La protesta dei cosiddetti “gilet gialli” in Francia è probabilmente una delle rappresentazioni più vivide del rapporto tra ambientalismo, politica e società degli ultimi anni. Tutto è cominciato a metà novembre quando il presidente Emmanuel Macron ha annunciato l’introduzione, a partire dal 2019, di una tassa sul prezzo del carburante al fine di disincentivare l’uso delle auto nel paese e, conseguentemente, ridurre le emissioni di gas serra. Questo provvedimento, l’ultimo di una serie in tal senso, ha scatenato la rabbia di centinaia di migliaia di francesi. Muniti di giubbotto catarifrangente, comuni cittadini, automobilisti e non, hanno bloccato le strade, invaso le piazze e talvolta si sono resi protagonisti di violenti scontri con le forze dell’ordine. Tuttavia, è fin da subito stato chiaro che la tassa sul carburante era solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Tra le lamentele dei gilet gialli, vi erano infatti anche in generale l’eccessivo carico fiscale, i tagli allo stato sociale, e la riduzione del potere d’acquisto delle famiglie.
Fatta eccezione per una marcata connotazione populista, non è stato per nulla facile interpretare dal punto di vista politico e sociologico questo fenomeno. In primo luogo, a causa dell’eterogeneità nella composizione del movimento. Sulla loro pagina Facebook, si sono autodefiniti come “un pensionato, un artigiano, uno studente, un disoccupato, un uomo d’affari (…) soprattutto una persona che è preoccupata di non arrivare alla fine del mese”. Tendenzialmente, opinionisti e commentatori hanno identificato nella protesta il grido di allarme di una classe media e medio-bassa, residente in zone suburbane e rurali, che si vede sempre più impoverita e penalizzata dai processi di globalizzazione rispetto a chi vive nelle zone urbane. E in secondo luogo, a causa della contraddittorietà nelle richieste formulate a Macron. La stessa riduzione delle imposte e incremento della spesa pubblica sono notoriamente difficili da conciliare in periodi di difficoltà finanziaria per gli stati.
In senso lato, è facile identificare quantomeno alcuni spiccati elementi di ‘sinistra’ nella battaglia dei gilet gialli. Le loro istanze riguardano necessità fondamentali per condurre una vita dignitosa in un paese occidentale. Del tipo poter pagare il mutuo, disporre di un’automobile che per l’appunto serve per andare al lavoro quotidianamente, poter fare affidamento su un sistema sanitario democratico ed efficiente, dare la possibilità ai propri figli di migliorare la propria posizione sociale. Tutte questioni che dovrebbero interessare ai partiti di sinistra che fanno dell’uguaglianza da sempre la loro bandiera. A certificare la dimensione di sinistra della contestazione, seppur con alcune riserve, è stato persino il noto intellettuale sloveno Slavoj Zizek, paladino del marxismo contemporaneo. Allo stesso tempo, è difficile non riconoscere un carattere anti-ecologista nella protesta. I gilet gialli non sono chiaramente disposti a sacrificare parte delle loro preziose risorse economiche per contribuire alla lotta all’inquinamento. Magari, considerata la crescente tendenza a credere a “fake news” e teorie cospirazioniste, alcuni di loro pensano che addirittura il cambiamento climatico non esista. Insomma, le politiche di salvaguardia dell’ambiente non sono per loro una stretta priorità o addirittura sono da avversare quando confliggono con interessi economici.
Questa vicenda fa riflettere sul complicatissimo rapporto tra sinistra e ecologismo. A maggior ragione considerato che a giocare la parte del difensore dell’ambiente in questo caso c’è un presidente che si è staccato dal Partito Socialista perché troppo centrista, che ha introdotto nuove norme per flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro, proveniente da una famiglia dell’alta borghesia, educato nell’elitaria ed esclusiva Science Po di Parigi, che vanta nel suo curriculum un’esperienza nella prestigiosa società di consulenza finanziaria Rotschild. E ad ancora maggior ragione dato che la protesta è stata sì appoggiata da Marine Le Pen, icona della destra sovranista, ma anche da Jean Luc Melenchon, volto riconoscibile della estrema sinistra francese ormai da anni. In parole povere, il conflitto politico vede da una parte della barricata, a perorare la lotta all’inquinamento, un liberista, e, dall’altra parte, a proteggere le masse dalle esternalità negative di questo processo, un’alleanza populista tra sinistra radicale ed estrema destra. Questa divisione sulle politiche verdi si ripropone un po’ in tutto il mondo occidentale. Ci basti pensare alla contrapposizione tra il primo ministro canadese Justin Trudeau, emblema del mondo liberal e convinto ecologista, e il suo dirimpettaio Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, protezionista ed esplicito negazionista del climate change.
