ambiente rifiuti

Non ci sono più i rifiuti di una volta!

Ovunque noi si viva, dobbiamo comprendere che quando spazziamo le cose fuori dalla nostra vita e le gettiamo via loro non spariscono, come amiamo credere. Dobbiamo sapere che ‘via’ è di fatto un luogo. In un mondo in cui l’esternalizzazione dei costi è resa troppo facile dai percorsi della globalizzazione, ‘via’ è probabilmente un luogo da qualche parte dove le persone sono povere, private dei diritti, senza potere o troppo disperate per essere in grado di resistere al veleno. ‘Via’ è probabilmente un luogo dove le persone e l’ambiente soffrono per la nostra trascuratezza, la nostra ignoranza o la nostra indifferenza

Puckett, “Away is a place”

Quanto tempo ci occorre per buttare via un rifiuto? Quanto tempo ci soffermiamo a ragionare su tale gesto? E quanto siamo consapevoli delle sue conseguenze e delle fasi successive? Ma soprattutto: quand’è che decidiamo che un oggetto ha perso, dal nostro punto di vista, ogni sua utilità ed è diventato un rifiuto?
Possono sembrare domande retoriche, ma sono in realtà questioni non secondarie nel momento in cui ci pongono di fronte ad un mondo molto complesso e conosciuto spesso in modo superficiale, o addirittura stravolto da stereotipi ancorati a epoche antiche.

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In passato, l’attività principale di chi si occupava della grande “battaglia” contro i rifiuti, era rappresentata dall’incessante allontanamento dello sporco dalle città, senza sottoporlo ad alcun tipo di trattamento. L’industrializzazione a cavallo tra Ottocento e Novecento portò una ventata di innovazioni e ottimismo: vaccini, fognature e W.C. diffondevano nuovi standard di igiene e pulizia, mentre il crescente benessere cui si accompagnava la macchina del progresso allargava il perimetro di ciò che diveniva scarto, fino a includervi oggetti che in passato avrebbero avuto ancora funzioni e utilità (o che forse non sarebbero proprio esistiti!).

Voi direte che rispetto a ieri nulla è cambiato, sempre di portare via della spazzatura si tratta. E invece moltissimo è cambiato, a partire dalle parole che si evolvono. Ai giorni nostri non si parla più di spazzino ma di operatore ecologico, non più di nettezza urbana ma di settore verde, i vecchi cassonetti grigi ora si tingono di colore per aiutare le persone a fare la raccolta differenziata.

Inoltre, lo sforzo principale che oggi si richiede a qualsiasi azienda (pubblica, privata o mista) di igiene ambientale è in un certo senso paradossale. Chi smaltisce i rifiuti deve lavorare per sottrarsi terreno da sotto i piedi perché deve convincere i cittadini ad utilizzare il meno possibile il cassonetto che hanno sotto casa, evitando così la formazione di un rifiuto.

carta riciclata

Ritorniamo per un momento al nostro ex spazzino ora promosso a operatore ecologico. Quello che si richiede all’operatore ecologico di turno è un compito notevolmente più complicato rispetto al passato. ço spazzino ha oggi un ruolo a dir poco schizofrenico: deve sia rassicurarci nel nostro bisogno di pulizia e di ordine, sia farci capire quanti oggetti trasformiamo con troppa disattenzione e troppa leggerezza in rifiuti. Ciò lo rende una sorta di antipatico grillo parlante che ci richiama all’impegno e alla consapevolezza. Ma può essere una responsabilità del solo spazzino quella di cambiare le nostre abitudini e riparare alle inefficienze ambientali del nostro sistema produttivo? È ovvio che lo spazzino è uno – e solo uno – degli anelli di una catena ben più vasta.

Difatti questa è un’altra caratteristica fondamentale del mondo dei rifiuti. Nessun servizio quanto quello ambientale dipende per la sua efficienza dal comportamento di ciascuno di noi, dove quel “noi” va inteso come un vasto insieme composto da cittadini, consumatori, produttori (di rifiuti e di beni) e da politici, qui intesi come soggetti in grado di emanare leggi che influenzano la società. A fronte di queste sfide e di questi cambiamenti ancora molta strada resta da fare e una certa impostazione mentale permane: chi per esempio si ostina a buttare tutti i propri rifiuti dentro lo stesso sacco nero vanifica lo sforzo di chi invece si impegna nel separare correttamente i materiali.

cassonetto indifferenziata

Come ci ricorda Marta S. Viganò nel suo articolo, ogni passo, anche piccolo, ha un suo valore: andare nel negozio di vicinato o rivolgersi alla GDO (Grande Distribuzione Organizzata, ovvero i supermercati), muoversi a piedi o in bici, scegliere prodotti sfusi, riutilizzare e riparare, promuovere il vuoto a rendere o attivare la tariffazione puntualesono scelte ben precise con effetti altrettanto precisi sulla quantità di scarti (il famoso impatto ambientale) che una società genera.

