Viviamo in un’epoca in cui tutto ciò che è possibile sta accadendo e sta accadendo velocemente. I The Books hanno provato, a modo loro, a dar conto di questo cambiamento. Fare quel tipo di musica fondamentalmente consisteva nel prendere il rumore del mondo e farlo risuonare con qualcosa con cui poter vivere, in cui credere, da poter amare e da condividere con altre persone per evocare lo stesso sentimento: quello di sentirsi a posto con il mondo, piuttosto che doverci combattere. Si trattava di trasformare il rumore in qualcosa di utile.
N. Z. (2016)
Costruirsi un trabucco in giardino, goderne con gli amici e vivere di musica sperimentale. Nick Zammuto non è tanto uno che ce l’ha fatta nella vita quanto uno che ha fatto diverse cose (studiare chimica e arte al college; costruire una casa di legno con le sue mani in Vermont; fare homeschooling alla biondissima prole; battere il cancro e quello di suo figlio; costruire quel dannato trabucco in giardino) non dando mai l’impressione di divertirsi troppo, nondimeno raggiungendo un equilibrio raro tra intellettualismo, virtuosismo, sperimentalismo, vendibilità ad un pubblico relativamente allargato e goduria per l’ascoltatore.
Bisognerebbe parlare del suo duo con il violoncellista Paul De Jong, The Books, per giorni, probabilmente. Qui vogliamo proporre una lettura terapeutica di diversi loro brani, cercando di capire come un progetto musicale che nasce per una nicchia sufficientemente intellettualizzata possa riuscire a toccare (e, infine, risanare) corde che emotivamente sarebbero parse inaccessibili a costruttori di Limerick, traduttori automatici di gusto joyciano, campionatori dei più diversi brandelli di rumore che il mondo offra come i The Books.
“Welcome to the human race. You’re a mess”
Thought for Food, il primo album dei nostri, è anche il più subdolamente oscuro: ci sono sì un paio di motivetti allegri, ma tendenzialmente racconta storie senza trama che non finiscono bene. La penultima, breve, traccia, è una poesia in rima declamata da un pesce morto che, senza una ragione, acquista la capacità di vedere, al solo scopo di capirsi immobile e dunque morto. Contempt presenta un surreale dialogo che sembra tratto da una scena realmente accaduta di abuso in una struttura psichiatrica. Un altro brano piuttosto cantabile che prende il titolo da un vecchissimo meme da gamer fa incominciare il ritornello con le parole “I was born on the day the music died” mentre il timbro delicato di Nick Zammuto è doppiato da un mostruoso overdubbing in low-pitch. L’ennesima twisted Elvis reference? Certo, ma l’immaginario dei Books vira sempre sull’introspettivo. Infatti, il primo brano del disco, che è anche il primo mai composto dai due, ha un titolo che è tutto un programma per quello che verrà: Enjoy Your Worries, You May Never Have Them Again. Il campionamento principe del brano è preso da una versione americana di Forum (i falsi tribunali televisivi, sì) in cui una persona che ha perso il lavoro viene tartassata giorno e notte da un ex cliente che a sua volta aveva dei problemi anche seri. Quale possa mai essere la parte buona di cui “godere” di questo tipo di preoccupazione non è chiaro, e allora per interpretare non resta che aggiungere un terzo layer di dolce sarcasmo: le preoccupazioni sono brutte; ma fanno parte del nostro essere vivi; ma non è che siano questo sballo, comunque. Chiude il brano una sorta di benaugurante citazione del violoncellista catalano antifranchista Pau Casals che, bonario, ci dice che “un arcobaleno! la musica è un arcobaleno!”. Eppure, di colori e di terapia nel primo album dei Books, non c’è che una lontana ombra.
