L’anno appena trascorso ha fatto registrare un numero elevato di eventi climatici estremi e dagli effetti disastrosi in ogni angolo del pianeta. Dagli incendi che hanno devastato la California, uccidendo 85 persone alle ondate di caldo torrido, dagli uragani Florence e Michael, due dei più potenti mai registrati nell’Atlantico al tifone Mangkhut che, dall’altra parte del mondo, ha messo in ginocchio Hong Kong e le Filippine. Il cambiamento climatico non è più, ormai, un fenomeno ipotetico e lontano. Qualcosa negli ingranaggi che regolano la Terra è entrato in una crisi profonda, con conseguenze oggi sotto gli occhi di tutti, ed è sempre più chiaro che non è rimasto molto tempo prima che il danno diventi irreversibile.
Catastrofe annunciata: quanto tempo abbiamo per salvare il pianeta?
Il surriscaldamento globale è causato da due secoli di massicce emissioni di gas serra (quali anidride carbonica, protossido di azoto, metano), dovuti in gran parte alle attività umane, che intrappolano all’interno dell’atmosfera il calore terrestre. Secondo gli studi, dall’inizio dell’era industriale (XVIII secolo) la temperatura media globale è aumentata di 1°C, subendo un’ulteriore accelerazione nei tempi recenti. Ai ritmi attuali, il surriscaldamento potrebbe arrivare fino a +3-4°C entro la fine del secolo, con effetti disastrosi sugli ecosistemi e sulla vita sul nostro pianeta, portando siccità, declino della produzione agricola, scioglimento dei ghiacciai, inondazioni e innalzamento dei mari. Dalle proiezioni del Climate Central’s Program on Sea Level Rise, confrontando gli scenari derivanti da aumenti di 2°C e 4°C, emerge che, senza misure efficaci per invertire la rotta, entro il 2100 interi territori (tra cui un terzo della Florida, Miami compresa, l’area di Amsterdam, la nostra Venezia e un’ampia fascia della costa adriatica) si troveranno sommersi dalle acque. E, avvertono gli esperti, se il cambiamento non avverrà nei prossimi undici anni, potrebbe poi essere troppo tardi.
Per scongiurare i peggiori pericoli, gli scienziati indicano come obiettivo necessario il contenimento del riscaldamento globale entro 1.5°C. Secondo l’ultimo report dell’IPCC (la Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite), pubblicato lo scorso ottobre 2018, sono necessarie misure urgenti e inedite, da un drastico taglio all’utilizzo di combustibili fossili, a investimenti massicci in fonti di energia pulita, all’aumento delle aree boschiere e forestali. Ciò, tuttavia, potrebbe ancora non essere abbastanza, data l’abbondanza di CO2 che, dopo secoli di emissioni, continuerà per decenni a permanere nell’atmosfera. In un simile scenario, i leader politici di tutto il mondo sono oggi chiamati a un’assunzione di responsabilità senza precedenti, per trovare un punto di incontro e soluzioni comuni a un problema che, per dimensioni, vastità e gravità, non è possibile affrontare se non in un’ottica universale.
Da Kyoto a Katowice: cosa è stato raggiunto in due decenni di Conferenze sul clima?
Gli sforzi per contrastare la crisi risalgono a quasi trent’anni fa. Il primo passo fu costituito dalla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici firmata a Rio de Janeiro nel 1992 e ratificata ad oggi da 196 Paesi. Il fine dell’accordo era stabilizzare le emissioni di gas serra a un livello sostenibile e, pur non comportando obblighi vincolanti, aprì le porte a un processo destinato a durare fino ai giorni nostri. Nel 1997, durante il COP3 (la terza Conferenza delle Parti della Convenzione) venne firmato il Protocollo di Kyoto, che per la prima volta tentò di porre obiettivi concreti, assegnando ai Paesi tassi diversi a cui ridurre le proprie emissioni rispetto ai dati registrati nel 1995, preso come anno base, e, congiuntamente, del 5% a livello globale entro il 2012. Il tasto dolente del Protocollo fu la scarsa inclusività: alcuni dei Paesi in via di sviluppo più popolosi al mondo, con indici di crescita e di inquinamento significativi (Cina, India e Brasile in primis) furono esentati dagli obblighi e lasciati liberi di prendere provvedimenti su base volontaria, secondo la logica che, avendo intrapreso solo recentemente il cammino dello sviluppo economico, non erano responsabili della crisi climatica quanto le nazioni di più antica industrializzazione (il cosiddetto principio delle responsabilità comuni ma differenziate). Ciò ne minò le basi del consenso: il presidente statunitense George W. Bush rifiutò di ratificare il Protocollo, dopo che il suo predecessore Clinton l’aveva firmato, definendolo ingiusto e inefficace in quanto esentava “l’80% del mondo” e rischiava di causare “seri danni all’economia americana”.
