Go West! Accoglienza e conseguenze dei flussi migratori interni all’UE

Libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali: questi quattro principi sono fra i pilastri ideologici su cui si fondano gli ordinamenti dell’Unione Europea. La libera circolazione di persone, in particolare, è alla base degli accordi di Schengen: ci permette di viaggiare senza visti, di trasferirci e iniziare un lavoro senza dover chiedere permessi, di “godere di parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali”.

Negli ultimi anni, gli accordi di Schengen non hanno avuto vita facile: documenti della Commissione Europea riportano nel dettaglio i casi di sospensione della libera circolazione per controllare le frontiere. Paesi come Francia, Norvegia o Germania, per citarne solo alcuni, continuano da anni a rinnovare questa sospensione con motivazioni legate alla sicurezza. Di fatto, per bloccare l’ingresso di migranti.

Fonte: InfoMigrants

I flussi provenienti da paesi esterni all’Unione negli ultimi anni hanno creato situazioni di tensione in corrispondenza di diverse frontiere, e addirittura ipotesi di abolizione di Schengen. Forse potersi muovere liberamente non è tanto comodo quando possono farlo anche gli altri. Forse i cittadini europei si sono dimenticati quanto fosse complicato viaggiare prima dell’Unione Europea. Forse è proprio la visione dell’Europa e dell’assenza di confini che è cambiata nel tempo, caricandosi di significati controversi.

Con il tempo, intorno alla libertà di movimento si è costruita una vera mitologia, e potrebbe valere la pena approfondirla.

No, non parliamo di studenti Erasmus. L’esistenza della generazione Erasmus è stata già ampiamente (e con un certo compiacimento negativo) smentita in Italia.

Fonte: Commissione Europea

Perciò, parliamo di altri espatriati. Se davvero ci sono consistenti flussi in continuo movimento per lavoro, chi sono i migranti interni in questa Europa che torna ad alzare confini, cosa trovano e cosa generano nei paesi d’origine?

Un Occidente sempre meno accogliente

Una delle idee più resistenti legate alla libertà di movimento delle persone è il “furto di lavori”. Un esempio che domina le prime pagine da un paio d’anni è il Regno Unito. La propaganda antieuropeista che ha portato al successo del referendum sulla Brexit ha messo al centro del dibattito proprio questo tema, in uno dei paesi che ricevono i flussi più intensi di migrazioni interne al continente. Gli inglesi sarebbero stufi di farsi rubare il lavoro e abbassare gli stipendi dagli stranieri, soprattutto dai polacchi, la più grande comunità di espatriati nel Regno Unito, composta da più di un milione di persone.

Fonte: Full Fact

Ma la perfida Albione non è che la punta dell’iceberg, il caso che ha ricevuto più attenzione mediatica negli ultimi anni. Senza andare lontano, nella tollerante e moderna Olanda, anni fa l’estrema destra aprì un portale per raccogliere lamentele di cittadini locali che avessero perso il lavoro in favore di immigrati dall’Est Europa.

L’espansione del 2004 e 2007 ha accolto nell’Unione paesi come Bulgaria, Repubblica Ceca, Polonia, Romania, Slovacchia, Ungheria. Più di un decennio dopo, secondo il think tank Carnegie Europe, rimane un profondo “gap psicologico” tra Europa occidentale e orientale, nonché un’idea di base fondamentalmente diversa su come l’Europa dovrebbe funzionare. I paesi dell’ex blocco sovietico sono diventati terre di emigrazione, e tra i due blocchi est e ovest dell’UE si è creato un rapporto di necessità e diffidenza reciproca, alimentato da disparità economiche e profonde differenze culturali. Da questo sono nati luoghi comuni e problemi.

Lo stereotipo dell'”idraulico polacco” è presente in paesi come Regno Unito e Francia da tanti anni. In Italia non ha preso altrettanto piede, perché da noi il fenomeno più evidente di migrazione dall’est sono le badanti romene. La comunità romena è infatti cresciuta negli anni in Italia, fino a superare il milione di persone e scavalcare gruppi di migrazione storica come albanesi e marocchini.

Fonte: associazione culturale Le Nius

Ci rubano il lavoro o siamo noi a sfruttarli?

Lo stereotipo dei migranti che peggiorano le condizioni lavorative dei paesi di accoglienza è datato e ampiamente (purtroppo spesso inutilmente) smentito.

Proviamo però a ribaltare la prospettiva. Quali sono gli effetti dell’espatrio su chi parte e quale accoglienza trovano questi “migranti interni” all’Unione Europea, soprattutto in un momento storico in cui muri e confini godono di allarmante popolarità?

Le prospettive non sono particolarmente rosee se si prende in considerazione la fascia più numerosa di espatriati: chi parte per lavorare in settori a bassa specializzazione, dove è richiesto solo un livello base di educazione. Come afferma Ines Wagner, autrice del libro Workers Without Borders, il problema principale è una legislazione inadeguata dell’EU in materia di mercato del lavoro, che favorisce meccanismi di sfruttamento dei lavoratori in movimento. Al problema contribuiscono anche le profonde differenze nei livelli di sviluppo e welfare nei paesi dell’Unione.

Fonte: The Guardian

Questi elementi vanno a creare situazioni in cui è facile per datori di lavoro e intermediari ricorrere alle prestazioni più economiche di “lavoratori distaccati” provenienti da paesi con stipendi e contributi più bassi. Il meccanismo si trasforma facilmente in sfruttamento. Wagner riporta un episodio: nel 2010, nel cantiere della centrale termoelettrica di Uksmouth, gli operai polacchi non ricevevano i dovuti straordinari e ferie annuali, e una parte del loro stipendio veniva decurtata illegalmente per l’alloggio.