“We went through hell / All’s well that ends well well well well, well well”
Fa capolino una voce femminile non campionata che si schiarisce la voce, gorgheggia, annuncia il Limone del Rosa e nascosta dentro il mix sussurra in un filo di voce, con delizioso contraddittorio isomorfismo, che “i dettagli discreti vanno evitati”. Mentre un mullah prega che sia fatta la volontà di Allah, un’altra voce annuncia esattamente con la stessa gravitas che “patate alla grigliaaa” in giapponese. I riferimenti, per il vostro esegeta, orbitano equamente tra Gertrude Stein (anche per la falsa sinestesia del titolo dell’album) e Nino Frassica inteso come artista noise (“Non è bello ciò che è bello, ma che bello che bello che bello”). Cito Frassica non a caso, perché finalmente col secondo album si fa strada il gusto per il buffo e l’esotico tipico di Zammuto che avrà spazio crescente rispetto alle tenebre iniziali. La parte due di The Lemon of Pink si conclude con una frase da fine prove in cui, da musicista da quattro lire turche, mi ritrovo: “Are we, like, major or minor anyway?”. L’esotico entra prepotentemente in maniera allegra e senza retroscena con Tokyo, un affresco per felicissimi strumenti a corda ambientato su mezzi di trasporto. C’è persino spazio per un’ode in onore del messagio politico di Ghandi. Da lì in poi, sembra effettivamente il ritorno a riveder le stelle di una notte non completamente serena, ma dove le pazze costruzioni sonore del duo, sulle quali mi tocca inevitabilmente e dolorosamente sorvolare per motivi di spazio, finiscono sempre bene. La chiusura, intitolata PS come post scriptum, è un punto fermo a forma di cuore che merita due righe. Cinquantesei secondi senza musica, ma composti dagli scarti di editing da un’intervista radiofonica dei Book stessi dove ci sono schiarimenti di gola, piccole parole, toni interrogativi e complici, grasse ed educate risate, piccoli stupori. Prima di conoscerne la storia, per anni avevo immaginato questo brano come se descrivesse un uomo e una donna nudi di fronte a un microfono con il compito di annunciare qualcosa di bello al mondo.
Insomma, il senso di complicità lo avevo colto con chiarezza – e legittimamente, perché negli stessi intendimenti dei Books nonostante molti dei samples utilizzati portino con sé una storia significativa per il duo, i loro stralunati pastiche sono da intendersi “come uno specchio, più che come un diario”. The Lemon of Pink è considerato dalla critica e da loro stessi il capolavoro dei Books. Sicuramente migliore dell’esordio e, sì, dal punto di vista dell’inventiva musicale rappresenta la summa dell’originalità booksiana, eppure manca di narrativa interna e, soprattutto, manca la dialettica scontro-riconciliazione col dolore e l’assurdità della vita. Anzi, l’unico manifesto un po’ filosofico del brano, Take Time, citando la Medea di Pasolini, prende con enorme sportività la (presunta) ciclicità del tempo senza però trarne conclusioni depresse alla Nietzsche; abbracciando invece il bello di quello che ritorna all’infinito. Intanto, un sample meraviglioso ci fa udire donne africane che sghignazzano parlando di peni, ce n’est pas la longuer qui fait la puissance. Dunque, esci di casa e godi di quel che trovi: è già stato e ritornerà, ma tu potresti non averne mai più. Le cose sono, infatti, destinate a peggiorare.
“Give up your books and put and end to your worries”
Mentre i problemi nella dinamica della band pian piano aumentano al consolidarsi del successo di critica dei Books, il terzo album viene battezzato Lost and Safe : tutto un programma. Qui vengono abbracciati sempre più due aspetti già presenti: la voce di Zammuto diventa onnipresente e mite protagonista, e l’amore perverso per ogni sorta di calembour linguistico (citato persino il Jabberwocky di Lewis Carroll) predomina. Resta che le nuvole sul terzo disco, composto nella casa autocostruita degli Zammuto in Vermont, sono nere. La copertina rappresenta una tela di ragno al cui centro si può vedere una sorta di cubo. Non voglio addentrarmi in interpretazioni, ma solo premere play: A Little Longing Goes Away. Un’entrata in punta di piedi e allo stesso tempo accorata come mai in altri brani a firma Zammuto-De Jong. Anche il contorno sonoro è minimale, la voce crescentemente effettata man mano che il messaggio si fa più pregnante: è l’arrivo di una terapia propedeutica a una nuova nascita, udita dall’ovatta di un bagno di liquido amniotico nel quale ci rituffiamo quando le offese della vita si fanno troppo brucianti. Si va in sleep mode direbbe qualcuno, e i Books sono arrivati a svegliarci: uscite a godervi il sole del parchetto – perché avere paura di ciò di cui gli altri hanno paura non ha senso, giusto? La domanda che cerca conferma nell’interlocutore (probabilmente autoriferito in realtà, in un altro pezzo Nick cantava My mind has a mind of its own, che ricorda quella famosa vignetta in cui Charlie Brown si lamenta che le sue ansie hanno l’ansia) suggerisce un processo in fieri, sospeso in una bolla di vuotezza: cercare il successo è parimenti inutile, the best is to be blank. La cura per l’angoscia è fare piazza pulita, resettarsi e vedere ciò che il mondo ha da offrire. I
ll secondo brano per l’unica volta nella storia dei Books vede, con un pizzico d’autoironia, Zammuto fare una sorta di karaoke sopra alcuni spezzoni della più diversa provenienza (lo storico medievale magiaro Huizinga, il filosofo orientalista inglese Alan Watt, la radio nazionale groenlandese, il poeta Wystan H. Auden), unendoli in una inquieta nenia millenarista su come la società industrializzata d’oggi sia allo sfascio (ricordiamoci sempre che il nostro s’è costruito una casa con le sue mani in mezzo a una foresta e con la mogle ha stretto un patto d’autarchia totale: piuttosto che chiamare un tecnico, il lavoro non viene fatto). Le persone non possono capirsi tra loro e c’è una grossa discrasia tra la gente là fuori e, d’altra parte, il mondo fatto di parole e concetti che possiamo crearci all’occorrenza nella nostra mente, foriero però d’illusioni dolorose. Dentro possiamo arrivare ad orchestrare un mixed concert of soft instruments – ma fuori c’è poca roba utile o buona.
