Non c’è scelta che non sia politica, si diceva negli anni ’70, attirando il dileggio dell’ultimo Gaber circa la preferenza tra fare la doccia (di sinistra) e fare il bagno (di destra).
Oggi, invece, dovremmo pensare che non c’è scelta, neppure la più quotidiana, neppure la più banale, che non sia ambientale.
Per restare con Gaber, fare il bagno non solo sarebbe di destra, ma di sicuro sarebbe anti-ecologico.
Il mondo in cui viviamo – per lo meno la sua porzione occidentale ricca, cioè la nostra – è un luogo in cui abbiamo la possibilità di scegliere cosa fare per avere un’impronta sull’ambiente nel quale siamo gettati, del quale facciamo parte e col quale siamo in comunicazione costante per il solo fatto di esistere, anche fermi in una stanza buia. La stessa facoltà di scegliere è peraltro una condizione che non necessariamente si dà in altri Paesi, che nondimeno hanno grandi responsabilità quanto a inquinamento, come la Cina.
Ma per arrivare a rendersi conto della propria possibilità di scelta attiva (sull’estensione e portata di quest’ultima tornerò dopo), bisogna prima raggiungere una consapevolezza. L’essere umano negli ultimi duecento anni sta interagendo sull’ambiente in maniera incisiva come mai prima nella storia della specie. Questo è un male? Domanda legittima. Uno degli argomenti, a livelli di raffinatezza diversi a seconda di chi lo propone, è che nella lunga storia della Terra, “i cambiamenti ci sono sempre stati”. Il riscaldamento globale può quindi addirittura non essere colpa dell’essere umano: saremmo troppo ‘vicini’ e troppo ‘dentro’ al fenomeno per poterlo esaminare su larga scala temporale e renderci conto che si tratta di una delle normali oscillazioni che nei lunghi milioni di anni dell’esistenza il pianeta ha già sopportato.
A una domanda legittima, però, esistono anche risposte concrete, affidate ai migliori metodi disponibili di analisi (la famosa scienza), e tutte in questo caso puntano in un’unica direzione: la responsabilità del riscaldamento globale è nostra.
Eppure, anche se per assurdo non avessimo (ma le abbiamo, meglio ribadire) responsabilità dirette nel cambiamento climatico, è un fatto che le cose stanno già cambiando e noi non siamo granché pronti a sostenerne le conseguenze. Il punto dell’obiezione è infine questo: spiacente per gli orsi polari e per chi vive nella fascia equatoriale, ma si tratterà – come per tutte le specie del mondo, ad ogni dato momento – di adattarsi a un mondo improvvisamente più caldo, no? Peccato che non si tratterà soltanto di alleggerire il vestiario.

Un esempio a me caro: Venezia, città fragile per vocazione, metafora meravigliosa della precarietà della vita animale dalla quale riesce a scaturire una bellezza struggente per merito dell’istinto di sopravvivenza, entro 80 anni da ieri cesserebbe di esistere. E con lei, molto Veneto e molta Romagna. L’elenco dei cambiamenti improvvisi che il riscaldamento globale genererebbe (genererà) potrebbe essere molto lungo, a partire da quello che è successo nel bellunese poco tempo fa. Per non essere italocentrici, basta guardarsi un po’ intorno e gli esempi non mancano, a dispetto di sviluppo del Paese in questione.
L’evidenza, non solo scientifica, ma anche quella toccata con mano sotto casa, non manca, dunque. Ed è intuitivo che a cambiamenti che sono veloci su larga scala le risposte umane saranno difficili da pensare, ardue da mettere in pratica e, in ogni caso, costose, sia in termini di denaro, sia per l’impatto umano. Cambiare, migrare, fa parte della storia della nostra e di altre specie, ma quando molti miliardi di persone saranno (sono già) sulla stessa barca che affonda, la musica si sarà fermata e le sedie saranno poche, ci si accorgerà che questi processi sono tutto tranne che rapidi, indolori e privi di stravolgimenti. E ricordiamoci che ci troviamo pure dalla parte ricca del mondo, quindi immaginatevi per gli altri. Se non volete pensare a chi migra attraverso il Mediterraneo, pensate agli italianissimi sfollati per un terremoto o un’inondazione o un avvelenamento del territorio.
