Perché non è stato chiuso l’hotspot di Lampedusa?

“Quella di Lampedusa era e continua ad essere una struttura incongrua e inadeguata.” Così è intervenuto Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private di libertà, alla conferenza stampa tenutasi il 10 aprile 2018 in merito alla denuncia da parte di CILD, ASGI e IndieWatch sulle violazioni riscontrate nell’hotspot di Lampedusa. In questa data le tre associazioni hanno presentato un dossier dettagliato a proposito delle illegittimità riscontrate nel centro, con testimonianze e immagini che non lasciano spazio all’immaginazione. I temi affrontati in conferenza saranno oggetto di interrogazioni parlamentari, come affermato dalla deputata Giuditta Pini durante l’incontro.

La figura dell’hotspot nasce all’interno dell’”Agenda per la migrazione” del maggio 2015, un documento della Commissione europea, come strutture ideate per facilitare le procedure di identificazione e smistamento dei migranti, come ricorda Palma durante la conferenza.

Ma cos’è allora che è andato storto?

Denunce e report: i fatti

Le denunce sulle disumane condizioni di vita nel suddetto hotspot non costituiscono una novità.

Già in data 24 gennaio 2018, Mauro Palma visitò il centro, la cui situazione era sotto accusa in seguito al suicidio di un trentenne ospite del centro avvenuto il 5 gennaio. Le dichiarazioni di Palma che seguirono furono molto dure e precise, ma rimasero inascoltate.

Il 6 e 7 marzo gli avvocati di ASGI e gli attivisti di CILD e IndieWatch fecero un ulteriore sopralluogo, nel quale riscontrarono nuovamente gravi violazioni dei diritti umani.

La situazione, però, iniziò a precipitare dai giorni seguenti.

Nella notte fra l’8 e il 9 marzo, infatti, l’ennesimo tentativo di suicidio all’interno del centro provocò uno stato di agitazione generale, come si legge nel dossier, a cui seguì un intervento delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa, pensando si trattasse di una protesta. L’intervento violento causò almeno due feriti, una bambina di 8 anni e una donna di 23, trasportate d’urgenza al pronto soccorso a causa di traumi contusivi dovuti alle manganellate.

Quattro giorni dopo l’hotspot è stato finalmente chiuso, seppur in via temporanea, e i migranti trasferiti in vari Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR).

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© Chiara Tamburini 2008

Le condizioni del centro

Nessuna mensa, cibo di scarsissima qualità, servizi igienici senza porte, materassi sporchi e malmessi, lenzuola di carta, cameroni da 36 persone senza separazione tra donne, uomini e bambini. E questo è solo l’inizio del lungo elenco che descrive la vita nell’hotspot lampedusano riportato nel dossier del 10 aprile. Le informazioni sono tutte allegate a fotografie delle disumane condizioni del centro e degli ospiti.

Nessuna lavanderia, né cortile né luogo per pregare, acqua calda solo un’ora al giorno e acqua corrente nei bagni solo dalle 7 alle 21. E la lista continua.

Oltre alle inesistenti misure di sicurezza, anche le testimonianze rilasciate dai migranti sono raggelanti: “Io sono stato picchiato tante volte dalle forze dell’ordine e dagli altri ospiti maggiorenni. Anche un cane della polizia mi ha morso e i poliziotti ridevano mentre mi mordeva e non facevano nulla” dice Ahmed, un minore. “Succede spesso che ci mettono fuori mentre perquisiscono le stanze e ci chiedono di stare in silenzio e se parliamo ci picchiano con i manganelli” testimonia Aziz ( i nomi riportati dal dossier sono di fantasia).

Non mancano atti di autolesionismo e gravi episodi di violenza, casi di stupro, perquisizioni arbitrarie, insulti e minacce.

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Fonte: IndieWatch.org

Il limbo giuridico dell’hotspot

“L’hotspot dovrebbe essere un posto in cui le persone lasciano le impronte, vengono identificate per poi essere divise tra richiedenti asilo e cosiddetti migranti economici – afferma Palma – questa operazione dovrebbe avvenire in un paio di giorni perché non c’è una tutela giurisdizionale per le persone rinchiuse nell’hotspot; è una specie di limbo giuridico”.

L’Agenda europea sull’immigrazione, che ha portato alla nascita di questi centri, non ha comportato una riforma della legge italiana sull’asilo, pertanto la detenzione dei richiedenti asilo in Italia non trova concretezza in alcuna legge. Ciò significa che non è regolata da nessuna norma.

