sì, proprio quelle vecchie auto che nelle foto hanno un aspetto tanto pittoresco, e nella realtà vanno ancora con il carburante di quarant’anni fa, emettendo quel bel fumo nero vintage che ti riempie il naso dell’odore di vero petrolio di una volta, quello bello che si attacca al palato e fa tossire.
Per me è stato un piccolo shock culturale. Vivo nella Germania della raccolta differenziata compulsiva e ricordo dilemmi amletici per capire dove collocare oggetti come scontrini e cartoni del latte. L’atmosfera generale di assenza di consapevolezza e interesse, la sensazione di tornare indietro a quarant’anni fa, la realizzazione che Cuba non è un unicum e che l’Europa e la Germania non sono la norma: tutto ciò ha messo in crisi idee che quasi davo per scontate. Sono tornata a casa demoralizzata. “Non abbiamo tempo per questo, non possiamo permetterci di aspettare paesi che sono così indietro”, questo mi ronzava in testa.

Poco alla volta, però, ho capito che la mia esperienza era stata positiva. Dobbiamo essere consapevoli del mondo in cui viviamo. Nella nostra bolla ecologica essere indulgenti è fin troppo facile. Renderci conto di dove realmente operiamo, della nostra posizione nel mondo in merito alle sfide poste dal cambiamento climatico: da lì può veramente nascere la nostra motivazione a fare qualcosa. Esploriamo dunque il nostro contesto reale, il pianeta.
Consumo energetico e smaltimento dei rifiuti: cosa succede nel resto del mondo?
Prendiamo in considerazione il settore dell’energia. Secondo il rapporto “Renewables 2018 Global Status Report” della rete REN21, “una rivoluzione nel settore delle energie sta guidando un rapido cambiamento verso un futuro di energia rinnovabile, ma la transizione non procede alla velocità necessaria”. Il 75% degli investimenti in questo campo provengono dall’Europa, dagli Stati Uniti e da una Cina che sempre di più sente la necessità di alleggerire le sue città dal famigerato inquinamento atmosferico.
Secondo il rapporto ci sono però progressi positivi anche in paesi in via di sviluppo, dove sono aumentati gli investimenti nelle fonti rinnovabili. La stessa tendenza si ritrova nel comportamento delle compagnie: con la riduzione dei costi associati alle energie rinnovabili, gli investimenti da parte di aziende nel settore sono cresciuti e si sono diffusi ben oltre Stati Uniti ed Europa.

(Cautamente) buone notizie, ma il cambiamento è comunque troppo lento, in particolare nei settori del riscaldamento e raffreddamento e dei trasporti, che costituiscono la percentuale più alta dei consumi energetici. Inoltre, con l’impiego di energia in crescita stabile e rapida, ci vorrà tempo prima che le alternative ai combustibili fossili si impongano realmente su larga scala.
E per quanto riguarda i rifiuti, come siamo messi? Non così bene. Secondo le proiezioni del World Bank Group, la produzione mondiale di rifiuti solidi potrebbe crescere del 70% da qui al 2050. I numeri sono chiari: un terzo della spazzatura è creata dai paesi sviluppati, dove pure si trova solo il 16% della popolazione del pianeta. Si prevede che l’Africa subsahariana arriverà a triplicare la sua produzione di rifiuti, mentre l’Asia la raddoppierà.