Qualcuno potrebbe suggerire che in realtà oggi il conflitto politico e partitico si struttura su fratture diverse da quelle tra destra e sinistra. La questione è ovviamente molto complessa, ma la risposta più semplice è ‘sì’. Nel senso che, dal punto di vista analitico, sono stati sviluppati in scienza politica altre distinzioni che colgono in maniera più efficace la competizione tra i vari partiti. La più nota e utilizzata è quella conosciuta con l’acronimo GAL/TAN. Nel quale il primo termine, sta per Green (verdi), Alternative (alternativo) e Libertarian (libertario anche se la traduzione non è semplice) e il secondo sta per Traditional (tradizionalista), Authoritarian (autoritario), Nationalist (nazionalista). E guarda un po’: da una parte troviamo associati ecologismo e liberismo mentre dall’altra parte un coacervo di forze sovraniste e conservatrici, che possono essere tanto di destra quanto di sinistra. Proprio come verificatisi in Francia.
Per quanto questa distinzione sia teoricamente piuttosto recente, la dissociazione tra una certa idea di (elettorato e rappresentanza di) sinistra e movimenti ambientalisti è praticamente congenita alla nascita di questi ultimi nel mondo occidentale. Organizzazioni e istituzioni ecologiste si sono per lo più formate negli anni Settanta, quando è cresciuta la sensibilità dell’opinione pubblica su queste tematiche. Greenpeace è stata fondata nel 1971 ad esempio. Secondo il sociologo e politologo statunitense Ronald Inglehart, autore de La rivoluzione silenziosa, l’emergere di movimenti ambientalisti non è stato che un sottoprodotto di una serie di sviluppi nella società come la crescita economica, i cambiamenti tecnologici, l’espansione dell’educazione secondaria e universitaria. Questi fattori hanno permesso ai giovani dell’epoca di sviluppare dei valori e delle istanze post-materialiste, ovvero (apparentemente) non connesse con la soddisfazione delle necessità primarie. Tra queste appunto l’ecologismo, ma anche il pacifismo, la democrazia diretta e altro ancora. In parole povere, i giovani di allora, non dovendosi più preoccupare di riuscire a vivere e basta, chiedevano di vivere meglio, in un mondo migliore.

A questo punto è però difficile capire se sia venuto prima l’uovo o la gallina. Probabilmente sono nati in contemporanea. Da una parte un elettorato post-materialista di questo tipo ha trovato più semplice finire tra le braccia della sinistra, più ideologicamente votata all’eguaglianza e all’inclusione sociale. Dall’altra, partiti socialisti e perfino comunisti hanno progressivamente rinunciato alla loro componente materialista per adeguarsi alle trasformazioni nel loro stesso elettorato. Fatto sta che il matrimonio è andato a buon fine, sancendo il progressivo scollamento tra i tradizionali partiti di sinistra europei e una, più o meno nutrita, parte della classe lavoratrice, che continuava a doversi barcamenare per soddisfare necessità basilari. Uno scollamento che si traduce, per esempio, nella mancanza di contatto con quel mondo reale della quale viene tanto accusato il Partito Democratico in Italia.
In fondo si è trattato di uno spostamento verso il centro. Come quello compiuto dai verdi tedeschi, il partito ecologista più grande del vecchio continente. Progressivamente, i Grunen hanno abbandonato posizioni di estrema sinistra dal punto di vista socioeconomico per convergere verso tendenze liberali. Significativa da questo punto di vista l’esperienza di governo a cavallo del nuovo millennio con il socialdemocratico Gerhard Schroeder, esponente della ben nota ‘terza via’. Durante quegli anni, il ministro degli esteri e leader dei Verdi, Joschka Fischer, autorizzò anche la partecipazione della Germania al bombardamento NATO in Kosovo, in rottura con il tradizionale pacifismo senza se e senza ma del partito. Proprio questo spostamento verso il centro ha permesso ai verdi tedeschi di fare faville nelle ultime elezioni in Baviera, sfruttando le derive xenofobe dei conservatori e conquistando l’elettorato moderato della ricca Monaco.