Raggiunta questa consapevolezza, che fare?
Generazioni, classi, governi e correnti
Si può essere catastrofisti, millenaristi, accelerazionisti: ormai è andata, suoniamo l’arpa mentre Roma brucia. Non v’è molto da aggiungere a questa posizione: non è completamente fuori di testa, ma per essere accettabile, dovrebbe essere prima certificata come la volontà della maggioranza (qualificata, oserei dire, ci vogliono almeno i due terzi!) degli abitanti del pianeta – per tacer degli animaletti.
Volendo – invece – agire, tante strade si aprono.
Partendo, innanzitutto, da noi stessi. “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo” è una delle citazioni più diffuse oggigiorno tra vignette buongiorniste, profili Tinder e biografie sparse. Si può essere sicuramente d’accordo che protestare sotto un ministero per la salvaguardia di un parco nazionale quando si possiede un’automobile inquinante e si tiene l’aria condizionata a casa a livelli statunitensi è inutile se non ipocrita. Marta Silvia Viganò ci dirà come vivere una vita ‘a spreco zero’. C’è tanto – l’ho detto all’inizio – che si può fare a partire dalla vita quotidiana, anche a beneficio del proprio portafogli. È pur vero che non sempre le condizioni lavorative ci consentono di essere perfetti da questo punto di vista, ma si può sempre migliorare. Anche se i controargomenti (di solito destrorsi, ma queste cose non hanno colore, temo) sulle minime pratiche di ambientalismo quotidiane sono agghiaccianti: ho letto questa storiella che dipingeva un’ipotetica vecchietta stigmatizzata dalla cassiera per non essersi portata la busta da casa [già fantascienza di per sè] per poi ribaltare lo stigma raccontando di come, una volta, c’era il vuoto a rendere, non si era grassi perché si lavorava fisicamente, si usava la bici. Tutto vero, direte voi, e dico pure io: peccato che questo dispositivo retorico oltre a mettere in croce senza motivo il “movimento ambientalista” mettesse sullo stesso piano due situazioni socioeconomiche completamente diverse: il 2019 da un lato e, dall’altro, l’Italia del dopoguerra, dove la maggior parte di queste pratiche erano una necessità e non una scelta, tanto che non appena sopravvenne il Boom negli anni ’60 con l’abbondanza giunse il consumismo e la possibilità di sprecare improduttivamente e gli italiani non si fecero pregare.

Prendiamo però sul serio alcuni dati che questa esperienza social-buongiornista mi ha regalato. I cinquanta-sessantenni, i cosidetti baby boomers, hanno oggettivamente più responsabilità di chi oggi ha vent’anni o meno, c’è poco da girarci intorno. Eppure, sono gli stessi che oggi non sono in grado di fare qualcosa a riguardo, a ogni livello. Lasciando stare i capi di governo, o le fake news circa “non faccio la differenziata perché tanto li ho visti che dopo buttano nello stesso bidone” o gli sbraiti sul “degrado” che creerebbe la raccolta dei rifiuti porta a porta (un sistema che aumenta del 20-30% la differenziata a colpo sicuro) l’ho sentite pronunciate solo dai cinquanta in su.
Pertanto, faccio mio un piccolo ma radicale suggerimento, a costo di fare di tutta l’erba un fascio: freghiamocene di quello che dice sul clima chi ha più di 50 anni, perché saranno probabilmente tutti morti prima che la merda arrivi al ventilatore. Secondo J.R. Hennessy di The Outline, c’è addirittura del calcolo presciente, in questo: banalmente, se sei morto o anzianissimo, anche qualora verrà appurato che tu hai delle responsabilità per la rovina del pianeta, sarai troppo sottoterra o messo male per farti anni di galera o, capirai, pagare delle multe. Se ha funzionato per i nazisti, d’altronde.
Molto di questo si dà perché le stanze dei bottoni, dai media all’industria fino ai governi, sono pieni di coloro che hanno scommesso tutto sul fatto di morire appena in tempo [per evitare la catastrofe ambientale]. La totale irrilevanza dei vecchi è l’unico modo possibile in cui la questione può essere inquadrata costruttivamente. Gli attivisti più giovani sono già predominanti nel dibattito su cosa fare circa il cambiamento climatico – ora devono conquistarlo del tutto.
