Il documentario Les Soeurs: les femmes cachées du djihad immerge lo spettatore immediatamente nel mondo parallelo delle sorelle, le donne francesi che si convertono all’Islam radicale e collaborano con Daesh. In questo mondo, vissuto in gran parte su internet fra Facebook, Telegram e software per criptare la localizzazione, due giovani giornaliste si immergono in incognito creando dei profili falsi per entrare in contatto con le reti di reclutamento. Le infiltrate sono guidate da tre nomi importanti del giornalismo francese, Marina Ladous, vincitrice di due Prix Albert Londres, Roméo Langlois e Etienne Huver. Insieme, passano un anno a indagare sulle reti che reclutano donne, a volte adulte, ma molto spesso minorenni, per compiere attentati sul territorio francese o per partire in Siria e in Iraq.
Il profilo falso creato dalle due giornaliste è modellato su quello di molte giovani sensibili alla propaganda sulla Djihad: di giovane età, recentemente convertite, con scarsa conoscenza generale dell’Islam, portate alla radicalizzazione. L’elemento che colpisce lo spettatore, menzionato anche dai creatori del documentario, è la facilità di contatto. Nonostante la crescente paranoia del mondo occidentale, siamo portati a concepire il terrorismo e i terroristi come entità estranee e lontane da noi, inconsciamente relegandoli in ambienti come le banlieues di Parigi, fra giovani disoccupati allo sbando che passano dai piccoli crimini al terrorismo. Immaginiamo contatti in chatroom a sfondo nero come nei film americani. Sappiamo che la verità è un’altra, ma i nostri meccanismi mentali ci impediscono in qualche modo di interiorizzarla. Ed eccola, la verità, in questo documentario prodotto da France 24 e Envoyé Spécial e proiettato come conclusione del Terra di Tutti Film Festival con collaborazione di The Bottom Up.

La verità che Les Soeurs ci comunica mina le nostre certezze istintive su più fronti:
I terroristi non sono difficili da contattare e non sono completamente nascosti. Al contrario, si servono di tutti i canali di comunicazione possibili, di tutte le tecnologie di ultima generazione allo scopo di diffondere le loro idee radicali: creano profili e pagine su Facebook, condividono immagini, video e perfino canzoni su canali Telegram. Contattano le potenziali reclute tramite videochiamate e messaggi vocali, le accompagnano per mano nel percorso di conversione. E il fenomeno coinvolge tutta la Francia, città e campagne: Anissa, una ragazza partita a 22 anni nel 2013, veniva da un paese idilliaco nella zona di Bordeaux, fra colline ricoperte di vigneti.
I convertiti all’Islam radicale non presentano motivazioni uniformi. Una delle interviste più interessanti all’interno del documentario è quella a Virginie Leblicq, psicologa belga di religione musulmana che lavora spesso con ragazze tentate dall’Islam radicale. Secondo lei, la maggioranza di chi è tentato dalla militanza in Daesh e dal martirio, presenta fragilità emotive e psicologiche, scarsa fiducia in sé, a volte tendenze depressive. Secondo lei, Daesh sceglie le pedine, gli individui facili da manipolare. Allo stesso tempo, esistono altri profili: c’è chi vuole combattere per salvare il mondo, spinto da motivazioni umanitarie e utopistiche, e chi, invece, è attirato unicamente dalla violenza.
La via del ritorno esiste, e molte donne la prendono. Tendiamo a pensare che una volta che una persona si avvicina al terrorismo, non si possa tornare indietro. Questo è particolarmente vero per chi parte a combattere in Siria. Queste donne sono considerate da noi al di fuori di ogni possibile contatto, perse, andate. Eppure nel documentario, i giornalisti parlano con la mamma di Anissa. Fatima riesce sporadicamente a parlare con lei via chat. Anissa parla con la madre “di tutto e di niente”, principalmente della sua bambina. La madre non porta rancore, e aspetta. Aspetta che sua figlia torni a casa, come ha fatto Marie. Marie, trent’anni e un figlio di cinque all’epoca della sua partenza in Siria, è rimasta terrorizzata dalla sua esperienza, dalla violenza sistematica e inculcata anche ai bambini, dall’esaltazione integralista delle altre donne provenienti dall’Europa, dall’arroganza da colonizzatrici manifestata nei confronti delle siriane, ritenute inferiori.

La conclusione del documentario è un quesito legato proprio a quest’ultimo punto. Una volta che si segue il percorso delle donne jihadiste, si arriva a un punto di ritorno. Il ritorno diventa di fatto una questione sociale, presentata dall’avvocato Pascal Garbarini, impegnato in diversi casi di terrorismo: come gestire chi torna, o chi viene fermato in tempo? Alcune donne, come Marie, fuggono dallo Stato Islamico, mentre altre, pur lasciando le zone di guerra, non abbandonano il loro sostegno all’ideologia jihadista. Ora che sappiamo come si dipana la strada dell’integralismo islamico, sarà possibile trovare delle soluzioni? Con 800 francesi, di cui più di un terzo donne, che hanno lasciato il paese per partire in Siria, la risposta a questa domanda appare quanto mai urgente.
Diciamo che se quelle che lavorano con i convertiti all’islam radicale sono persone come Virginie Leblicq, lei stessa convertita all’islam radicale, mi sa che non si può andare avanti.
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