Il servizio rifiuti è, dunque, il più “comunitario” di tutti i beni comuni. Con i servizi ambientali la somma dell’impegno, o del disimpegno, di tanti singoli individui si riflette immediatamente sull’intera collettività. E comunità con legami sociali sempre più deboli come quelle in cui viviamo oggi spesso vivono con fastidio e insofferenza la “questione rifiuti”.

A tal proposito pensiamo a chi vive in zone dove è attivo un servizio del tipo “porta a porta”. Ciò significa rispettare un giorno di esposizione del bidoncino (o del sacco), rispettare un orario di esposizione, rispettare l’indicazione sul tipo di rifiuto che si può esporre quel giorno, ecc. Ma basta un sacchetto non raccolto dagli operatori o abbandonato per strada per far scattare la temibile accusa di generare “degrado”. Purtroppo però, nonostante questo sia il metodo migliore per assicurare alti livelli di differenziazione dei rifiuti e un calo nella produzione di scarti, molti rigettano tale sistema e invocano il ritorno alla semplicità dei cassonetti. Le motivazioni più frequenti per questa richiesta? Il porta a porta è vissuto come sacchi e bidoncini sparsi ovunque, disordine, mancanza di decoro, sporcizia e via dicendo. Quindi bisogna ritornare ai grandi contenitori chiusi, di numero limitato, disposti in una precisa posizione, dove gettare (nascondere?) l’immondizia e con i quali difficilmente si riescono a separare i materiali in modo corretto. Il nostro povero spazzino, ormai esausto, deve pertanto farsi carico della pulizia e del decoro di un pezzo di strada ma deve anche allontanare il più possibile, e il più in fretta possibile, dalla nostra vista quella moltitudine di scarti che noi stessi produciamo con la nostra normale e quotidiana esistenza.

Ma di cosa abbiamo timore esattamente? Perché i rifiuti generano in noi questo terrore sacro? Il tema richiederebbe molti articoli e approfondimenti, oltre a un lavoro che chiama in causa saperi diversi.

Qui ci limiteremo a ricordare le parole dello psicoanalista Massimo Recalcati che in un articolo di qualche anno fa diceva:

L’eccedenza da smaltire dei rifiuti si coniuga con il problema della mancanza. Il rifiuto è simbolo di entrambe: è qualcosa che ci assedia e che esige un collocamento, ma è anche qualcosa che segnala l’inappagamento del nostro desiderio. Ogni oggetto non è mai in grado di estinguere la mancanza.

In un mondo che vive ogni giorno di più nell’immateriale, i rifiuti rimangono uno scoglio, un qualcosa che ci ricorda fastidiosamente, quotidianamente, la nostra “vecchia” esistenza, che ci fa rimanere ancora e ancora aggrappati ad un altro reale che preferiremmo considerare ormai sorpassato. Un reale di cui abbiamo già parlato, fatto di sporcizia, di cattivi odori, di scarsa o nulla regolamentazione del fenomeno.
In altre parole, bisogna accettare il fatto che la produzione dei rifiuti è intrinsecamente ed inevitabilmente collegata a ogni nostra attività: da quando estraiamo le materie prime che andranno a comporre un oggetto, fino a quando ce ne disfiamo e qualcuno deve farsi carico di quell’oggetto scartato. E serve a poco prendersela con lo spazzino o con il tipo di sistema di raccolta dei rifiuti adottato nella nostra città: quello dei rifiuti, come ricorda Simonetta Tunesi nel suo libro Conservare il valore. L’industria del recupero e il futuro della comunità è un problema perfido, in cui non esistono soluzioni definitive e valide per sempre. Bensì serve fantasia, capacità di adattamento, pianificazione di lungo periodo, cambiamenti nelle opinioni e nei comportamenti, e partecipazione al dialogo.

 

Marco Colombo

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