Gli scarsi risultati ottenuti dal Protocollo di Kyoto e gli allarmi sempre più preoccupanti lanciati dagli scienziati hanno messo in luce la necessità di un’azione più incisiva. Alla Conferenza di Parigi (COP21) del dicembre 2015, 195 Paesi hanno firmato il primo accordo giuridicamente vincolante che stabilisce un piano d’azione sul clima a livello globale. Tra gli obiettivi principali spicca l’impegno a mantenere l’aumento medio della temperatura al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli dell’era preindustriale, puntando a limitarlo a 1.5°C.
Lo scorso dicembre, i leader mondiali si sono nuovamente riuniti nell’ambito del COP24 a Katowice, in Polonia. All’ordine del giorno di quello che, all’apertura dei lavori, era stato descritto come “uno dei summit più impegnativi e ambiziosi di sempre”, vi era la stesura del “Katowice Rulebook”: un insieme di regole chiave condivise da tutti che rendessero operativo ed efficace l’Accordo di Parigi. Il COP24, da questo punto di vista, è riuscito nell’intento. Dopo lunghe trattative, i governi hanno raggiunto l’accordo sulle procedure con cui misureranno, verificheranno e riferiranno i propri sforzi per ridurre le emissioni, elemento essenziale in quanto imporrà a tutti di attenersi a uno standard comune. Durante la sessione plenaria conclusiva, il Presidente del COP24, Michal Kurtyka, ha celebrato il successo della Conferenza di Katowice, affermando con soddisfazione che i Paesi hanno lavorato non solo nell’intento di difendere i propri interessi nazionali, “ma nella consapevolezza della propria responsabilità nei confronti delle popolazioni e del futuro della Terra”.
Politica e cambiamento climatico: cosa stanno facendo gli Stati?
Nonostante gli innegabili passi compiuti nel corso degli ultimi anni, la lotta al cambiamento climatico è tutt’altro che vinta. Le divergenze tra i Paesi rimangono profonde e la collaborazione tra di essi appare ostacolata oggi forse più che in passato. I problemi sono intrinsecamente politici, oltre che economici. Invertire la rotta del riscaldamento globale comporta sostanziali modifiche non solo ai sistemi produttivi, ma anche allo stile di vita delle società moderne, modifiche che molti Paesi non sono in grado, o non vogliono apportare. La questione si riduce, ancora una volta, ai rapporti di forza tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Questi ultimi chiedono margini di manovra maggiori e aiuti finanziari per poter effettivamente implementare ciò che viene loro richiesto tenendo conto delle peculiarità delle proprie economie e delle difficoltà che inevitabilmente incontrano. I Paesi industrializzati, d’altro canto, sono restii a fornire simili concessioni, tanto più ora che gli Stati Uniti di Trump sembrano non nutrire alcun interesse per le questioni ambientali, considerandole al più come un fastidioso onere potenzialmente dannoso per il proprio benessere economico e sociale. Ma cosa stanno facendo, in concreto, i governi?
Da un lato, l’Unione Europea si pone come uno dei principali promotori della lotta al cambiamento climatico. Secondo i dati del Climate Action Tracker (CAT), progetto portato avanti da tre organizzazioni scientifiche per analizzare gli sforzi e i progressi nel limitare il riscaldamento globale, il Vecchio Continente, pur non essendo ancora ai livelli ideali, è sulla strada giusta per ridurre efficacemente le emissioni, grazie agli obiettivi stabiliti in comune accordo nell’ambito delle istituzioni europee. Al momento attuale, nella scala del CAT che classifica gli Stati da “critically insufficient” (quelli che producono emissioni tali da comportare un aumento delle temperature di +4°C) a “role model” (quelli che rimangono al di sotto dell’1.5°C), l’Unione Europea si colloca ancora nella categoria degli “insufficienti” (<3°C). Tuttavia, se i propositi del Parlamento Europeo di tagliare le emissioni inquinanti del 55% verranno rispettati, potrebbe riuscire ad ottenere la sufficienza e tornare in linea con i 2°C.
