Ultimo tango per la Generación Dorada

Guardate questa foto. Micheal Jordan, Magic Johnson, Larry Bird e tutti gli altri.
Il Dream Team: la squadra di pallacanestro più forte di tutti i tempi.
Siamo alle Olimpiadi di Barcellona, nel 1992: per la prima volta nella storia dei Giochi, ai professionisti della NBA è ammesso calcare il parquet a cinque cerchi. Nonostante gli USA, schierando giocatori provenienti dai college, avessero comunque vinto nove delle dodici edizioni precedenti, l’8 agosto 1992 al Palau Municipal d’Eportes, con la vittoria in finale per 117 a 85 sulla Croazia di Drazen Petrovic, sembra iniziare un vero e proprio dominio.
La nazionale americana vince i Mondiali nel 1994 e le Olimpiadi di Atlanta 1996 e Sydney 2000. Un mito si impone: quando gli USA schierano giocatori NBA, nessuna squadra al mondo può batterli. (Qui una raffigurazione plastica del concetto, da Sydney)

Original Olympic Dream Team 1991
Il Dream Team di Barcellona ’92

Ma certi miti, si sa, sono fatti per essere sovvertiti.
Mondiali 2002, Indianapolis, Stati Uniti.
Il 4 agosto, alla Conseco Fieldhouse Arena, si gioca il terzo turno dei gironi di ottavi di finale. Di fronte agli USA di Pierce, Miller, Davis e Ben Wallace si schiera l’Argentina. Palla a due, primo possesso in attacco per l’albiceleste, Hugo Sconochini serve un taglio a centro area di Manu Ginobili che segna i primi due punti dell’incontro. Trentanove minuti e quaranta secondi dopo, alla sirena finale, il tabellone elettronico segna a sorpresa “Stati Uniti 80 – Argentina 87”. Al rientro in albergo, le squadre avversarie riservano agli argentini una standing ovation: il tabù è infranto, i padroni americani possono essere battuti.

2002
L’Argentina ai mondiali di Indianapolis nel 2002

Quel giorno, il mondo della palla a spicchi fa conoscenza con una generazione di cestisti talentuosi e promettenti, nati tra il 1975 e il 1980 e già ai vertici delle principali competizioni europee.
C’é Manu Ginobili, trascinatore della Virtus Bologna del Grande Slam; c’è Andrés Nocioni, che gioca nei Paesi Baschi, assieme a Luis Scola e Fabricio Oberto; c’è infine “Pepe” Sanchez, playmaker del Panathinaikos.
Date queste premesse, l’argento conseguito ai mondiali di Indianapolis, alle spalle di una strepitosa Jugoslavia, affrontata con il proprio miglior giocatore – Ginobili – infortunato, non poteva che essere un punto di partenza.

Talvolta si dice che i tornei Olimpici, nonostante il significato simbolico, non riescano ad offrire un contenuto agonistico e tecnico di pari valore, a causa delle defezioni di molti atleti di primo piano. Nel basket, se si eccettuano le occasionali bizze delle superstar NBA, raramente ciò avviene. Di certo, non avvenne ad Atene, nel 2004, quando calcarono il parquet giocatori che hanno segnato gli ultimi quindici anni della pallacanestro mondiale.
Eccone un sommario elenco per nostalgici del basket che fu: Tim Duncan, Allen Iverson, più i giovani James, Wade e Anthony per gli States; i maestri lituani Stombergas, Jasikievicius e Macijauskas; i padroni di casa Diamantidis, Spanoulis e Papaloukas; Pau Gasol, Navarro, Calderòn e Rudy Fernandez, capofila di una Spagna poi campione del mondo e d’Europa; Dejan Bodiroga con la sua Serbia iridata; il gigante Yao Ming; l’Italia al suo punto più alto, con Basile, Galanda e Pozzecco.

Ai nastri di partenza, l’Argentina ripropone il nucleo sorprendente di Indianapolis, rinforzato da Carlos Delfino e Walter Herrmann – la cui carriera in nazionale, nelle estati 2003 e 2004, era stata tragicamente funestata dalla morte di madre e sorella prima e del padre poi.
La prima sfida del torneo metteva nuovamente di fronte gli albiceleste e gli iridati serbi, in una rivincita della finale mondiale. A tre secondi dal termine i serbi si portano in vantaggio di una lunghezza, grazie a un tiro libero di Tomasevic. Rimessa dal fondo, Sanchez in palleggio taglia il campo e serve Ginobili, che inventa un complicatissimo canestro di tabella, suggellando con il sorpasso definitivo una performance di prim’ordine da 27 punti personali. Il cammino nel girone eliminatorio non è tuttavia agevole, nonostante il ben augurante esordio: l’Argentina perde con la Spagna e con l’Italia, qualificandosi come terza.

Ad attendere gli argentini ai quarti di finale sono i padroni di casa della Grecia: partita a basso punteggio, ambiente ostile, ma sono Scola, Ginobili e compagni a spuntarla per 69 a 61. Si arriva così alle semifinali: Usa – Argentina e Italia – Lituania.
Gli statunitensi, ritrovati fiducia e ritmo dopo l’esordio stentato, bramano vendetta su coloro che per primi avevano scalfito il mito di invincibilità a stelle e strisce. Ma non c’è partita: il gioco corale degli argentini (18 assist, ottime percentuali al tiro e responsabilità condivise) si impone sul superiore talento individuale delle stelle NBA. In più, Manu Ginobili segna 29 punti, con 9/13 dal campo e 7/8 ai liberi, mentre il compagno di club in NBA Tim Duncan, dopo un inizio di partita dominante, incappa in problemi di falli ed è costretto a lungo in panchina. E’ finale per la selección.