Secondo il rapporto del World Bank Group, suggestivamente intitolato “What a Waste 2.0”, il problema principale è l’assenza di una gestione oculata dello smaltimento, soprattutto nei paesi a basso reddito. Anche qui le cifre parlano in modo eloquente: nei paesi ricchi più di un terzo dei rifiuti viene riciclato, a fronte del 4% dei paesi poveri. Essere verdi richiede grossi investimenti, ma l’alternativa è finire sepolti dall’immondizia, in scenari alla Wall-E.
Dopo il colpo emotivo e la ricerca di contestualizzazione per capire esattamente dove ci troviamo, è il momento di metterci in discussione.
Domande difficili 1: perché noi personalmente dovremmo fare degli sforzi?
Tralasciamo il terrorismo psicologico e la pressione morale, o le semplificazioni tipo “rinuncia alla cannuccia e salva le tartarughe”. I cambiamenti individuali del nostro stile di vita sono diluiti dal mero peso dei grandi numeri. E anche se noi stiamo migliorando dal punto di vista del riciclo, basta espandere la nostra prospettiva per sentirci scoraggiati. Ad esempio, i soli paesi dell’Est asiatico producono il 23% dei rifiuti mondiali e si fanno carico anche di tonnellate e tonnellate di spazzatura straniera.
La domanda sorge dunque spontanea: che senso ha per me riciclare e ridurre la mia impronta ecologica? Non ho idea di dove andranno a finire i miei rifiuti e comunque sono solo un essere umano su 7,625 miliardi, che differenza posso fare? Inoltre, come la mettiamo con le responsabilità dei grandi gruppi industriali e l’inerzia dei governi nel creare e rispettare accordi internazionali? Qualunque cosa io faccia, 100 compagnie produttrici di combustibili fossili producono il 70% dei gas serra fin dagli anni Ottanta, e non smetteranno certo perché io decido di non usare più la macchina. Non è colpa mia, dunque perché dovrei fare qualcosa?

Citerò Mary Annaïse Heglar, direttrice di pubblicazione per l’associazione ambientalista NRDC e autrice di un articolo sul cambiamento climatico che è stato la mia guida nell’uscire dalla fase di ansia immobile in cui mi trovavo dopo il confronto con la realtà di Cuba . Secondo Heglar, “non è colpa nostra, ma è decisamente un nostro problema. Dobbiamo stringere i pugni e lottare, gli uni per gli altri”. Impegnarsi sul fronte ambientale non significa (solo) lottare per l’ambiente, ma significa cercare di tenere in piedi la società civile.
I cambiamenti climatici stanno già creando criticità in questo senso: alluvioni, uragani e incendi che devastano aree abitate, siccità e carestie che spingono a migrazioni di massa, arcipelaghi la cui superficie si fa sempre più ridotta con l’innalzamento degli oceani. Lo spostamento di grandi gruppi di persone sta già creando tensioni e continuerà a crescere. Non solo: l’aumento della popolazione mondiale incrementa il fabbisogno alimentare, ma terreni sono sempre più dedicati a monocolture come la soia, che non nutrono la popolazione locale, e le aree desertiche si estendono a vista d’occhio. Una volta che il cibo non sarà più sufficiente, come faremo a mantenere strutture sociali funzionanti?
Ci risiamo con il terrorismo psicologico, direte. Magari. Queste sono proiezioni reali di un futuro possibile. E dunque bisogna lottare, non solo per gli (adorabili) orsi polari, ma per l’umanità. Dobbiamo sforzarci per la nostra comunità, per le fasce più deboli che scivolano e scivoleranno sempre più nell’abisso, perché basta un attimo e in quell’abisso potremmo caderci anche noi. Dobbiamo raccogliere questa sfida per noi stessi. Perché anche a voler essere egoisti e fregarcene degli altri, compresi i nostri eventuali discendenti, noi stessi siamo troppo giovani per non vivere nell’arco della nostra vita i cambiamenti radicali dell’Antropocene. E, non so voi, ma io non mi ci vedo con un fucile in mano e una tuta mimetica a combattere per un pollo o un chilo di patate.