Dall’altra parte del mondo, la Cina si trova in una situazione ambigua. Nazione con il più alto tasso di emissioni di CO2, un quarto del totale mondiale, fatto che spiega la sua posizione tra gli “highly insufficient countries” (<4°C) nella classifica del CAT, è al contempo il più grande produttore di energia solare. Dopo anni segnati da aria irrespirabile in tutte le principali città e inquinamento a livelli estremi, il governo di Pechino sta mettendo in opera misure che includono precisi limiti alle emissioni di anidride carbonica e conseguente chiusura forzata delle fabbriche che non li rispettano, nonché un sistema di quote che, tassando di fatto le emissioni, dovrebbe spingere i produttori a optare per fonti di energia più pulita. Provvedimenti a volte drastici, ma che dimostrano una seria volontà di fare quanto possibile per fermare il tracollo, supportati, tra l’altro, da una popolazione sempre più sensibile ai problemi legati all’inquinamento.
Tra i Paesi peggiori al mondo troviamo Russia e Stati Uniti, definiti “critically insufficient” (+4°C) dal CAT. A Mosca, il governo di Putin ha fatto pochi progressi, rimanendo peraltro l’unico grande Paese a non aver ancora ratificato l’accordo di Parigi del 2015 e facendo, pare, tutto il possibile per ritardare l’attuazione di misure concrete. A Washington, l’amministrazione Trump ha invece trascorso gli ultimi anni a smantellare, pezzo per pezzo, la politica climatica che era stata intrapresa da Obama. Il Presidente americano ha detto di non credere al cambiamento climatico, né ai preoccupanti dati emersi dagli ultimi studi in materia formulati dalle agenzie governative e internazionali. Già nel giugno 2017 Trump aveva annunciato l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi, sostenendo, come già aveva fatto in campagna elettorale, che esso ledesse l’economia nazionale e gli interessi di imprenditori e lavoratori.
La diffidenza di Donald Trump nei confronti del cambiamento climatico non è cosa nuova: nel 2012, anni prima del suo insediamento alla Casa Bianca, aveva affermato in un tweet che il surriscaldamento globale fosse stato “creato da e per la Cina” per mettere fuori gioco l’industria statunitense, posizione che sembra oggi essere condivisa dal nuovo ministro degli esteri brasiliano Ernesto Araujo. In un post pubblicato sul suo blog Metapolitica, egli ha infatti recentemente sostenuto che il cambiamento climatico altro non sia se non una sorta di complotto marxista, orchestrato per ostacolare le economie occidentali e promuovere la crescita della Cina. Il negazionismo del diplomatico brasiliano, ufficialmente in carica dal 1 gennaio, rappresenta un altro duro colpo alle prospettive di successo degli accordi, dopo che il suo Paese, nel corso degli anni, aveva svolto un importante ruolo di mediazione durante i negoziati.
Gli unici due Paesi che ad oggi rientrano nei livelli (1.5°C) stabiliti dall’accordo di Parigi sono il Marocco, la cui ambiziosa politica energetica include l’impegno di espandere la produzione di energia da fonti rinnovabili per arrivare, entro il 2030, al 52% del totale nazionale, e il Gambia, che ha inoltre lanciato un importante progetto volto a ripristinare diecimila ettari destinati a foreste e savane. I Paesi africani nel loro insieme invocano un’assunzione di responsabilità da parte delle nazioni più sviluppate e maggiori aiuti per il continente, ricordando che, come affermato da Seyni Nafo, capo della delegazione presente al COP24 di Katowice, essi sono “i più vulnerabili e i meno responsabili”, ma anche quelli che rischiano di risentire maggiormente e più rapidamente dei danni provocati dal cambiamento climatico.
Confrontando dati scientifici e tendenze politiche, lo scenario che emerge assume tinte poco rassicuranti. Come più volte annunciato dagli esperti, siamo l’ultima generazione che può scongiurare la catastrofe e il tempo che abbiamo a disposizione è agli sgoccioli. Se la tendenza non sarà invertita entro il 2030, le conseguenze sul pianeta saranno incommensurabili. Alla fine di quest’anno, la Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima si riunirà in Cile, ma l’incontro chiave sarà quello del 2020, che sia Regno Unito che Italia hanno offerto di ospitare. In tale occasione, i Paesi saranno chiamati a dare conto delle attuali iniziative per tagliare le proprie emissioni e a stabilire nuovi obiettivi comuni. Per garantire un futuro al pianeta, il prossimo decennio appare quanto mai cruciale.
Alessia Biondi
Fonte immagine di copertina: Stuart Rankin su Flickr
3 pensieri su “Cambiamento climatico: può la politica salvare il pianeta?”