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Migranti, quali sono i costi dei rimpatri?

In Italia, dal 2014 ad oggi sono sbarcate quasi 650mila persone. Nell’ultimo anno, seppur le cifre sono notevolmente andate scemando (un quinto rispetto il 2017), l’immigrazione resta uno degli argomenti più discussi, non solo a livello nazionale. In particolare, si è mostrata notevole attenzione alla questione “rimpatri”.

Ma sappiamo in cosa consistono e, soprattutto, come funzionano i rimpatri?

Sempre più spesso gli italiani si chiedono: perché un migrante, che non ha un regolare permesso di soggiorno, rimane in Italia? Una domanda così posta sembra non avere una risposta logica. Per capire cosa si nasconde dietro questa domanda complessa occorre fare un po’ d’ordine, iniziando con ricordare, in breve, quale sia il trattamento riservato a chi arriva nel Belpaese.

L’articolo 10 della nostra Costituzione recita “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Questo significa che l’Italia, come previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, in primo luogo accoglie i richiedenti asilo, come dimostrano le stime degli sbarchi sopra citati e, in un secondo momento, valuta l’adeguatezza ai requisiti previsti dalla legge di ciascuno. Un’alternativa è quella rappresentata dalla protezione sussidiaria per coloro i quali, pur non possedendo tali requisiti, sussiste il rischio effettivo di grave danno in caso di ritorno al paese d’origine.

Sono molti i casi in cui la domanda d’asilo o di protezione viene rigettata. In questi casi, i migranti possono andare in appello ma, se rigettati una seconda volta, non hanno più strade legali per regolarizzarsi e quindi l’irregolarità o il rimpatrio sono le uniche strade effettive. “Per milioni di rifugiati tornare a casa resta la speranza più grande per porre fine al proprio esilio” afferma l’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Il procedimento del ritorno in patria è, però, molto più complesso di quello che sembra.

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Fonte: ONU Italia

È utile, fin da subito, distinguere due generi di rimpatrio: volontario e forzato.

Nel primo caso, il ruolo dell’UNHCR è indispensabile: l’Agenzia ne promuove e facilita i presupposti per favorirlo  attraverso strumenti come il geo-and-see, brevi soggiorni nel paese d’origine del rifugiato per valutarne le condizioni di sicurezza

Cronologicamente è stata la prima soluzione di rimpatrio attuata nel 2015 a livello mondiale. Purtroppo, però, è stato un espediente a cui molti migranti sono stati costretti a rinunciare a causa della persistenza di conflitti interni nei loro paesi d’origine, con conseguenti rischi e pericoli in caso di ritorno nella madrepatria.

L’UNHCR non è l’unico soggetto ad occuparsi di RVA. Per il nostro Paese è indispensabile anche il lavoro di diverse Onlus. Ad esempio nel 2017 il Cies, Centro informazione ed educazione allo sviluppo, il Cir, Centro Italiano Rifugiati e il Gus, Gruppo Umano Solidarietà, attraverso tre progetti differenti finanziati da Fondo Asilo Migrazione e Integrazione dell’Unione Europea e del Ministero dell’Interno, hanno permesso a quasi 300 immigrati, di diverse nazionalità nordafricane, il ritorno nel proprio paese. Ciò che viene previsto è un biglietto aereo, il finanziamento di un’attività commerciale con un budget massimo di duemila euro e un contributo per familiari a carico.  Lo stesso fondo ha permesso anche all’Oim, Organizzazione Mondiale per la Migrazione, di portare a termine il rimpatrio di 42 senegalesi.

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Fonte: Il Sole 24 ore

Per quanto riguarda i rimpatri forzati, invece, ci si riferisce a un meccanismo del tutto diverso. Da diversi anni, chiodo fisso non solo dell’Italia, ma di tutta l’UE, essi mirano a riportare il maggior numero di immigrati irregolari al paese di provenienza. Sempre più decreti, leggi e conferenze disciplinano questa procedura. Basti pensare alla decreto Minniti sull’immigrazione e l’asilo, non scevra di critiche, adottata lo scorso anno dall’Italia, che prevede l’abolizione del secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo che hanno fatto ricorso contro un diniego, l’abolizione dell’udienza, l’estensione della rete dei centri di detenzione per i migranti irregolari e l’introduzione del lavoro volontario per i migranti. Altro esempio lampante di tentativo di disciplinare tale materia è l’Agenda per la migrazione, documento realizzato dalla Commissione europea e al cui interno nascono le figure dell’hotspot e del centro di permanenza per il rimpatrio (cpr).

Nonostante le diverse manovre per rendere tale rimpatrio di più semplice attuazione e migliore prestazione, ancora oggi questo meccanismo si ritrova di fronte alla medesima difficoltà di un tempo: i costi insostenibili. Voli charter e misure di sicurezza rendono le espulsioni impraticabili per la maggioranza degli irregolari, più di 36.000 nel 2017 secondo Frontex, Agenzia europea della frontiera. Caso eclatante fu il rimpatrio di 29 tunisini nel 2006, che venne a costare 115mila euro. Il neo governo Lega-M5S, come si evince dal medesimo contratto, si è prefissato un obiettivo, che molti hanno definito “fantasioso”: il rimpatrio forzato di 500.000 irregolari. Si tratta di un intento fattibile o, piuttosto,  merita l’aggettivo affibbiatogli? In un meticoloso fact checking realizzato da L’Espresso, che ha ironicamente ipotizzato l’utilizzo dell’Air 340 di Stato per realizzare l’intera operazione, è emerso che il tempo necessario stimato, soste escluse, è ventisette anni. La spesa, solo per l’impiego del mezzo, un miliardo e mezzo di euro. Una simile stima fu già redatta otto anni fa da Il Tempo, che, a fronte dei 41.000 extracomunitari del 2010 che non vennero rimpatriati, aveva ammontato la spesa a un miliardo e venticinque milioni di euro.  

Oltre alle questioni pratiche ed economiche, per parlare di rimpatri è necessario non dimenticare anche i diritti che spettano al migrante molto spesso calpestati e negati a più livelli. Ad iniziare col divieto di espulsione di massa, esplicitamente vietata dalla Cedu, passando per il divieto di non-refoulement, ovvero l’obbligo di non respingimento dei rifugiati verso luoghi ove la loro vita potrebbe essere minacciata, e per il  diritto a un ricorso effettivo, a un processo equo e ad un giudice imparziale, ed infine agli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione, che riconoscono rispettivamente i diritti inviolabili dell’uomo e l’uguaglianza di fronte alla legge.

E mentre l’Unione Europea esorta i suoi stati “verso una politica di rimpatrio efficace”, l’UNCHR accusa proprio Bruxelles per l’aumento di vittime nel Mediterraneo. L’Agenzia afferma che la diminuzione di arrivi è dovuta ai viaggi in mare sempre più rischiosi, la Commissione europea risponde che i responsabili sono esclusivamente i trafficanti di esseri umani. Di fronte a questo botta-risposta non resta che guardare i fatti: gli sbarchi sono in netto calo, l’incidenza di morti in crescita. “Di fronte ad un crollo degli arrivi in Europa non siamo più di fronte ad un test su come gestire questi numeri di persone, ma di come l’Europa può mostrare umanità salvando delle vite” afferma la direttrice dell’UNHCR. Si tratta, dunque, di una questione di priorità.

Annita De Biasi

 

Immagine di copertina: ADNKronos/Nigrizia

Questo articolo è parte del Project Work che Annita, studentessa del corso di laurea in Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani dell’Università degli Studi di Padova, sta svolgendo presso la redazione di The Bottom Up

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