Va bene, direte, ma rimane il problema che siamo fra i primi e fra i pochi a farlo. A costo di essere banale, risponderò: da qualche parte bisogna cominciare. I cambiamenti radicali non sono mai semplici, né rapidi e richiedono grandi numeri. Probabilmente ci vorrà almeno un’altra generazione per portare alla definizione di modelli di sviluppo sostenibili, ma niente cambierà se le singole persone non faranno sentire la propria voce. Se nessuno protesta, le ragioni economiche avranno sempre la meglio. Investire nella sostenibilità è costoso per le aziende perciò, se avranno appena il sentore di poterlo evitare senza conseguenze, lo eviteranno. Non permettiamolo.
Certo, ogni piccolo cambiamento nello stile di vita per ridurre il nostro impatto può essere d’aiuto e quanto meno agire potrà impedirci di rimanere lì impalati con l’ansia che sale. Ma ancora più importante è spingere per un cambiamento a livello sistemico. Non saremo soli e sole: nell’ultimo anno si sono viste tante manifestazioni per l’ambiente in giro per il mondo. Fare gruppo, creare o supportare associazioni, partecipare a eventi, nella vita o anche online, è un passaggio importante e spesso trascurato in questa epoca di individualismo e solitudine. Il potere, come sempre, sta nei grandi numeri.

Domande difficili 2: come coinvolgere e motivare i paesi in via di sviluppo?
Quindi, noi cominciamo, ma non potremo andare avanti da soli. Creare modelli di vita e di economia sostenibili è una sfida di cooperazione internazionale, una necessità vitale in una fase storica dove invece divisioni e tensioni fra paesi sembrano sempre più nette e impediscono il raggiungimento di accordi stabili. Particolarmente complessa è la situazione quando si cerca di coinvolgere paesi in via di sviluppo. L’accusa di ipocrisia è dietro angolo, e a ragione.
Pensateci, soprattutto per quei paesi dove la popolazione ha passato anni in situazioni di ristrettezza, come la Cina, l’India, i paesi in crescita dell’Africa. Per anni sono rimasti a guardare mentre noi nel mondo occidentale producevamo, consumavamo e spendevamo. Ora tocca a loro, e noi andiamo a dire: “guardate, qua la festa è finita per tutti, siamo troppi, dobbiamo decrescere, dobbiamo cambiare fonti di energia, non si può più andare avanti come prima, siete arrivati tardi, sorry”. Ci vuole faccia tosta. E invece è necessario, ma come e con quali motivazioni?

Le motivazioni in realtà già esistono. I paesi in via di sviluppo sono i più colpiti dagli effetti devastanti dei cambiamenti climatici, sia sul piano naturale, con l’innalzamento delle temperatura, sia dal punto di vista economico, con aumenti sostanziali del debito dei paesi più vulnerabili – secondo le proiezioni, 168 miliardi di dollari in più nei prossimi dieci anni. Imperativo dunque agire con tempestività per supportare proprio le zone più fragili del pianeta, che altrimenti si troveranno ad affrontare conseguenze sempre più destabilizzanti negli anni a venire. Le previsioni di Standard and Poor’s sono chiare in merito:

Per citare l’articolo di Schroders da cui è tratta la mappa, “regioni altamente vulnerabili sono il Sud Est asiatico e l’Africa subsahariana. Città come Mumbai affronteranno temperature sempre più calde, intense alluvioni e cicloni. La scarsità di neve sull’Himalaya ridurrà la portata dei bacini del Gange e del Brahmaputra. Mentre il delta del Mekong in Vietnam, uno dei principali produttori di riso, sarà colpito dall’innalzarsi del livello dei mari. Nell’Africa subsahariana la sicurezza alimentare diventerà un problema per la siccità e i cambiamenti nelle precipitazioni. Si stima che l’80% dei danni per il cambiamento climatico colpiranno basse latitudini, dove sono situati molti paesi in via di sviluppo. Al contrario, regioni nordiche come Canada, Scandinavia e Russia saranno avvantaggiate da un modesto aumento delle temperature”. Persino il cambiamento climatico è classista e razzista.
Per tornare a Cuba, dieci giorni prima del nostro viaggio L’Avana è stata colpita da un tornado, il più forte negli ultimi ottant’anni, con quattro vittime e quasi duecento feriti. A fine gennaio. La stagione dei tornado normalmente va da inizio giugno a fine novembre. Le motivazioni dunque ci sono: mantenere l’equilibrio naturale, sociale e politico di paesi che conoscono già troppo bene, meglio di noi, le conseguenze estreme della situazione attuale.
La speranza c’è. In molti paesi sono in atto iniziative che mirano a sensibilizzare la popolazione e a fornire strumenti per mettere in atto modelli di sviluppo sostenibili. Come abbiamo già detto, la lotta è per l’umanità. Perciò è importante lavorare con le persone e realizzare progetti che oltre a salvaguardare l’ambiente aumentino il potere d’acquisto dei singoli individui, specialmente di categorie meno tutelate come le donne e le classi più povere.
Un settore che è particolare oggetto di attenzione è quello dei rifiuti: abbiamo già visto come il riciclo sia ancora poco diffuso nei paesi in via di sviluppo e quanto questi si facciano carico anche della spazzatura proveniente dai paesi sviluppati. Il 70% della plastica che finisce in mare proviene proprio da questi paesi, dove le strutture di smaltimento sono inadeguate e spesso abusive. Ma i rifiuti non sono solo un problema per l’inquinamento dell’oceano, sono anche una minaccia significativa alla qualità di vita dei locali, inquinando l’acqua e l’aria e aumentando l’incidenza di malattie come colera e problemi respiratori. Associazioni come WasteAid fanno pressione affinché una percentuale maggiore degli aiuti umanitari indirizzati al terzo mondo venga dedicata alla gestione dei rifiuti.

