Nella fase finale del ventesimo secolo abbiamo avuto l’opportunità, prima accessibile solo attraverso la teologia o la finzione narrativa, di vedere oltre la fine della nostra civiltà, di scorgere, in una strana sorta di retrospettiva prospettica, come si presenterebbe la fine: come un campo di sterminio nazista, o un’esplosione atomica, o una wasteland ecologica o urbana. E se siamo stati in grado di vedere queste cose è solo perché esse sono già accadute.
James Berger, After the End: Representations of post-apocalypse
Nello scrivere questo articolo a chiusura del primo grande speciale di The Bottom Up, mi sono chiesto cosa si potesse dire sull’ambiente che non fosse già stato illustrato egregiamente dai miei colleghi redattori; vi è stato presentato il problema nella sua interezza, ne sono stati sviscerati aspetti e sfaccettature e, infine vi hanno suggerito strategie individuali e collettive per salvare l’ambiente e porre fine al problema.
L’unica cosa che rimaneva ancora da fare, dunque, era convincervi a non fare nulla.
Già, perché distruggere programmaticamente il nostro pianeta non produce solo effetti negativi. Non avete considerato, per esempio, quanto sia diventato bello il cinema da quando abbiamo iniziato a trasformare il mondo in un posacenere. Se pensate che sia folle, beh, mettetevi comodi. Risciacquo i panni nel fiume di liquami di Day of the Tentacle e procedo.
In un episodio di Doctor Who, il Dottore e la sua companion Amy Pond si ritrovano nel 29esimo secolo, su un’astronave che ospita tutti gli abitanti del Regno Unito (eccetto gli scozzesi). Agli abitanti, di tanto in tanto, viene richiesto di votare a un referendum, ma la domanda è talmente destabilizzante dal punto di vista morale che, a chi sceglie il “no”, le informazioni vengono cancellate dalla memoria per quieto vivere. La questione – si scopre – è la seguente: a un passo dalla fine del Mondo è apparsa in cielo l’ultima grande balena spaziale, gli inglesi l’hanno catturata e, da secoli, la tengono prigioniera all’interno della nave utilizzandola, attraverso la tortura, come motore della nave. Il quesito referendario chiede se liberare la creatura, condannando l’Inghilterra alla deriva nello spazio, o se lasciare la bestia in questa orribile condizione e dare una speranza di sopravvivenza alla Regina e ai suoi sudditi. Una sorta di Brexit al contrario in cui una balena esce dal Regno Unito, una Whalexit. Il fardello è talmente grande da far vacillare anche gli animalisti più bellicosi, tant’è che la balena dopo secoli di tornate referendarie è ancora in catene. Dopo varie peripezie, il Dottore libera la possente creatura spaziale che, invece di scappare a pinne levate, aiuta l’umanità, la qual cosa era, peraltro, il suo intento fin da principio.
Se uno volesse leggere in maniera didascalica quanto accade in questo episodio, si potrebbe facilmente intuire come gli autori abbiano voluto dimostrare la nostra tendenza a tralasciare il lungo periodo per ottenere un vantaggio immediato. In effetti, se provassimo a tirare le somme dello sviluppo umano fin qui ci accorgeremmo che, sì, siamo riusciti a sottrarre la nostra specie dal rischio di estinzione, ma solo al prezzo di grandissimi sconvolgimenti del nostro ecosistema.
Ora, mentre le religioni erano tutte preoccupate a prepararci eticamente alla Fine, intesa come l’inevitabile momento in cui un dio avrebbe sbattuto via la sporcizia dal tappeto della Terra, il progresso tecnico-scientifico ci dava il posto di dio, un dio pronto a dare fuoco al tappeto su cui poggia i piedi. I molti eventi catastrofici del Novecento non hanno fatto altro che dare una conferma del nostro potenziale autodistruttivo. Questo ha condotto a un cambiamento di prospettiva che le varie religioni hanno tentato di riportare al loro orizzonte moraleggiante.
Le narrazioni di fantasia, invece, hanno saputo cogliere le riflessioni più intime sulla Fine, generate dai pericoli quasi-mortali nei quali la nostra società si è impantanata nel suo procedere. Pensate, ad esempio, al clima di tensione perenne generato dalla possibilità di un inverno nucleare causato dalla Guerra Fredda. Il cinema distopico ha attinto a piene mani da questo terrore fin da subito e con consapevolezza sempre crescente: se guardiamo L’ultima spiaggia, film post-apocalittico del ’59 con Gregory Peck e Ava Gardner, la guerra atomica che ha reso inospitale l’emisfero boreale sembra quasi una folata di vento che entra in casa da una finestra aperta. Verso la fine uno dei personaggi è costretto a scendere a terra: tutto è perfettamente in ordine, strade ed edifici sono al loro posto (mancano solo gli esseri umani), all’interno di una base giusto qualche foglio sul pavimento in mezzo a macchinari tirati a lucido. Imparati a conoscere i pericoli di un disastro nucleare, anche il cinema ha saputo descrivere con maggiore fedeltà il post-bomba (vedi Mad Max, più avanti).
Col passare del tempo la guerra atomica rimane una possibilità concreta ma con la quale si prende confidenza, ci si convive. Il cinema impara ad amare la bomba e a non preoccuparsene, tant’è che oggi, se di nucleare si parla, è solo un pretesto per raccontare qualcosa di altro e, al cinema, nessuno più cavalca un’ipotetica bomba finale sganciata per errore da Kim o Trump, anche se i toni, tra i due, sono da Dottor Stranamore. Le nostre paure si aggiornano e il cinema ne fa tesoro, proiettandosi più in là.
La nostra paura maggiore, oggi, è quella di annientarci attraverso l’inquinamento.
