Kobe Bryant, racconta The Bottom Up

Non aspettatevi la storia della vita di Kobe Bryant, o se ve la aspettate non vi faccio perdere ulteriore tempo: chiudete l’articolo. Non aveva senso rinchiudere la vita e la carriera del Black Mamba dietro freddi numeri. Piuttosto abbiamo deciso di raccontare, prima ancora che a voi, a noi stessi, cosa sia stato Kobe Bryant per noi. Quando questa breve introduzione sarà terminata, troverete le personali opinioni, i ricordi, i pensieri, le associazioni mentali, insomma le proprie idee sul #24 di cinque tra amici e redattori di The Bottom Up. Potreste tranquillamente non essere d’accordo con loro (loro stessi non lo sono, come scoprirete leggendo). Ma è questa la particolarità di un vero campione, no? Entrare nelle vite di ognuno, in modo diverso, e lasciare lì qualcosa. Ecco. Qui troverete il nostro “qualcosa”.

Marco Pasquariello

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Andrea.

Settembre 2011, la NBA è bloccata dal lock-out. Numerosi giocatori del campionato a stelle e strisce, anche di primo piano, si mettono alla ricerca di squadre europee in cui poter giocare durante i mesi di stop forzato.

A Bologna, sponda Virtus, l’eccentrico presidente Claudio Sabatini coltiva un sogno: riportare in città Manu Ginobili, stella della squadra del Grande Slam del 2001 e acclamato campione NBA con i San Antonio Spurs. Ma Ginobili prende tempo, per poi declinare l’invito. Sabatini sceglie allora di rilanciare: vuole vestire di bianconero il giocatore più forte di quest’epoca, Kobe Bryant. All’inizio sembra una boutade, specie a seguito dell’iniziale approccio su Facebook, ma le trattative iniziano per davvero, tra conference call notturne, imprenditori e sponsor mobilitati, Legabasket contattata affinché permetta alla Virtus di giocare dieci gare tra ottobre e novembre, in modo da poter mettere a frutto, commercialmente e tecnicamente, la presenza dell’asso dei Lakers. A fine mese, partecipando ad un evento promozionale in Italia, Kobe Bryant dichiara che “giocare qui è molto possibile” , mentre Sabatini rilancia: “c’è l’accordo economico, è fatta”.

Ma l’affare non si concretizza, nonostante il patron Virtus proponga a Rob Pelinka, agente di Kobe, soluzioni di vario genere, dal contratto annuale a quello mensile (dal valore di 2,5 milioni di euro), fino alla singola esibizione in maglia bianconera. Ma più il tempo passa, più si avvicina il termine del lock-out e la conseguente ripresa del campionato NBA.Le speranze dei tifosi bolognesi si affievoliscono, allora Sabatini sceglie di giocarsi il tutto per tutto con un appello estremo a Barack Obama!

“Dear Mr. President,
We have a dream: to see Kobe Bryant playing for our Team Virtus Pallacanestro Bologna, the italian town wellknown in the world as Basket City. According to your wishes we hope that the NBA lockout will shortly stop but in the meanwhile let us have the chance to see at least for one game the great Kobe Bryant playing with our black and white jersey and be part of our history”.

Evidentemente, nemmeno il contatto tra l’uomo più potente del mondo e il titolare dello Studio Ovale consentì ai tifosi virtussini di udire la voce dello storico speaker Terrieri introdurre a Casalecchio il Black Mamba. L’unica cosa che sentirono, invece, per tutta la durata della stagione, furono gli sfottò delle tifoserie rivali. La Virtus concluse quella stagione al quinto posto, e venne poi eliminata con un secco 3-0 da Sassari nei quarti dei playoff. Kobe Bryant, invece, segnò quasi 28 punti di media e condusse il Lakers alle finali di conference.

Oggi che Sabatini non è più presidente della Virtus, la stessa Vu Nera è a un passo dalla retrocessione e Kobe Bryant ha appeso le scarpe al chiodo, il tentativo di portare il #24 a Bologna rimane la storia di una follia, di un’esagerazione mediatica, ma forse anche di un ultimo ingenuo sussulto prima di sprofondare nella triste mediocrità che oggi affligge, in misura diversa, tanto la Virtus quanto i Lakers.

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Elena. 

“Mamma, mi iscrivi ai Chicago Bulls?” “Sono alto quasi come Michael Jordan, vero?”
Frasi ricorrenti, pronunciate da un bambino con una scodella di capelli biondi ed alto due palloni a spicchi o poco più. Per noi, che siamo cresciuti a pane e pallacanestro, sua Altezza Aerea è stato il primo mito, quando ancora non sapevamo nemmeno cosa fosse un pick & roll e “palla accompagnata” e “passi” non potevano esser fischiati.

Qualche anno più tardi, al rosso-nero-bianco si sono affiancati il giallo e il viola di Kobe Bryant. Vuoi perchè quel numero 8 aveva mosso i suoi primi passi sul parquet proprio in Italia, vuoi per la sua faccia simpatica, vuoi perchè MJ ormai era nella Hall of Fame del cuore, ma poco in campo.