Ma oltre alla questione generazionale, si può aprire anche quella di classe: perché preoccuparti del cambiamento climatico quando puoi mettertene al riparo perché sei ricco? Non più tardi di novembre scorso, grandi incendi hanno messo in seria difficoltà la California, toccando anche i posti abitati dalle élite più ricche del mondo occidentale e non. Credete che, soprattutto in paese come gli Stati Uniti dove l’iniziativa privata è il sale della vita, queste famiglie del famoso 1% abbiano aspettato i Canadair statali? Neanche a pensarlo; celebrità come Kanye West e signora si sono armati di carta di credito e hanno dispiegato i cannoni ad acqua delle società di pompieri privati. Come se non bastasse, la California usa regolarmente i suoi carcerati per combattere gli incendi, pagandoli un (1) dollaro all’ora (o, peggio, due dollari al giorno). Ragionando ancor su più sul lungo periodo, una frazione di quell’1% sta facendo costruire e comprando dei bunker a prova di fine del mondo in Nuova Zelanda. Stavo per scrivere “bunker atomici”, come si diceva una volta, ma oggi, che persino Trump e Kim hanno dissolto la presunta escalation nucleare, il disastro ambientale preoccupa molto di più di una guerra atomica. L’ONU – dopo che noi di TBU avevamo già deciso di fare il nostro primo nuovo speciale sull’ambiente – ha persino ratificato i termini del disastro (dodici anni, ovvero il 2030) e della svegliata che dobbiamo darci, dato che è già tardi. Alessia Biondi ha puntualmente riportato il percorso delle conferenze sovranazionali sul clima, tra fallimenti e insufficienti successi.

Ma noi giovani preoccupati cosa possiamo fare, oltre a non usare posate di plastica e andare in bicicletta?
Se crediamo nella democrazia rappresentativa, votare in massa chi dice di capire e di voler fare qualcosa per il problema. Ma questa è un’ovvietà e negli Usa dove a capo della federazione c’è un negazionista, la cosa assume un senso diverso. Ad ogni modo, anche da noi con Tav e Tap su cui hanno fatto campagna elettorale i candidati M5S, le cose stanno andando maluccio. Prendendo uno sguardo europeo, quello di Jacobin Italia, vediamo che senza pensare un cambio di sistema non si può andare da nessuna parte:
L’umanità è su un autobus chiamato capitalismo che corre verso un burrone senza alcuna protezione per salvarsi. Non serve svoltare leggermente, bisogna cambiare radicalmente direzione. […] Succede che non c’è ecologismo senza giustizia sociale, non c’è compatibilità tra liberismo e ambiente. Le classi popolari – così come succede spesso nelle nostre città – non possono vedersi imposti tutti i costi etici («La colpa è dei vostri stili di vita!») ed economici (tassazioni, blocco delle auto) della transizione.
Da qui anche una lettura sulla ridicolizzazione dei movimenti ecologisti e animalisti che troviamo ovunque, tra tivù, libri, cinema, musica e satira: soprattutto l’animalismo è facilmente (e giustamente, spesso) bersagliabile per la sua ridicolaggine immediata e per la sua miopia sul lungo periodo. Non vorrei neanche spendere parole per affrontare il problema, se non quelle di Matteo De Giuli quando riporta la tesi di Timothy Morton (da Ecology Without Nature):
i grandi parchi nazionali non rispondono allora a nessuna reale esigenza di conservazione, sono l’equivalente di un parco giochi per ricchi a tema naturalistico.
Per tacere, stavolta per davvero, di quel finto ambientalismo tutto di facciata, paranoide e antiscientifico che ha impedito di contenere il problema xylella phastidiosa in Puglia.