Se però vogliamo tornare a parlare della comunità romena in Italia, la situazione non è migliore. Per citare dal profilo dei romeni in Italia creato nel 2016 dal Centro Studi e Ricerche IDOS:

I settori prevalenti di inserimento (edilizia, agricoltura e servizi alla persona) sono quelli dove più diffusi sono fenomeni distorsivi del mercato del lavoro come il lavoro nero, il caporalato e  lo sfruttamento della manodopera straniera: la cronaca dei quotidiani italiani registra frequentemente l’emersione di casi che vedono vittime cittadini romeni in ogni angolo della Penisola, dal ragusano al veronese, dalle Langhe al gallurese. […] Altro risvolto negativo della situazione occupazionale è il primato dei romeni tra i lavoratori infortunati nel corso del 2015, con 15.368 infortuni, di cui 48 mortali.

Nel settore del badantato, vitale al punto da aver creato un vero e proprio stereotipo, vale la pena parlare della drammatica quanto poco nota sindrome Italia”; nel link un approfondito quanto duro reportage del Corriere, una lettura essenziale e difficile. Una piaga che spesso porta chi si prende cura dei nostri anziani alla depressione o addirittura al suicidio; nei casi ‘migliori’, si crea un senso di profondo sradicamento nel momento in cui queste donne tornano a casa dopo essere state via per lunghi anni. Altre vittime sono i figli, cresciuti a volte dai nonni, altre dai vicini, o da soli in orfanotrofi, i cosiddetti orfani bianchi. Anche loro soffrono di depressione e a volte si suicidano.

Gli orfani bianchi. Fonte: Osservatorio Balcani.

Cervelli e braccia in fuga: alcuni si spostano, altri ritornano

In questo stato di cose, tra una crescente tensione nei paesi di accoglienza e – almeno nel caso della Polonia – la speranza data dalla crescita economica nei paesi d’origine, non sorprende come da qualche anno a questa parte, l’emigrazione stia cambiando mete o addirittura invertendo rotta. Una crescente percentuale di polacchi ha deciso di ritornare dopo il voto a favore della Brexit, per un senso di rifiuto e di incertezza legato al paese che li ha accolti. Il primo ministro Mateusz Morawiecki ha espresso felicità per il flusso di ritorno, e ha aggiunto, rivolto al Regno Unito: “ridateci il nostro popolo”.

Fonte: Deutsche Welle

Allo stesso tempo, il numero di romeni che scelgono l’Italia come meta è diminuito costantemente negli ultimi anni; adesso anche loro si spingono verso il nord Europa, Germania, Francia, Regno Unito, paesi che offrono migliori condizioni di lavoro e ritorni economici. L’Italia è un esempio particolarmente complesso, essendo sia terra di arrivo che di partenza. Enrico Pugliese, professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma, ha pubblicato nel 2018 il libro Quelli che se ne vanno, dove analizza le ondate migratorie dal nostro paese negli anni recenti.

“Nel Mezzogiorno, per effetto delle partenze delle classi in età fertile e da lavoro, si assiste a un vero e proprio tsunami demografico, mentre i tassi di disoccupazione continuano a mantenersi altissimi. Dal Mezzogiorno italiano si emigra, infatti, non solo verso l’estero, ma anche verso il nord per studiare e per trovare occupazione. Spesso, inoltre, provengono dall’Italia del centro-sud, come detto, gli emigranti di rimbalzo. Completano la loro preparazione nell’Italia settentrionale e poi lasciano il nostro Paese”.

In base alla mia esperienza, posso identificarmi in questo quadro. Io sono cresciuta in Sardegna, e durante la mia adolescenza il concetto di andare “in continente” per studiare e lavorare era estremamente normale, quasi scontato. Ovviamente, non tutti sono poi partiti, anzi molti sono rimasti, ma molti di quelli che sono partiti non hanno fatto che allontanarsi progressivamente. Di tanto in tanto qualcuno torna e altri decidono di partire. Io stessa sono partita in direzione nord progressiva, da Pisa a Venezia per approdare in Germania. La sensazione generale è che sia una situazione piuttosto fluida. Ovviamente però si tratta della mia bolla individuale.

Esperienze personali a parte, anche il Rapporto Italiani nel mondo del 2018 comunica la sensazione di una situazione in continuo mutamento. “Chi parte” non è una categoria fissa, ma si evolve nel tempo, e al momento pare che i pensionati abbiano scoperto l’espatrio. Molti di loro partono per trascorrere gli anni della pensione in paesi con un clima gradevole o con costi della vita più convenienti. In altri casi si tratta però dei cosiddetti “migranti maturi disoccupati”: persone vicine alla pensione, che cercano opportunità all’estero perché hanno ancora necessità di maturare anni di contributi (la fascia dai cinquanta in su) e magari mantenere i figli. Un’altra figura in crescita è quella del “migrante genitore-nonno ricongiunto”, anziani che si riuniscono ai propri figli, ormai stabiliti all’estero.

Fonte: Migrantes-Rapporto Italiani nel Mondo. Elaborazione su dati AIRE.

Ad ogni modo, è sempre più evidente che le migrazioni all’interno dell’Europa non sono un blocco unico. Se si osserva il fenomeno da vicino, si individuano flussi incredibilmente variegati e in continua evoluzione. E si scoprono alle radici delle partenze gli stessi impulsi e bisogni di tutti: la famiglia, le necessità economiche, la ricerca di stabilità. Storie che provengono dai quattro angoli del continente, ma con trame in fondo molto simili. Storie che vale la pena conoscere, nella loro difficoltà e nella loro speranza.

Francesca Maria Solinas

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