Così, da brava sorella, contavo e ricontavo i risparmi, messi da parte rinunciando a goleador e figurine, per regalare a quel cestista in erba – alto almeno quattro palloni a spicchi – la mitica canotta gialla di Kobe. Ricordo ancora l’ampio sorriso e i saltelli non appena fiocco e carta raggiunsero il pavimento e, per giorni, mio fratello non indossò altro.
Continuavamo a crescere – anagraficamente- noi e continuava a crescere – sportivamente – quello che presto sarebbe stato conosciuto da tutto il mondo come il Black Mamba. La canotta ormai era riposta con cura, troppo piccola per essere indossata, e nel frattempo Bryant passava al 24. Nemmeno un dubbio, quindi, quando il compleanno di mio fratello si avvicinava: era d’obbligo poter sfoggiare il 24 al campetto.

Due regali piccoli a simboleggiare le sveglie puntate ad ore assurde per guardare le partite in diretta, il tifo davanti ad uno schermo con la voglia di essere lì, gli allenamenti passati a tentare di migliorarsi e assomigliare anche solo un pochino a quella Leggenda Vivente.
Ora si è ritirato da grande campione, con 60 punti nell’ultima partita di carriera, scrivendo una lettera al basket che ha commosso appassionati e non, e io non posso fare a meno di dirgli grazie.

Grazie Kobe, per il bel gioco che hai saputo regalarci, per le emozioni, le vittorie, e per esser stato in un modo o nell’altro parte della nostra vita e dei sogni sportivi.
L’unico rammarico, per me, è di non essere riuscita a regalare – magari per un compleanno – la possibilità di vederti giocare dal vivo.

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Fabrizio.

Lasciamo stare i soldi, la fama, la famiglia, le gratificazioni. L’ultima persona che vorrei essere nei prossimi anni è Kobe Bryant. Non credo proprio che uno come lui avrà un’esistenza serena, che saprà accontentarsi di quello che è riuscito ad ottenere, di essere “uno dei migliori di sempre” e non IL migliore.

Questa è la cosa che mi ha sempre fatto impazzire di Kobe, che lo ha reso qualcosa di assolutamente unico e irripetibile: per 20 anni ha vissuto in un mondo in cui esistevano solo lui e la sua ossessione di diventare il più forte. Del resto, lo ha sempre ammesso lui stesso, gli interessava meno, o poco, o in certi caso proprio niente. È stato a mio avviso il giocatore più stronzo di sempre, un ossessivo-compulsivo, uno che ha messo a dura prova e spesso distrutto tutti i rapporti umani con le persone con cui ha avuto a che fare (Shaq, Phil Jackson, il padre, la madre con la quale ha attualmente una causa aperta per citare i più noti), uno che se ci fosse una classifica del giocatore più odiato dai suoi compagni di squadra arriverebbe primo secondo e terzo. Con ammirevole coerenza, ha continuato ad essere uno stronzo fino alle ultime partite (bellissima scena quest’anno il suo sguardo di disprezzo nei confronti dei suoi compagni che esultano e si abbracciano dopo un canestro) di una carriera epica e segnata in ogni momento dalla sua ossessione.

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Il poster di Kobe attaccato all’armadio di uno che ha sempre amato il suo essere così sfacciatamente stronzo

Ora è (giustamente) celebrato da tutti, ma c’è stato un periodo in cui questo suo essere così sfacciatamente stronzo non piaceva molto a tifosi e opinionisti. C’è stata una crescita nel suo percorso, con gli anni è diventato un po’ meno individualista, ma sembrava che volesse dire “guardate che lo faccio solo perché mi serve a vincere”. La sua ossessione per essere il numero uno ha portato alla distruzione del duo con Shaq e della prima esperienza in panchina Lakers di Phil Jackson. Ha passato 2/3 anni in una delle versioni dei Lakers più orribili di sempre (quelli con playmaker Smush Parker – una delle vittime preferite di Kobe – e centro Chris Mihm per intenderci) perché il suo ego non accettava di condividere le vittorie con personaggi così ingombranti. E prima di tornare a vincere di squadra, ha giocato due anni unicamente con l’obiettivo di dimostrare di essere il migliore, anche se in una squadra pessima. È il periodo in cui l’80% degli addetti ai lavori non pensava che potesse realmente guidare una squadra al titolo, il periodo in cui diceva “non passo la palla perché non è che non mi fidi dei miei compagni, ma mi fido molto di più di me stesso”, il periodo dei record individuali. Poi, con la complicità di un lungo catalano che può vantarsi di essere uno dei pochi colleghi stimatissimi da Bryant, sono arrivati i titoli, e l’aura di stronzo nell’immaginario collettivo è leggermente venuta meno. Ma nonostante questo la sensazione è che sia un giocatore che col tempo è stato sempre di più ammirato, rispettato, temuto, ma mai realmente amato (e non credo che a lui dispiacesse).

