La posizione geografica del Niger è molto peculiare, esso infatti condivide i propri confini con numerose nazioni africane, tra le quali ci sono Algeria, Libia, Mali e Nigeria.
Altrettanto numerose – e molto imponenti – sono le sfide che questo paese deve affrontare oggigiorno: intensi flussi migratori, crisi umanitarie,la sicurezza interna, il cambiamento climatico, l’impetuosa crescita demografica, l’incerto sviluppo economico. Il Niger è dunque attraversato da diverse “faglie di instabilità”, amplificate dall’assenza di un vero e proprio processo di nation building a seguito della fase di decolonizzazione.
Di questa fragilità hanno approfittato diversi attori, locali e non, che hanno col tempo creato strutture di potere ed economie del tutto parallele a quelle formali. E così milizie tribali, jihadisti e criminalità organizzata si strutturano, si parlano, si coordinano, si supportano, a volte si sovrappongono e si confondono.
Ma non è solo la sua collocazione su di una mappa a rendere il Niger un paese in una posizione delicata. Nel sottosuolo giacciono infatti risorse minerarie assai importanti: uranio e petrolio solo per citarne un paio.
E dentro lo stato nigerino tutto è mobile, mobilissimo. Le persone, le materie prime e perfino i confini.

In Niger, terra di migrazioni, che scopo avrebbe l’intervento italiano?
Nel 2016 almeno 417mila persone hanno attraversato il Niger per dirigersi verso le coste del Mediterraneo, di queste 300mila sono passate dai 600 km di frontiera con la Libia (fonte: Organizzazione Internazionale per le Migrazioni).
E sono molti i nigerini che – come autisti, cambia valute, commercianti, affitta camera, guide – si inseriscono nei vari anelli della catena migratoria andando a costituire una vera e propria “industria delle migrazioni” in cui è difficile scindere il legale dall’illegale.
Ma non sono solo gli esseri umani a spostarsi. Da qui transitano anche la cocaina sudamericana diretta in Europa e le armi degli arsenali di Gheddafi; saccheggiate dopo la guerra contro il regime, ora stanno sostenendo le più svariate cause e insurrezioni dell’Africa sub-sahariana.
In questo scenario, si inserisce la annunciata missione italiana nel paese. Anche se fino a pochi mesi fa dal Ministero della Difesa si affrettavano a smentire le notizie di una simile operazione (c’era già il nome pronto: “Deserto rosso”), un intervento boots on the ground era nell’aria, soprattutto a seguito della firma dell’accordo di cooperazione militare Italia-Niger dello scorso 26 settembre e dell’apertura della prima ambasciata italiana nel Sahel, proprio nella capitale nigerina.
Negli ambienti della politica e dell’esercito si parla di una partenza con alcune centinaia di soldati che dovrebbero in seguito raggiungere un picco massimo di 470 uomini, con un dispiegamento che avrà inizio tra febbraio e marzo.

Sono molti i problemi che riguardano la sfera più prettamente tecnico-operativa. Forte è la confusione sulle regole d’ingaggio, si tratterà di una missione “combat” o di puro addestramento delle forze nigerine? Non mancano poi le formazioni fondamentaliste operanti nell’area: Boko Haram che preme da sud dopo essere stato sconfitto dalla vicina Nigeria. Oppure i gruppi legati a rivendicazioni territoriali, come i tuareg reduci dall’insurrezione dell’Azawad maliano. Si tratta di organizzazioni che conoscono (e influenzano) molto bene la regione e i suoi equilibri politici, sociali ed economici.
E anche in casa, non sono pochi gli ostacoli che si frappongono all’avvio della missione. Primi fra tutti, in Italia, il voto delle Camere e lo scioglimento anticipato della legislatura, due scogli che potrebbero rendere più difficile il “via libera” all’intervento.
Anche per quanto riguarda le missioni militari il Niger risulta un posto decisamente affollato. Oltre a contingenti USA e della Francia, la capitale Niamey ospita anche una base tedesca e un’operazione europea di polizia (EUCAP Sahel Niger). E se alcune di queste unità hanno compiti di puro training per le forze di sicurezza nigerine, altre sono schierate in prima linea in funzione di anti-terrorismo, a riprova del rinnovato interesse che la regione saheliana suscita tra le principali potenze internazionali.
E non bisogna dimenticare le iniziative locali, con il G5 Sahel, la nuova unità regionale formata da Mali, Ciad, Burkina Faso, Mauritania e – ovviamente – Niger.
A torto o a ragione, i recenti movimenti migratori e gli episodi di terrorismo su suolo europeo hanno posto quest’area al centro dell’attenzione della politica della UE. Alla luce di fenomeni così destabilizzanti, non appare azzardato affermare che la stabilità del Vecchio Continente passi anche dalla stabilità del Sahel.
Ma la risposta non può essere solo militare.
Il rischio è quello di un ulteriore rafforzamento della prassi occidentale di accorrere a “puntellare” le pericolanti strutture che hanno sostituito le ex colonie di novecentesca memoria. Ma anche di spingere molte persone tra le braccia di jihadisti e criminali, persone che prima ricavavano una fonte di reddito non indifferente dalle migrazioni e alle quali non è stata offerta nessuna alternativa. È per questo che la soluzione non può essere unicamente dettata dalle armi, ma deve seguire anche la strada politica, diplomatica e della cooperazione allo sviluppo.
Come già accaduto in Iraq e Afghanistan, gli interventi militari possono produrre il classico “effetto boomerang”, peggiorando ulteriormente i conflitti che erano chiamati a risolvere.
Soldati contro persone: una missione per bloccare le migrazioni?