E non è stato un caso che i benestanti elettori della capitale bavarese si siano fatti convincere a votare per i verdi. Infatti, diversi studi nel corso degli anni, oltre alle tendenze di sinistra, hanno rivelato l’impatto di fattori come l’istruzione e il reddito sul supporto per le politiche ecologiste. Per quello che si sa oggi, l’identikit dell’ambientalista tipo è: giovane, con un alto livello di istruzione, con un reddito sopra la media o comunque in crescita. Le ragioni dietro a queste associazioni sono molto evidenti: chi è più giovane ha più interesse nel futuro, chi ha un diploma universitario è maggiormente consapevole dei rischi connessi all’inquinamento, chi ha più soldi nel conto in banca è più disponibile ad utilizzare il proprio tempo per qualcosa che non ha un immediato tornaconto economico. E anche a pagare le esternalità negative della causa ambientalista, come nel caso dei gilet gialli. È meno chiaro invece se vivere in città aumenti o diminuisca la sensibilità per le politiche verdi. Da una parte chi vive più a contatto con la natura dovrebbe essere più attento alla questione. Dall’altra, è in città che si sente maggiormente il bisogno di misure per contrastare l’inquinamento. La protesta dei gilet gialli ci suggerisce che quasi paradossalmente chi vive nelle aree rurali è meno ecologista di chi vive in città. E che il divario sta aumentando. Ma potrebbe semplicemente essere perché chi risiede nelle zone urbane è tendenzialmente più giovane, più istruito e più ricco.
Il problema per i partiti di sinistra sta nel fatto che, come si può ben comprendere, questo elettorato rappresenta un’esigua minoranza della popolazione, insufficiente per ottenere risultati elettorali di rilievo. Per vincere le elezioni, un partito di sinistra deve riuscire in qualche modo a fare appello anche alle persone di mezz’età, a chi ha un reddito basso e ulteriormente assottigliato dal costo della vita, a chi non ha finito le superiori per necessità o scarsa attitudine, e a chi vive in zone rurali colpite dalla de-industrializzazione. Ponendo questioni di natura materialista ad un numero crescente di persone, ovvero impoverendole, la recente crisi economica ha consistentemente ridotto di conseguenza la disponibilità di queste fasce di popolazione a supportare politiche ambientaliste. Dunque, l’ecologismo è diventato una spada di Damocle per una sinistra che vorrebbe conquistare il potere.
Ma non tutto è perduto. Innanzitutto, sembra scontato dirlo, ma questa tendenza potrebbe essere invertita a monte, intervenendo per migliorare le condizioni economiche della popolazione. In questo senso la prima risposta di Macron alle proteste è stata apprezzabile: non negozio sull’ambiente, negozio sul welfare. Tuttavia, questa strada è tanto logica, quanto dispendiosa e legata alle congiunture economiche. La seconda strategia, più mirata, è quella di non far ricadere i costi delle politiche verdi sulle fasce meno abbienti. Questo è quello che sta facendo con ottimi risultati il governo della British Columbia, una delle province del Canada, tassando l’uso del combustibile fossile ma, al contempo, redistribuendo le entrate dell’imposta in maniera equa tra la popolazione. Ma non è un meccanismo semplice né da spiegare né da realizzare. E dunque di scarso appeal per un elettore comune. Molto più efficace invece è proporre di finanziare le politiche verdi con una tassa ai super ricchi. Lo ha fatto Alexandra Ocasio-Cortez, nuova protagonista della sinistra liberal negli Stati Uniti. E, con una mossa di marketing molto americana, lo ha chiamato pure “Green New Deal”. Così la raffinata combinazione di ecologismo e uguaglianza canadese ha sconfinato nel più grezzo populismo yankee. Come se oggi fosse l’unico modo per un partito di sinistra di essere vincente, portando avanti allo stesso tempo l’obiettivo di salvare il nostro pianeta.
Valerio Vignoli
Immagine di copertina pubblicata da Bündnis 90/Die Grünen su Flickr
2 pensieri su “L’ambientalismo non è (più) una cosa di sinistra”