A sfidarla è l’Italia, reduce dalla vittoria a sorpresa sulla Lituania, dopo aver condotto la più bella partita della propria storia.
Ma gli azzurri appaiono stremati dalle fatiche precedenti e in parte appagati dall’eccellente risultato già assicuratosi. Gli albiceleste, invece, all’ultimo atto di un crescendo che li aveva visti imporsi sui campioni del mondo in carica, sui padroni di casa e sui maestri statunitensi, giocano il miglior basket del torneo.
Finisce 84 a 69 per l’Argentina, con 25 punti e 11 rimbalzi di Luis Scola e 16 di Ginobili.
Una generazione di fenomeni, accomunati da talento, garra e straordinaria conoscenza del gioco, veste l’oro olimpico. La generación dorada.

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Oro e alloro per gli argentini

Proprio in quegli anni, il numero di giocatori provenienti da campionati europei ingaggiati da franchigie NBA cresce esponenzialmente, ed è plausibile immaginare che le batoste di Indianapolis e Atene abbiano rivelato agli statunitensi la qualità diffusa del basket d’oltreoceano. Dopo l’oro di Atene, comprensibilmente, gli argentini sono merce pregiata.
A parte le brevi comparsate di Pepe Sanchez e Ruben Wolkowyski, il solo Manu Ginobili aveva già solcato l’oceano, conquistando il suo primo titolo con i San Antonio Spurs nel 2003. All’indomani della vittoria olimpica, anche Carlos Delfino e Andrès Nocioni trovano spazio, rispettivamente a Detroit e a Chicago, inaugurando esperienze durature e di buon livello (oltre 500 partite disputate per entrambi). L’anno successivo si aggiunge Fabricio Oberto, che vincerà il titolo 2007 insieme a Ginobili nelle fila degli Spurs. E’ il turno poi di Walter Herrmann – tre stagioni a partire dal 2006 – e di Luis Scola, ormai alla decima stagione di un’ottima carriera iniziata a Houston (chiudendo la stagione 2011 a 18 punti di media).

Nel complesso, tra Europa, Sudamerica e Stati Uniti, i giocatori citati (insieme a Pablo Prigioni che si aggregherà nel 2006) hanno vinto: 5 titoli NBA, 4 Eurolega, 1 Eurocup, 2 Coppe Intercontinentali, 11 campionati nazionali, 11 coppe nazionali –  e tralasciamo le competizioni minori.

Qualora le parabole di successo di ognuno dei componenti della generación dorada non fossero sufficienti, i risultati ottenuti dalla nazionale argentina negli anni seguenti testimoniano che quello di Atene non fu un exploit, ma consistent greatness, per dirla all’americana. L’albiceleste arriva quarta ai mondiali del 2006, perdendo di un punto la semifinale contro la Spagna vincitrice, per poi presentarsi da detentrice del titolo alle Olimpiadi di Pechino 2008, alla cui cerimonia di apertura Manu Ginobili sfila da portabandiera.

Argentina's Olympic team follow their national flag-bearer Emanuel Ginobili during the opening ceremony of the Beijing 2008 Olympic Games at the National Stadium
Prima portabandiera poi infortunato (Pechino ’08)

Il cammino verso la riconferma tuttavia si arresta in semifinale contro il Redeem Team, la nazionale statunitense finalmente composta da tutti i migliori giocatori NBA dell’epoca (da Kobe Bryant a Lebron James – l’unico reduce della spedizione di Atene, insieme a Anthony e Wade), chiamata a sanare l’onta di sei anni di delusioni internazionali. Dopo sei minuti di gioco, Ginobili è costretto ad abbandonare il campo per un infortunio alla caviglia, ed il punteggio a fine quarto (31 a 10 per gli USA) diviene un macigno insormontabile. Pur priva del proprio leader, la selección si consola assicurandosi il bronzo con la vittoria per 87 a 75 sulla Lituania, mentre il Redeem Team porterà a termine il suo compito dopo una spettacolare e combattuta finale contro la Spagna, piegata di soli undici punti.

A Londra, nel 2012, della squadra campione olimpica di Atene rimangono solo Ginobili, Scola, Delfino e Nocioni (oltre alla riserva Gutierrez). L’oro va agli Stati Uniti, mentre per gli argentini il sogno della terza medaglia olimpica consecutiva sfuma negli ultimi secondi della finale per il terzo posto, persa per 81 a 77 contro la Russia.

La parabola della generación dorada pare a quel punto avviata ad ampi passi verso il declino e la causa della fine è la stessa eccezionalità che ha reso le vicende di questo straordinario gruppo di atleti una storia da raccontare: la pallacanestro argentina non ha saputo produrre altrettanto talento dopo di loro, come non era accaduto in precedenza. L’inesorabile procedere dell’età, l’affermarsi di un basket ancor più atleticamente esasperato, la costante competitività delle scuole tradizionali e l’emergere di nuovi movimenti hanno fatto il resto.

Ma è davvero finita?
Sabato prossimo, alle 22.30 (ora di Rio), alla Carioca Arena, il trentanovenne Ginobili, i trentaseienni Scola e Nocioni, il trentaquattrenne Delfino, allacceranno una volta ancora le scarpe e affronteranno la loro quarta olimpiade, dodici anni dopo Atene. E anche se le chance di medaglia appaiono risicate, e anche se l’ennesimo oro statunitense pare scontato, l’ultimo tango della generación dorada sarà comunque bellissimo.

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Verso Rio. Al centro Ginobili e Delfino, a destra Scola (sarà portabandiera) e Nocioni.

 

Andrea Zoboli

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