“Nel momento in cui la privazione della libertà si prolunga oltre le 48 ore, diventa una situazione che viola l’articolo 5 delle Convenzione europea sui diritti umani”. Quest’ultimo prevede, infatti, che nessun individuo possa essere privato della propria libertà senza la presenza di un’autorità a cui ricorrere.

Ma per alcuni ospiti la permanenza al centro è durata fino a 66 giorni.

La presunta chiusura

In data 13 marzo l’hotspot di Lampedusa è stato temporaneamente chiuso, come deciso dal Ministero dell’Interno. Obiettivo della chiusura momentanea era permettere  l’avvio di lavori di ristrutturazione. Essa è stata organizzata in due step: un primo intervento che riguarda recinzione, illuminazione e nuovi meccanismi di videosorveglianza e un secondo intervento concerne  il rinnovamento dei padiglioni (di cui uno vittima di un incendio del 2009 mai ristrutturato) e della cucina.

Da questa data si è proceduto per un “progressivo e veloce svuotamento” del centro. Un primo barlume di speranza per i 180 ospiti del centro, che finora non hanno potuto spostarsi liberamente nel territorio italiano a causa della mancanza dei permessi di soggiorno che la Pubblica Amministrazione avrebbe dovuto rilasciare. Un’inadempienza che ad oggi ha determinato una grave lesione del diritto alla libera circolazione e alla libertà personale.

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Fonte: abuondiritto.it

L’hotspot oggi

La situazione del centro non sembra, però, ancora chiara.

A seguito di una specifica richiesta da parte di Alessandra Ballerini, avvocato dell’Associazione A Buon Diritto, la Prefettura di Agrigento ha affermato che l’attuale apertura dell’hotspot  è all’esclusivo scopo di accogliere sbarchi spontanei.

D’altra parte, invece, la Questura ha ribattuto che la chiusura del centro non è mai stata disposta.

La struttura, di fatto, continua ad accogliere migranti. A tal proposito i dati ricavabili dalle statistiche del Ministero dell’Interno sono chiari e indiscutibili: in data 24/04 il numero di ospiti del centro a partire dal 1 gennaio 2018, era 733. Solo due giorni dopo la cifra è salita a 798. Proprio in questi giorni, gli avvocati di ASGI  che si stanno occupando del caso, verificando se si tratta di sbarchi di fortuna o di salvataggi in mare.

Le condizioni in cui vengono accolti i migranti, non sono tuttavia cambiate da quelle descritte nel dossier del 10 aprile : i lavori di ristrutturazione, infatti, non sono ancora cominciati. Nonostante il bando per la ristrutturazione sia stato indetto già dallo scorso dicembre, l’appalto non è stato ancora assegnato. Pertanto, ad eccezione della chiusura di qualche padiglione, lo stato dell’hotspot risulta inalterato rispetto qualche mese fa.

Per fare ulteriore chiarezza sulla questione, sarà avviato il progetto pilota “IN-LIMINE”, che vedrà la partecipazione dell’operatrice Adelaide Massimi che ci ha spiegato in cosa consisterà. Scopo di tale iniziativa è condurre indagini su due livelli: antropologico, per capire com’è organizzata la gestione delle frontiere, e giuridico, per mettere in luce le violazioni dei diritti umani che si consumano al loro interno. Qualora questi ultimi non cessassero, sarà necessario ricorrere a strumenti  di ricorso strategici, afferma la responsabile del progetto.

Gli avvocati di CILD e ASGI hanno, infine, presentato con urgenza cinque istanze alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per l’impossibilità da parte dei migranti di presentare la richiesta di protezione internazionale, previsto dall’art. 10 della Costituzione italiana. La Corte ha ritenuto ammissibili tali ricorsi e ha chiesto chiarimenti in merito al Governo italiano. Tale discussione è tuttora in corso. Ma come farà il nostro Governo a dare una spiegazione e a giustificare questa grave violazione dei diritti umani tenuta nascosta finora?

 

Annita De Biasi

 

[Fonte immagine di copertina: ANSA/AP Photo/Mauro Buccarello]

Questo articolo è parte del Project Work che Annita, studentessa del corso di laurea in Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani dell’Università degli Studi di Padova, sta svolgendo presso la redazione di The Bottom Up. 

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