Non vivrà serenamente perché 4/5 anni fa una combinazione di pessimo team-building dei Lakers e infortuni lo hanno privato della reale possibilità di competere per almeno pareggiare il palmares di Jordan. È stato fermo due anni e quando quest’anno è tornato era, obiettivamente, un ex-giocatore, poi ok, la classe, la tecnica, il carisma e l’esperienza ma fisicamente era chiaramente fuori contesto. Son sicuro che ha sofferto come un cane uno come lui a fare questo infinito farewell tour, dove sembrava più una reliquia in esposizione che il giocatore che più si è avvicinato a His Airness. Immagino che soffrirà ancora di più, perché per quelli normali arrivare a un palmo da Jordan sarebbe già un traguardo impensabile, ma non si diventa il più grande stronzo ossessivo-compulsivo della storia NBA accontentandosi di arrivare vicino all’ossessione di essere il più forte di sempre.

La migliore cosa mai prodotta nella storia dell’universo creato: Kobe + Robert Rodriguez + Danny Trejo + Kanye West

Filippo.

A Kobe rimprovero soprattutto di avermi rubato il viola.

Mi spiego: dato che in Italia, almeno da bambini, è impossibile non essere toccati dalla pedata (gioco di squadra dai più conosciuto come ‘calcio’), uno dei motivi che mi han fatto decidere di tifare Fiorentina, che non era la squadra della mia città natale ma anzi una delle sue acerrime nemiche, fu il colore. D’altronde se uno, a Bologna, tifa Fortitudo, parteggia per l’altra sponda del derby dell’Appennino e guardando Guerre Stellari simpatizza Impero, qualche problema alla base ce l’ha. Quando si trattò di passare alla NBA, il viola era patrimonio dei Phoenix Suns, ma che ai tempi non erano sexy per nulla; al massimo c’era la panza di Charles Barkley. Altrimenti, c’erano i Lakers, i vincentissimi Lakers, gli insopportabili Lakers. Kobe non faceva per me: la mia prima, minuscola, jersey fu di Hakeem “The Dream” Olajuwon alla quale seguì, pochi anni dopo, quella del mio unico eroe e modello di vita tout court Tim Duncan. Due big men, innanzitutto. E con un savoir faire onestamente sconosciuto a quell’arrogante di Kobe.

Quando intorno al 2002 comprai queste scarpe per giocare, il venditore tentava di spiegarmi, come se ce ne fosse bisogno, che secondo lui “Kobe era il nuovo Jordan”. Motivo in più per non farselo piacere, diciamola tutta. Il liscissimo bianco di quelle scarpe era ottenuto grazie al materiale particolare del loro rivestimento, che dopo giusto un paio di allenamenti fu soprannominato “polistirolo” – non credo sia un caso che quell’idea sia morta lì, commercialmente. Eppure, in quel paio di scarpe, era inscritto un presagio del ravvedimento che avrei avuto nei confronti del personaggio Kobe: il modello si chiamava Kobe 1 – Stormtrooper.

Sarà stato anche per questo che, con la maturità (e soprattutto quando ha cominciato a non vincere più) ho cominciato a capire la grandezza di Bryant, l’intelligenza non comune, l’agonismo al di sopra di ogni altra cosa come motore di tutta la faccenda. È cresciuta la simpatia verso colui che, forse ancor più di LeBron, ha attirato l’odio negli anni Zero. Il suo gioco non può piacere a tutti, è la Vecchia Pallacanestro – figurarsi a uno spursiano di ferro come me. Accentratore pazzesco ed egoista a un livello incredibile se confrontato con la sua intelligenza complessiva: Kobe non c’entra col basket che mi piace. Come quando vidi la partita degli 81 punti: non so, mi aspettavo qualcosa in più. Ma ciononostante riesce a catturare quel tanto di simpatia collaterale che anche i cattivi vincenti hanno, come Darth Vader. Ad ogni modo, non per questo sarò scontento del fatto che Duncan gli ruberà qualche record e finirà la carriera con qualche trofeo in più, ecco.

Lorenzo.

Sono uno della generazione Kobe che non ha mai avuto la sua #8, tantomeno la #24.
Sono uno della generazione Kobe che nella rivalry pendeva dalla parte dei Celtics, che quell’odio lo rispetta, lo capisce, lo fomenta.
Sono una della generazione Kobe che non ha mai avuto Kobe come riferimento: né come tipo di giocatore (elegance what?), né come uomo franchigia, né come leader.
Sono uno della generazione Kobe che è stato per ventisette anni su un altro pianeta rispetto al Mamba.
Sono uno della generazione Kobe che, comunque, riconosce a Kobe tutto ciò che ha vinto, tutto ciò che ha costruito, tutto ciò che ha rappresentato per vent’anni in gialloviola.
E vederlo con le ginocchia impacchettate, la spalla fasciata e lo sguardo perso, mentre pensa all’eredità della franchigia in mano a Russell o Young, è un colpo al cuore per un uomo che da sempre combatte con avversari, haters e (soprattutto) sé stesso.
Poi mi vengono in mente quelle parole – a firma Phil Jackson: “Conta più il cammino per arrivare al traguardo, che tagliarlo”.
E se il cammino di Kobe vi lascia indifferenti perché risucchiato negli ultimi anni di tanking selvaggio, allora non state nemmeno ad imboccare la strada.
Vi perdereste subito, voi.

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