Siete al botteghino, potete scegliere tra due pellicole: una è l’ultimo film catastrofico di Hemmerich liberamente tratto dall’Apocalisse di Giovanni. Nell’altro, il genere umano deve lasciare la Terra, divenuta una landa desolata. Esatto, il primo sarebbe una variante di 2012 e l’altro un Wall•e Interstellar. Il primo vi scorre via davanti agli occhi senza porvi domande, l’altro vi fa riflettere sul nostro agire irrispettoso del Pianeta mentre vi commuovete alle gesta eroiche di un robottino. Quale scegliereste?

In tutte le opere narrative è l’immedesimazione a permetterci di entrare in empatia con personaggi e situazioni che sfilano davanti ai nostri occhi. Questa veicola significati con maggiore efficacia se il contesto della finzione è tanto più vicino a quello reale, cui si riferisce. Accettiamo di vedere un uomo andare nello spazio in cerca di cibo perché è possibile – e se vi piacciono i film spaziali, anzi, è auspicabile – che la Terra diventi del tutto inospitale a causa del cambiamento climatico. Abbiamo imparato a conoscerlo, lo vediamo ogni giorno e non ci lascia dormire la notte. Temere il futuro ci spinge a dargli una forma, più ci avviciniamo alla fine meglio riusciamo a definirla.
Naturalmente la preoccupazione per l’ambiente, si sarà già capito, ha iniziato ad assumere importanza lentamente e solo nell’ultimo ventennio del XX secolo. Al cinema, la distruzione dell’ambiente ha affiancato il terrore atomico, anticipando l’agenda politica internazionale sul tema ecologico. Negli anni Ottanta-Novanta ha dovuto convivere con un’altra grande preoccupazione occidentale: la crisi dell’egemonia a stelle e strisce. Da questo triangolo crisi del dominio americano – terrore atomico – disfacimento ambientale vengono fuori classici d’azione distopici come 1997: Fuga da New York, Robocop, The Running Man (noto, da noi, come L’implacabile) e Dredd – La legge sono io, per non parlare di capolavori come Mad Max e Blade Runner.
È vero, il mondo del folle Max è stato trasformato in una gigantesca lettiera da una guerra nucleare ma, dite la verità, state già pregando il brutale dio del V8 perché metta il turbo alla desertificazione e ci trasformi tutti in stilosissimi punk guerrieri unti d’olio motore.
Con Blade Runner facciamo un ulteriore passo avanti.
Schermo nero, scritte bianche, titoli di testa, tra gli altri, Rutger Hauer e Daryl Hannah. Breve spiegazione dell’antefatto, Los Angeles, novembre 2019. Dissolvenza in entrata. Un maestoso skyline avvolto in una romantica cappa di smog, illuminato da luci artificiali di grattacieli e fiamme vive, esplosioni roboanti, fulmini. Non fosse per le navicelle volanti e la musica di Vangelis, sembrerebbe un panorama notturno di Priolo Gargallo, città-raffineria a venti minuti da Siracusa.
Da un punto di vista strettamente visivo, Blade Runner ha preconizzato l’aspetto delle grandi città del mondo così come saranno nel volgere di pochi anni (Priolo di notte vista dall’autostrada sembra una megalopoli in una palla di vetro). La visione di Ridley Scott e Dick è una profezia quasi azzeccata. Il tessuto urbano è destinato a fagocitare il territorio, il prezzo da pagare si esprime non solo in termini ambientali, ma anche sociali, con una diseguale distribuzione della ricchezza e il conseguente aumento delle sperequazioni sociali. Insomma, un teatro ideale per qualunque fantasia cyber-punk asiaticheggiante. In effetti, se diamo credito a certi studi, i quali dicono che il 60% della popolazione mondiale diventerà urbana entro il 2030, anche Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve ha buone possibilità di diventare una suggestiva visione profetica.

È tempo di concludere, ma non prima di aver menzionato il film che, sull’ambiente, ha detto più di tutti senza dire nulla .
Ricordate il 1999, la paura del Millennium Bug e dei fratelli Wachowski prima che diventassero sorelle? Allora certamente non avrete dimenticato che le gesta al rallentatore di Neo in Matrix hanno il loro motore nella lotta di liberazione dell’Uomo dalle Macchine. Ricordate? Poco dopo la scena più memifica dell’internet, Neo viene espulso dal suo sacello sintetico, al centro di una sterminata distesa di incubatrici di esseri umani utilizzati come batterie per le macchine, dominatrici di un pianeta Terra freddo e privo di luce. Prima di diventare delle Duracel, gli esseri umani avevano oscurato il Sole, nella speranza di togliere energia a macchine evidentemente prodotte in regime di green economy.
Ecco, in questo disperato tentativo di oscurare il Sole, nostra suprema fonte di vita, i fratelli Wachowski hanno riassunto il paradosso supremo che ha condotto, sommessamente senza grandi scossoni, questo nostro Antropocene:età in cui l’uomo è padrone del suo stesso destino e al contempo osservatore impotente della propria disfatta. Se, per il resto della saga, il filosofare di Matrix non ha nulla da comunicare, è perché in questa cornice si riassume una gigantesca verità su ciò che siamo e dove stiamo andando.
Il cinema è sempre stato una scatola magica che dà forma a sogni e incubi ma, come al risveglio le nostre vite procedono a malapena turbate dai moti dell’inconscio, così uscendo dal cinema è il quotidiano ad avere la meglio sulla riflessione. Finché non sapremo farci carico dei bisogni del nostro pianeta, la scatola magica continuerà a riempirsi delle ombre sempre più mortali cui non diamo sufficiente importanza e noi continueremo a guardarla. La scatola ringrazierà.
Matteo Cutrì
In evidenza un fermo immagine tratto dal film Blade Runner