Il sistema di accoglienza per migranti e richiedenti asilo in Italia non funziona, è pensato per facilitare forme di business, fallisce ogni obiettivo di inclusione sociale: questo il desolante quadro che emerge dal rapporto “Accogliere: la vera emergenza” presentato dalla campagna LasciateCIEntrare. Un anno intero di visite, incontri, interviste in tutti i luoghi in cui dovrebbe realizzarsi la transizione tra l’arrivo, rocambolesco e pericoloso, in Italia e la permanenza nel nostro paese o in Europa, finalmente in un quadro di legalità.
I delegati della campagna, nata nel 2011 per richiedere la possibilità di accesso per giornalisti e attivisti ai Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), hanno visitato un centinaio di strutture su tutto il territorio nazionale, includendo centri per irregolari e per rifugiati, spazi dedicati ai minori non accompagnati e Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas), spingendosi anche in alcuni contesti gestiti con il sistema SPRAR e, all’opposto, completamente informali. Cambiano gli ambienti, non la sostanza di un’accoglienza che, a livello nazionale, stenta ad assumere una forma efficace.
Yasmine Accardo, responsabile della campagna nei territori, spiega come si stia realizzando una ghettizzazione dei migranti che vengono collocati in strutture spesso in aree periferiche: “I giornalisti vorrebbero lo scoop, invece ripetiamo sempre le stesse cose, ma perché accadono. Allora ripetiamo che un gestore nella provincia di Benevento continua a dire che l’unico modo che abbiamo di ospitare i migranti siano i ghetti. Perché i migranti non possono essere inclusi”. Una difficoltà che viene aggravata dal prevalere dei sistemi di accoglienza straordinaria, i CAS appunto, rispetto al sistema di accoglienza previsto dalla legge.
Secondo quanto riportato da OpenMigration, sono quasi 100mila i migranti ospitati nelle strutture italiane: 70.918, ovvero il 72%, è distribuito nei Cas creando situazioni estremamente complesse e variegate. Vi sono infatti contesti, come per esempio a Trieste, dove l’accoglienza via Cas rispetta il principio dell’accoglienza diffusa e, dunque, riesce in qualche modo a fornire ai richiedenti asilo le tutele cui hanno diritto. Vi sono, invece, altri casi in cui la straordinarietà delle misure e l’incertezza sulla rendicontazione fanno sì che l’accoglienza sia, quanto meno, nebulosa. Non mancano, poi, sistemi di accoglienza che rappresentano l’emergenza nell’emergenza, strutture adibite a tendopoli o campi di accoglienza informali come alla Caserma Cavarzerani di Udine, dove sono alloggiati stabilmente circa 500 richiedenti asilo in condizioni al limite della decenza e in un clima di tensione che cresce di giorno in giorno. Il resto dei richiedenti asilo sono distribuiti nei 13 Cara governativi, nei 7 Cie ancora attivi, secondo quanto riportato dal Ministero dell’Interno. Le strutture teoricamente deputate all’accoglienza, quelle parte dei progetti Sprar gestiti su base volontaria dagli enti locali (che per l’attivazione vi contribuiscono per il 20% con il bilancio comunale) sono 674 distribuite in 574 enti locali differenti per un totale di 26.700 posti.

La fotografia che emerge è quella di un sistema che ha fatto dell’emergenza la regola. Se, da un lato, gli esempi virtuosi come quello di Riace, mostrano la strada da percorrere, non diminuiscono i grandi agglomerati di persone, situazioni che non favoriscono né il rispetto dei diritti, né l’integrazione. Intervenuta al dibattito pubblico “Accoglienza: verità e bugie” organizzato dal comitato Possibile – Rosa Cantoni di Udine, Antonella Nonino, assessore del Comune del capoluogo friulano dove sono più di 1000 le persone che non rientrano in nessun sistema di accoglienza “ufficiale”, spiega che la priorità è evitare che le persone dormano in strada. Una priorità accolta e sentita in primo luogo dalle associazioni della società civile che, in tutta Europa, portano il peso dell’accoglienza e si trovano costrette a sopperire ai limiti e alle falle del sistema di accoglienza con le risorse che hanno a disposizione. Un’attività che talvolta ha portato i volontari a finire nel mirino delle autorità giudiziari, come dimostra la recente apertura delle indagini contro sette volontari dell’associazione Ospiti in arrivo, e che ha profonde ricadute anche sulle vite stesse dei migranti. “Vivere fuori dall’accoglienza, racconta Angela Lovat, una delle promotrici di Ospiti in arrivo, significa non avere accesso all’assistenza sanitaria, a quella psicologica, all’informativa legale, ad una tazza di te, ad una coperta. Significa non avere un bagno dove farsi la doccia, come quel 25enne che, ormai un anno fa, ha perso la vita nell’Isonzo mentre cercava solo un modo per prendersi cura di sé. Nessuno pagherà per questa morte per mancanza di accoglienza.”
Ci si chiede come sia possibile che un flusso migratorio come quello che interessa l’Italia oggi, con dei numeri che di per sé dovrebbero da soli spiegare che non si tratta di un’emergenza, spingere al collasso il sistema. Elly Schlein, europarlamentare attiva da sempre sul tema, non ha dubbi: “É una questione di volontà politica. I governi europei si dimostrano ogni giorno incapaci di raccontare ai propri cittadini gli obblighi giuridici per quanto riguarda l’asilo e l’accoglienza”. Non mancano le voci che spingono verso un approccio differente fatto di corridoi umanitari per permettere un accesso sicuro e legale per i richiedenti asilo, del superamento del principio della volontarietà dell’accoglienza (sia a livello locale sia a livello europeo – per rispondere al fallimento della relocation), del riconoscimento compiuto dei proprio obblighi giuridici ed etici nei confronti di un problema globale. Invece la tendenza resta quella dell’esternalizzazione delle frontiere e della ghettizzazione del migrante, rafforzando la visione della “crisi” come un’emergenza. Questo è il gioco a perdere della (mala)accoglienza all’italiana.
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