Dicevo, certo, anche a me la newsletter di Greenpeace ricorda quelli che chiedono firme contro la droga in piazza, quanto a carisma e appeal comunicativo; e se andassi a conoscerne gli attivisti di base ne rimarrei repulso, probabilmente, e non solo per la mia eventuale misantropia. Al di là di questo, pensiamo anche che la miccia che ha acceso il fenomeno Gilet Gialli in Francia (che pure aveva cause profonde ben diverse) ha un casus belli tutto ambientale: l’aumento delle accise su diesel e benzina da parte di Macron era stato giustificato con l’impatto ambientale degli stessi. In Emilia-Romagna, una città apparentemente progressista come Bologna ha fatto fare retrofront all’amministrazione sulle limitazioni alla circolazione per alcune classi di automobili inquinanti. Queste misure di disincentivo ai comportamenti individuali, in un certo senso sacrosante, hanno però l’effetto di incattivire parti delle masse che si vedono tolta la possibilità di circolare com’erano abituate o, nel caso francese, di vedere aumentata la spesa annua per poter umilmente lavorare. I miei amati ciclostalinisti, qui, non esiterebbero a dare la colpa in toto alla gente che non sa staccarsi dall’automobile – ma non credo la storia si esaurisca in maniera così tranchant. Se un cambio non sistemico, come una tassazione che disciplini non le grandi aziende ma colpisca i consumatori, ha l’effetto perverso di provocare la collera popolare contro “gli ecologisti”, chiunque essi siano. Per fortuna, detto per inciso, non siamo ancora arrivati al tiro al piccione contro le “lobby green” – anche se nel caso dei famosi due centesimi di euro per i sacchetti biodegradabili per frutta e verdura del supermercato era stato persino tirato fuori un conflitto di interessi a carico di Renzi.
Questo fenomeno non è accettabile, in quanto rappresentazione della più classica guerra tra poveri tipica delle dinamiche di potere. Valerio Vignoli ne ha scritto qui.

Ci vuole dunque l’ecosocialismo. Se siamo d’accordo che non è ovvio che una società basata sulla massimizzazione del profitto come quella capitalista è per natura incompatibile con la salvaguardia profonda dell’ambiente. Forse la massima non si applica a comparti dell’economia verde, come quella dell’energia rinnovabile che – ci ricorda Motherboard – esiste non perché sia bella e buona ma perché oltre a esserlo, è remunerativa per chi ci investe. Ma non è un caso che l’ecologismo – a parte casi ben noti di estrema destra, per tacere dell’indimenticata, italianissima lista civetta dei Verdi Verdi – sia una posizione che si incastra con quelle della sinistra per come dovrebbe essere.
Su come instaurare l’ecosocialismo nel vostro Paese faremo un altro speciale nella seconda metà dell’anno.
Il problema del concetto della fine
Resta comunque un grande tema sullo sfondo, al di là delle (im?)possibili soluzioni: perché facciamo così tanta fatica ad affrontare il problema? Perché riusciamo così brillantemente a ignorare la consapevolezza che tutto quello che conosciamo potrebbe mutare – in peggio – nel giro di pochissimo? Dovrebbe essere una cosa da mandarci ai matti (e chi ha i dati sotto mano in prima persona, infatti, ci va), da uscire per strada coi randelli (per tirarceli addosso da soli, verrebbe da dire). C’è la netta sensazione di trovarsi in mezzo a enormi contraddizioni su scala globale, tanto quanto a livello micropolitico. Prima d’ora, non siamo mai stati così consapevoli di questo gigantesco problema, eppure, in fin dei conti, facciamo tanta fatica per fare qualcosa. È un problema di adattamento culturale? La scelta consapevole di limitarsi è forse contro la natura dell’essere umano, a meno che non sia inscatolato dentro precetti ben precisi, vedi le religioni. Ma ormai neppure l’ambientalismo cristiano ci può salvare.
Il problema è forse comunicativo? Sono i media ad aver fallito nel non mettere in risalto a sufficienza la notizia, come sostiene l’ex direttore del pur benemerito Guardian (via Valigia Blu)? Vendere la fine del mondo in prima pagina, in teoria, dovrebbe essere facile. Il problema è che, nonostante i picchi catastrofici che qua e là, seppur sempre più spesso, raggiungono la nostra attenzione tra tivù, giornali e feed il cambiamento climatico è qualcosa di troppo lento per essere notiziabile con l’efficacia che meriterebbe. Si aggiunga che non sempre si vogliono dare brutte notizie e spesso le news scientifiche sono – comprensibilmente – dedicate agli avanzamenti della tecnica e della conoscenza e alle buone pratiche in giro per il mondo.