Dopo un intermezzo che non a caso pesca nella fuga dal mondo della logica come il Jabberwocky di Alice in Attraverso lo specchio, arriva il brano dei Books per cui li ricorderemo fino alla fine della nostra vita. La voce delicata di Zammuto ricama una specie di accenno di sad rap su un meditativo loop di finte percussioni e gentili progressioni prima ascendenti poi ascendenti. Parla e con grazia infila sequenze di lunghe frasi che raccontano una storia molto strana, con un incedere narrativo e grave che si accompagna stranamente a un lessico scientifico. Zammuto, laureato in arti visive e chimica, racconta con vera malinconia lo smarrimento di chi studia il mondo cercando (e trovando) leggi che lo regolino, ma allo stesso tempo si rende conto che la realtà bruta in senso fisico non esaurisce il reale, a meno di non volersi infilare in un sacco strapieno di guai. Ci sono anche le anime che, per giunta, si combinano. Il primo movimento del brano si conclude con un’ulteriore elaborazione sul silenzio: il tempo ossida e consuma le statue facendole pianger verde, e una soluzione continua a non trovarsi, mentre la quiete si riempie del pur ben confenzionato chiacchiericcio di altri. Le regole del gioco – letteralmente – non ci sono e allora tocca far da soli nonostante una tremendous pressure to capitulate and fade. Al che le già instabili descrizioni normative della scienza si dissolvono à la Avengers perché, dopotutto, parte di un futile progetto di inscatolamento del reale nelle leggi della fisica. Il campionamento finale è una chicca autoironica, che lascio al lettore godersi.

Segue An animated description of Mr. Maps, che dipinge la peculiare storia di un ricercato per omicidia che soffriva (?) di sinestesia e – guarda caso – è anche descritto contraddittoriamente come affabile e a soft-spoken loner who resents society and all organizations. Qua, in un raro slancio d’energia, Zammuto con evidente identificazione canta he felt lost but he felt pretty intensely good, dando al titolo dell’album una vibrazione più inquietante. Altre situazioni di riconoscimento, dolore e tentativi di sense-making sono sparsi qua e là, alternando i sentimenti contrastanti di oppressione e di rincorsa verso il buono senza avere la più pallida idea di dove si trovi e anzi sapendo che non è dato saperlo; espresso in maniere anche più didascaliche come and your head is made of clouds, but your feet are made of ground / And you’re running down. Si dovrà pur vedere la fine di questo tunnel.
“The fire and the rain will oxydize and rearrange”
Infine, l’ultimo sofferto album, pietra tombale su uno stretto rapporto tra due persone che nonostante tutto faccio fatica immaginare vivere nello stesso appartamento infestato da scoiattoli nel freddo del Massachussets in armonia a suonare e mangiare fagioli tutto il giorno. Le parole di Zammuto sulla fine dei Books grondano sincera e sentita sofferenza. La cosa fantastica – e che rende questo duo qualcosa di francamente irripetuto – è il coraggio col quale, suonando il non-genere che suonavano (vale a dire, mica le canzonette normalmente intese, bensì questo confezionamento di field recordings vocali e non, stralunato eppure calcolato con grande inventiva e sensibilità tra serendipità e minuziosa ricerca del sample giusto, sposato a uno sperimentalismo musicale nella forma e nella sostanza, sempre con grande ironia e neanche un filo di snobismo, spaziando tra sketch per il sano LOAL e una delicata introspezione) hanno, con garbo, messo in piazza l’elaborazione di un lutto umano e professionale. The Way Out, la via d’uscita. Il tutto è racchiuso da una patina di pura gag che raccoglie germi piantati qua e là in altri brani più antichi: hanno pescato e scimmiottato a loro modo quel grande sottogenere umano di self/group help un po’ New Age, esattamente quel tipo di ricerca di senso (e di pace dei sensi, a livello più banalmente psicofisico) poco filosofica dell’uomo – borghese – della strada. Si parla di quelli che negli anni ’80 si compravano le cassette con gli esercizi mentali e gli sproloqui venduti come pace interiore a ventimila lire, che nel 2018 si sono (d)evoluti negli scaricatori di app di mindfulness, qualsiasi cosa voglia mai dire. Oltre al layer della risata (che pure è ottimamente costruito), si vede allo stesso tempo una critica della ricerca della propria Via d’Uscita a buon mercato e allo stesso tempo il riconoscimento di una sconfitta, perché non è chiaro dove allora convenga sbattere la testa.