Nelle parole del premier Gentiloni questa missione si prefigge perciò anche lo scopo di fermare i flussi migratori che passano per il Niger, contrastando il traffico di esseri umani. L’invio dei militari non potrà comunque arrestare il fenomeno e i migranti che verranno indirizzati verso nuove rotte complicate, rischiose e costose.
Il Niger, e in particolare Agadez, hanno rappresentato negli ultimi anni uno dei punti di snodo e passaggio più battuto dai migranti diretti in Libia e in Algeria. Ma le nuove politiche dell’Unione Europea hanno provocato un cambio delle stesse rotte migratorie, causando un grande aumento dei prezzi del trasporto, ma anche dei rischi connessi al viaggio di attraversamento.
I movimenti migratori sono cambiati in Niger già nel settembre del 2016, quando fu applicata sistematicamente, sotto pressione dell’Unione Europea decisa a contrastare il traffico di essere umani, una legge interna del governo nigerino che contrae la libera circolazione nella Comunità Economica dell’Africa occidentale, limitando drasticamente i traffici di persone. Il rovescio della medaglia è rappresentato dal fatto che il traffico di migranti rappresentava uno dei maggiori perni attorno al quale girava l’economia del paese, e soprattutto che l’applicazione della stessa legge sembra favorire il passaggio da un’economia che poteva essere definita “al dettaglio” ad un sistema mafioso, poiché ora solo chi ha contatti con i traffici illeciti, in particolare di droga, può permettersi di trasportare i migranti, rendendo così il viaggio ancora più pericoloso ed esclusivo, mettendo in pericolo la vita di migliaia di persone.
Il diktat europeo sulla limitazione dei flussi migratori non tiene conto del rispetto dei diritti umani delle persone che stanno migrando, volendo fornire misure di sostegno in parallelo con quelle repressive adottate dalle autorità nigerine nel campo dell’immigrazione irregolare.
In particolare, missioni militari come quella italiana rischiano di arricchire le élites politiche ed economiche che pretendono il controllo esclusivo di questo fatto, inviando fondi sostanziosi che non sono in grado di gestire in modo trasparente ed equo e in questo modo escludendo la popolazione che ora si deve guadagnare da vivere in altro modo, cambiando completamente le dinamiche di un’intera zona.
Open Migration riporta il parere di Nana Ekoye responsabile dell’ufficio della Ong Alternatives Espace Citoyens, che conferma che «la legge, che sulla carta dovrebbe tutelare i migranti, ha favorito in realtà un sistema di vera e propria tratta. Oggi succede che i migranti siano chiusi a chiave dentro i ghetti, mentre gli intermediari ritirano in banca i soldi mandati dalle famiglie: fino a 500 mila franchi (760 euro) per il viaggio verso la Libia,m che prima poteva costare la metà. […] Sono poi sempre più frequenti casi di migranti abbandonati nel Sahara da autisti che temono di essere incarcerati […] e il numero dei migranti morti nella traversata potrebbe essere molto più elevato».
Una missione “ad ostacoli” dunque quella messa in atto dall’Europa e in particolar modo dall’Italia, che si prefigge obiettivi di cooperazione e miglioramento delle condizioni che riguardano la tratta di esseri umani, ma che rischia di essere solo un altro intervento volto a salvaguardare molto gli interessi occidentali e poco i diritti umani.
Marco Colombo e Anna Toniolo
La foto di copertina è stata scattata da Emily Kessie e pubblicata sull’Huffington Post.
Un pensiero su “Traffico di esseri umani: perché l’Italia vuole intervenire in Niger?”