Allora si tratta di un problema epistemologico? Il problema è tale che, pur afferrandolo razionalmente, una volta che ne facciamo esperienza e leggiamo i dati e ascoltiamo gli esperti, nondimeno non riusciamo a farlo nostro in maniera tale da trovare risposte condivise e strategie d’azione di massa? A questa intuizione il filosofo irregolare Timothy Morton ha dato una cornice: sono iperoggetti quelle entità così estese nel tempo e di così grande estensione spaziale tali che la nostra capacità di capirli e maneggiarli risulta difettosa. Il riscaldamento globale è uno di questi iperoggetti e raggiungere la consapevolezza di come tali entità funzionino è il primo passo – si legge nella terza di copertina del volume portato in Italia da Not – per
ammettere che la fine del mondo è già avvenuta, e che non può più essere il feticismo per la natura del vecchio ambientalismo «folk» a fornire gli strumenti adeguati a quella coesistenza tra umano e non-umano imposta dall’Antropocene
Una guida approfonditamente redatta e gentilmente recapitata due volte al mese da due viaggiatori in questa selva oscura è MEDUSA, che non mi stanco mai di consigliare per il suo duplice approccio letterario e fattuale-scientifico. Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi raccolgono indizi per rischiarare e dare un senso al nome dell’epoca, l’Antropocene, in cui l’uomo è padrone del suo destino come mai prima. Di operazioni sofisticate come MEDUSA c’è sempre più bisogno in una nazione in cui la stampa può uscirsene più o meno impunemente con titoli come “Il freddo di questi giorni [al Sud] allontana i timori sul riscaldamento globale”.
Dell’approccio umanistico ne avremo un crescente bisogno, sempre tenendo in bilico le due culture, per citare C. P. Snow, la cui integrazione mai come ora è necessaria: a testimoniare l’insufficienza – sia a livello individual-familiare, sia a livello aziendale – delle mere misure di efficientamento dei processi di gestione di risorse è il cosiddetto effetto di rimbalzo. Fenomeno economico già noto da molto tempo per cui in maniera apparentemente paradossale all’abbassamento del costo di una materia prima non corrisponde un suo uso più parsimonioso, bensì un aumento. Certo, il fatto che il tuo impianto di riscaldamento casalingo sia più efficiente (produca più calore con meno dispendio) potrebbe fare tranquillamente sì che tu lo usi per più ore al giorno, “tanto spendo meno all’ora”. Andando a rimestare nella piaga con ancora più forza, bisogna dire che anche avessimo il 100% di energia pulita ovvero rinnovabile da fonti non fossili, faremmo esattamente le stesse cose dannose per il resto dell’ambiente che facciamo ora. Pertanto tocca bruciare anche la posizione di natura messianica pigro-tecnologista per cui “basta aspettare che gli scienziati ci cambino la vita passivamente non appena inventeranno nuove macchine meno inquinanti”. Non è una novità neppure che la tecnica di per sé instrada ma è l’essere umano che guida.
E pluribus unum
Il territorio del pensiero sull’ambiente nel 2019 è, per essere eufemistici, molto complicato e le mappe che possiamo usare sono di diversa fattura e non sempre coincidenti. Eppure, la necessità e il dovere sono unici e secchi: fare tutto il possibile per impedire che il pianeta che abitiamo diventi inabitabile per noi stessi.
(tutto quanto riassunto dalla fantastica Rachel Parris, sulla BBC)
Le strade, almeno per come sento di esporre il risultato di questa ricognizione, sono molte e nessuna. Molte nel senso che l’ambiente e il suo rapido stravolgimento su scala globale sono degli oggetti così complessi da pensare che, di conseguenza, i modi di concepire un’azione sono molteplici. Eppure constato tristemente che ognuno di questi modi incontra, m’è parso, grandi difficoltà. Ma la fine del mondo, notoriamente, non aspetta: allora forse la cosa più ragionevole è che ognuno porti avanti la strada che trova più consona al proprio inclinamento, purché sia una. Se tutte e tutti faremo così, prendendoci sul serio, avremo (buone) chances.
Filippo Batisti
Illustrazione realizzata da Ekin Çifter. Seguila anche su Tumblr.
4 pensieri su “Pensare l’ambiente, oggi”