Chain of Missing Links rappresenta l’assurdità del gibberish dell’autoaiuto cosmico che, in sostanza, a chi potrà mai servire? All You Need Is a Wall dietro l’apparente impenetrabilità delle liriche nasconde in realtà un testo scritto da Donna Williams, un’artista australiana autistica, straziata dall’ovvia doppia battaglia che combatte: quella per tenere il mondo fuori e quello per farne parte ma a modo proprio. Qualcosa in cui – non servirebbe neanche il racconto esplicito a riguardo che pure esiste – è chiaro che i Nostri si identifichino, mutatis mutandis. Infine il pezzo che rappresenta “il cuore nero del disco”, We Bought The Flood (titolo scelto via contest improvvisato a un concerto con premio di cento dollari). Ora, diciamocelo, con la storia di per sé è davvero difficile identificarsi perché si parla della Liberty Bell, un campanone di metallo di trecento anni fa, diventato un simbolo durante la Guerra di Indipendenza con una grande crepa su un lato – il tipico episodio di storia statunitense che alle orecchie di un europeo suona come una grande costruzione retorica sul nulla condito dal niente. Tolto questo, l’allegoria del ritornello potrebbe funzionare ottimamente anche senza campana di 900 Kg, e infatti siam qui per questo:
And all of this will disappear as quickly as it came
The fire and the rain oxidize and rearrange
Focus on the pain
Focus on the way to get out
Il chimico Zammuto – al contrario di quello che succedeva in Smells Like Content – trova, o per lo meno ci prova, consolazione nell’ordine fisico delle cose, con spirito quasi lucreziano. Gli elementi hanno un loro ciclo naturale che dalla degradazione li porterà a un nuovo inizio, parola e sintagma che tornano nei pur eterogeneissimi episodi di The Way Out. Non resta che aspettare che le cose cambino come devono, trasformando il mero dolore in sofferenza e avendo fiducia in quello che necessariamente avverrà. Lo dice – ancora – anche Ghandi, con grande poesia.
“The Shape of The Things to Come” – Separazione, lutto, rinascita e disperazione
Il compositore e musicista della East Coast di origine italiana in occasione della riedizione in vinile del secondo album ha affidato a VICE lunghi paragrafi sui risvolti della separazione dal suo collega olandese De Jong, determinando la fine dei Books.
In sostanza, dice più avanti, la versione di Zammuto è che De Jong non avesse mai avuto voglia di impegnarsi nel progetto come monte di ore lavorate e impegno artistico con la costanza richiesta dal salto di qualità fatto dopo il successo di The Lemon of Pink che li spinse ad andare in tour dopo molti anni dalla fondazione del progetto per la prima volta, anche per tamponare i mancati guadagni dovuti al download illegale. (Sentiamoci tutti un po’ in colpa, dai).
Che ne è stato dei due? Zammuto, coerentemente, ha sviluppate la sua (ri)trovata fiducia nel canto creando una nuova band self-named, producendo lavori interessanti, quasi sempre velati di malinconia e lasciando perdere quasi del tutto i campionamenti per sperimentare il chitarrismo elettrico, avere un batterista in carne ed ossa, continuare coi tempi dispari e dotandosi di alcuni musicisti dalle skills impressionanti. (Poi vabbè, ha fatto un brano bombastico che si chiama “Culo di zebra”, qui in una versione live indimenticabile).