Oltre alla pressione politica, sono sempre di più le associazioni, locali ed estere, che creano progetti mirati a migliorare la qualità di vita delle comunità tramite la gestione del problema dei rifiuti. Un trend virtuoso che ha effetti positivi sul piano ambientale, economico e sociale. Un esempio è la stessa WasteAid, che segue iniziative per costruire prodotti dalla plastica, come queste mattonelle per pavimenti in Gambia, ognuna delle quali contiene circa 200 buste di plastica, sciolte e miscelate con sabbia.
L’italiana COSPE Onlus invece, con cui avevamo già parlato in merito a progetti di turismo sostenibile, segue iniziative ambientali in tutto il mondo, tra cui un programma di sostegno alla gestione dei rifiuti solidi in Libano, mirato a introdurre la tematica del riciclo e della gestione partecipata della comunità in un paese dove politiche nebulose creano un’emergenza costante con una produzione, destinata ad aumentare, di circa 2 tonnellate di rifiuti annui.
In Gambia troviamo anche Isatou Ceesay – definita da Climate Heroes la Regina del riciclaggio della plastica – che ha cominciato con progetti di educazione all’interno del suo villaggio, creando il Centro di riciclaggio di N’jau, realtà impegnata nel diffondere informazioni sulla raccolta dei rifiuti e la separazione della plastica. I progetti mirano a raggiungere le donne, nel tentativo di usare questa opportunità per cambiare la mentalità che le vede prive di indipendenza economica e tradizionalmente relegate alla gestione della casa. Il riciclaggio della plastica ha dato origine a progetti di riutilizzo, tramite i quali le donne creano nuovi oggetti da materiali di recupero, come portafogli, palloni e borse, e ricevono uno stipendio fisso che permette loro di assumere un ruolo diverso nella famiglia. L’associazione co-fondata da Isatou, Women’s Initiative Gambia, ha oggi più di 2000 membri in 40 diverse comunità.

La consapevolezza è un percorso tortuoso, che passa per momenti di sconforto e altri di speranza. Uscire dalla nostra bolla ecologica ed esplorare in tutta la sua vastità e complessità il contesto in cui ci troviamo, il nostro mondo, significa renderci conto di quanto siamo indietro. Sì, perché se un solo paese è indietro lo siamo tutti. Allo stesso tempo però significa anche scoprire sacche di evoluzione e di speranza per il futuro dove meno ce le aspettiamo. In definitiva, ci tira fuori dalle scorciatoie cognitive dei pregiudizi, del bianco e nero, delle semplificazioni.
E in fondo ci dà anche un sonoro e quanto mai necessario calcio nel didietro per rimboccarci le maniche e cominciare anche noi a cambiare il mondo, una busta di plastica e una manifestazione per volta. Così almeno non saremo complici.
Francesca Maria Solinas