Perché oggi dovremmo aver bisogno di riascoltare “La buona novella” di Fabrizio De Andrè? Esistono delle motivazioni ragionevoli che ci possano portare in un teatro ad ascoltare una voce che non sarà mai quella di Faber fare da megafono a quei versi? A chi parla “La buona novella” oggi? E se Gesù fosse ancora il più rivoluzionario dei rivoluzionari, che parte prenderebbe oggi? Impossibile non porsi alcuni di questi interrogativi nell’attesa che si apra il sipario su “La buona novella – A volte ritorno”, lo spettacolo che, sabato 14 ottobre, ha inaugurato la stagione del Teatro Duse di Bologna.
Se ciò che stimola la curiosità è scoprire chissà come Simone Cristicchi canta Fabrizio De Andrè, allora è bene dirlo subito: il confronto tra chiunque altro e Faber è impietoso. È sicuramente doloroso ammetterlo, ma con un pelo di cinismo è talvolta necessario ribadire che certe emozioni non torneranno più e, ahimè, c’è chi, come la sottoscritta, non le ha mai potute provare, e probabilmente ne sentirà sempre la mancanza. Tuttavia non siamo nemmeno ad X Factor, quindi non è fondamentale inondare la platea delle lacrime di Mara Maionchi o gridare allo scandalo. Mettiamoci il cuore in pace: “La buona novella” è uno spettacolo sulla parola di Fabrizio De Andrè, accompagnata ed incorniciata dalla musica riarrangiata da Valter Sivilotti ed eseguita live dalla ProgOrchestra dell’Accademia Naonis di Pordenone e dal Coro Friuli Venezia Giulia – giovani, preparato da Cristiano Dell’Oste e diretto, per l’occasione, da Anna Molaro.
Parole immortali, musica coinvolgente, voce rispettosa. Ma, quindi, chi è l’umanità protagonista de “La buona novella” oggi? Lo spunto ci viene dallo stesso spettacolo che si apre con un monologo inedito, “A volte ritorno”, con un Cristicchi, sempre in bilico tra la stoccata emotiva e la battuta facile, troppo facile, intento ad interpretare un Gesù che torna oggi sulla terra e percorre una Via Crucis fatta di barconi, Centri di Permanenza Temporanea, carceri ed, infine, il sottopassaggio di una stazione dove si consuma l’ultima cena, tra gli ultimi.
Circa un anno e mezzo fa, mi ci sono trovata in un sottopassaggio di una stazione. Era quella di Udine dove, da mesi, dormivano decine e decine di profughi che, appena giunti in Europa attraverso la rotta balcanica, trovavano un riparo dove dormire, una coperta, una tazza di tè caldo proprio lì. Ne è nato un reportage pubblicato su Voci Globali, e sono proprio quelle immagini e quei volti che ho visto scorrere davanti ai miei occhi mentre sul palco le parole di De André prendevano vita. Ed ecco perché vedrete quelle immagini in questo articolo e nessuno scatto dello spettacolo.
La miseria è la vergogna di chi mangia la carne tutti i giorni.
Laddove oggi vi è miseria, nei centri dell’accoglienza disumana, nelle carceri sovraffollate, nelle strade che per qualcuno rappresentano l’unica casa possibile, è lì che, immagina Cristicchi, Gesù tornerebbe e sono quelle le anime invisibili, quelle di cui De Andrè – forse – canterebbe.
Da qui parte una nuova Via Crucis con gli invisibili che ho portato con me. È qui che voglio stare, di loro non ho paura. Ho paura, continua il monologo, di chi si lava le mani e la coscienza. Oggi muoio nel nome dell’indifferenza.
E allora dal “Sogno di Maria” a “Via della Croce”, il merito dello spettacolo è quello di offrire una chiave di lettura per guardarsi letteralmente intorno. Tra le parole e la musica, nasce l’esigenza di dedicarsi all’ascolto di una vicenda che non ha età. E forse anche di indagare, anche timidamente, lo sguardo incrociato per caso di uno sconosciuto.
E la parola ormai sfinita
si sciolse in pianto
ma la paura dalle labbra
si raccolse negli occhi
semichiusi nel gesto
d’una quiete apparente
che si consuma nell’attesa
d’uno sguardo indulgente.
Uno sguardo indulgente, appunto, che lasci trasparire il semplice riconoscimento di un’umanità condivisa. Uno sguardo che è più spesso distratto, sospettoso, indifferente, pronto a trasformare la paura in muri. E di muri ne sorgono molti sì tra gli stati, ma ancor più spesso tra persone.
Persone che sono uomini, donne, fratelli, sorelle, sposi, compagni, figli. Figli di altri uomini, e altre donne che vivono mondi che conosciamo solo sulla carta, ma che sono terra, mattoni, acqua, farina, esattamente come quello che viviamo. Per comprendere perché mai queste persone che erano là, ora sono qua usiamo categorie analitiche, cerchiamo di enumerare push e pull factors, raccogliamo dati, numeri ed altre evidenze che sappiano dare una risposta ad una domanda anche semplice: perché partire da casa, rischiare la vita tra il deserto africano, la Libia e il Mediterraneo per arrivare in Italia dove non si sta poi così bene?
Non che gli studi non servano, giammai, ma a volte la risposta si cela anche nella nostra stessa esperienza. Ecco allora che vedere l’altro come una persona si trasforma in una risorsa preziosa. Ricordare, dunque, che chi è di fronte a noi è un figlio può farci, se non altro, intuire quanto può essere forte la spinta ad andare.
Femmine un giorno e poi madri per sempre
nella stagione che stagioni non sente
E proprio delle madri che nessuno si occupa mai. Madri che ad un angolo della strada salutano i propri figli, senza sapere se li rivedranno mai più, senza sapere se sopravviveranno loro.
La notizia è che il numero di morti e di sbarchi del Mediterraneo è in calo. Il becchino, però, ha contato 2.775 cadaveri nel 2017. 2.775 persone senza un nome, una sepoltura, un amico che ne ricordi le battute, una sorella che ne pianga il ricordo.
Nessuno di loro ti grida un addio
per esser scoperto cugino di Dio;
gli apostoli hanno chiuso le gole alla voce,
fratello che sanguini in croce.
Ed è “Tre madri” il ponte tra l’album di De André, l’idea di Valter Sivilotti e Giuseppe Tirelli, i testi di don Andrea Gallo e don Pierluigi di Piazza che hanno ispirato Simone Cristicchi, e l’umanità che si cela dietro all’etichetta di “clandestino”. Un incontro che assomiglia ad uno scontro, o forse ad un pugno nello stomaco, perché sono parole che non accettano scuse, non tollerano un “non sapevo” oppure un “non ci ho fatto caso”, non consentono di voltarsi dall’altra parte.
Per me sei figlio vita morente
ti portò cieco questo mio ventre
come nel grembo e adesso in croce
ti chiama amore questa mia voce
non fossi stato figlio di Dio
t’avrei ancora per figlio mio.
Questa buona novella è forse semplicemente una suggestione, un percorso intero costruito su una connessione fondata sull’empatia più che su basi solide perché Fabrizio De André non è seduto in platea ad osservare cosa è accaduto dell’umanità, né qui c’è qualcuno con la presunzione di farsi portavoce del suo pensiero. Rimangono, per fortuna, le sue ragioni e il suo perché fosse necessario narrare, alla fine degli anni Sessanta, proprio questa storia, la storia di quello che ha fatto “un signore contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un egualitarismo e di una fratellanza universali“. Laudate hominem.