Qui, finalmente, il famoso trabucco e il ritrovato paradiso parzialmente luddista di Nick and friends:
Dopo un paio di album che ci hanno mostrato che senza De Jong dei Books rimane sì qualcosa ma anche no, e non è che ci piaccia necessariamente di più, nel 2016 con l’EP Veryone Zammuto è ritornato ai campionamenti, senza toccare chissà che vette – ma poi improvvisamente mi ricordo che là fuori i Thegiornalisti fanno il pienone rifacendo Venditti con un tocco di Jerry Calà, quindi mi ritorna il sorriso ad ascoltare My Dog’s Eyes, che come brano è la risposta in positivo allo smarrimento infantile di Motherless Bastard dell’esordio: un elenco scandito da una voce robotizzata di piccole cose rurali che scaldano il cuore transgenerazionalmente. Non credo che Nick conosca il conterraneo dei suoi avi Giovanni Pascoli, ma da qualche parte qualcosa sta succendo, che non sta succendendo affatto. Sorrido perché penso a uno dei tre figli che si è ammalato (e ha sconfitto) un linfoma di Hodgkin, lo stesso che suo padre ebbe a vent’anni. Allora si guadagnò il permesso (dal proprio, di padre) di studiare arte e musica, spingendosi alla ricerca di un briciolo di senso per l’esistenza. Uno al giorno. Nel frattempo, ad oggi, Nick lavora come sound designer a Google, ha fatto una colonna sonora per un film, We The Animals, appena uscito negli USA e visto al Biografilm di Bologna; e dell’album sample-style annunciato per il 2017 non si è vista l’ombra. Giustamente.

Paul De Jong, il tenebroso e depressoide olandese è finora rimasto in ombra, perché se già Zammuto è un frontman del tutto sui generis, il violoncellista enciclopedico raccoglitore di samples può essere solo peggio da questo punto di vista. De Jong ha trovato il tempo di farsi una famiglia, rompersi il tallone e sfornare un paio di album solisti, più sorprendenti di quelli dell’ex collega, se vogliamo. Se la parte poppy se ne è andata con Zammuto, la parte più sperimentale è rimasta con l’olandese, in particolare con l’ultimo You Fucken Sucker, uscito ad aprile. Lunghissimo viaggio dentro un mondo pieno esclusivamente di frustrazione sfogata nella rappresentazione di una varietà di orrori quotidiani che avvelenano la vita di tutti noi (?). La copertina è una sorta di Sgt. Pepper’s colorato, bambinesco e in definitiva inquietante, tanto che la figura che di poco spicca al centro è un bel Gesù con corona di spine e croce sulle spalle, in piena Passione, accettata con una certa cazzimma. Il disco è, ancora più che coi Books, incategorizzabile in uno o più generi musicali. La title-track è la hit più vendibile: la nota filastrocca per bambini Mary had a lamb viene cantata (in 7/8) con tono dolce ma allucinato da una donna e inframezzata da un ritornello coprolalico che assurge a monumento eterno all’aggressività passiva coltivata al massimo della frustrazione e della auto-repressione.
Ma il peggio arriva con l’ultimo brano, se così si può chiamare, Breaking Up. Sette minuti e ventuno di una litigata furiosa dove ascoltiamo soltanto un capo della sfuriata, sul canale sinistro, mentre si sul destro procede una pacifica (ma sempre sul chi va là) improvvisazione per batteria jazz e violoncello: una voce di ragazza strina e straccia le proprie corde vocali ripetendo con fare ossessivo compulsivo al limite della Tourette il tradimento del partner. Le offese che la voce dice sono a volte irripetibili e sinceramente disperate, tipiche di quel tipo di aggressività che si prova quando l’offesa che ci viene arrecata dalla vita (per mezzo di altre persone, in questo caso) tocca e mette a dura prova le basi più intime sulle quali, precariamente, abbiamo precedentemente scelto di poggiarci per compiere quell’equilibrismo che è stare al mondo nel consesso sociale in modo produttivo. Ascoltare questa chiusura è un’esperienza che tocca corde disturbanti che credo nessun altro genere di artismo musicale che si vorrebbe “provocante” mi abbia mai dato.
Posso assicurare per vicende personali che il composto odio che De Jong offre all’ascoltatore ha la sua funzione terapeutica, in termini di catarsi omeopatica, anche se allo stesso tempo butta una squintalata di vernice nera e appiccicosa su quanto il ben più apollineo Zammuto ha cercato di costruire nel periodo Books e successivo, circa il problema di “come sopravvivere trovando senso in quanto (e quanti) ci circonda”. È possibile compiere imprese straordinarie – come svegliarsi ogni mattina che viene mandata in terra – raccogliere gli echi inerti e desemantizzati del mondo e darvi forma nuova per squarciare il velo nero che ci separa dalla luce che svela le due o trecento cose che contano, senza restare vittime del comune overbearing feeling of disparity? È possibile provarci con eccellenti risultati, ci dicono i libri.
Sbianchettiamo le nostre menti, scaraventando lontano il male con un trabucco, chiudiamo gli occhi e ricordiamoci che non c’è l’ago, ma solo il pagliaio.
Filippo Batisti
@disorderlinesss
Copertina: wbur.org