Lo costruiamo un nuovo muro? Perché non estendere il muro tra Messico e Stati Uniti? Quando si parla di barriere che dividono uno stato dall’altro è bene non attribuire ai vari Orban o Trump che in questo momento spopolano nel mondo un ruolo da pionieri. Perché, oggigiorno, sono centinaia i muri divisori presenti sulla terra. E non stiamo parlando solo di muri che separano un paese da un altro, tra i quali i più famosi sono sicuramente quello tra Messico e Stati Uniti e quello tra Israele e i territori palestinesi, ma anche di muri urbani, che dividono all’interno delle stesse città i quartieri benestanti da quelli più poveri. Non se ne parla, ma in America Latina ne sono stati costruiti a decine negli ultimi trent’anni. Ce ne sono a Buenos Aires, a San Paolo, a Lima, a Caracas, a Città del Messico e in molte altre città.
A Lima, in Perù, il muro è lungo più di dieci km e divide il lussuoso quartiere di Las Casuarinas, dove una casa può costare fino a due milioni e mezzo di dollari, e il quartiere povero di Pamplona alta. Per entrare a Las Casuarinas viene richiesto il documento d’identità ed eludere i controlli è impossibile. La cresta del colle è il confine tra due mondi: da una parte del muro ci si trova davanti a lussuosi appartamenti e ville con piscina, dall’altra a piccole case, se così le si può definire, di lamiera e senza servizi igienici, in cui l’acqua potabile manca e viene venduta dalle poche autocisterne che vi arrivano due volte a settimana e dove non c’è illuminazione pubblica. E indovinate un po’ da chi è stato costruito questo muro, da molti definito “della vergogna”? Da nessun politico di destra, come potremmo immaginando, ma dai gesuiti. Infatti, a iniziare la costruzione del muro nel 1985 fu il Collegio La inmaculada de las Casuarinas, per proteggere i propri alunni. Poi, dal 1990, altri hanno continuato quel muro fino a fargli raggiungere le dimensioni attuali.

Una realtà simile è quella di Buenos Aires, dove una recinzione di metallo isola la Villa 31 all’interno del quartiere Retiro (qui si chiamano “villa” quelle che in Brasile sono “favelas”). Villa 31 è una delle zone più povere dell’Argentina e, paradossalmente, si trova proprio nel Retiro che è, invece, uno dei distretti residenziali più costosi dell’America Latina. La Villa è nata negli anni ’30 e ci vivono circa 45.000 persone. Durante il primo decennio del 2000 alcune migliorie sono state fatte con l’obiettivo di fornire acqua potabile ed elettricità ad un maggior numero di case. Nel 2007 però Mauricio Macri, attuale presidente dell’Argentina, divenne governatore della provincia di Buenos Aires. Proprio durante la sua amministrazione un recinzione di metallo è stata costruita affinché coloro che percorrono l’autostrada Illia non possano vedere cosa si nasconde nella Villa 31.

In Europa, notizie su queste realtà quasi non ne arrivano ma in America Latina il dibattito è piuttosto vivo. Numerose sono le posizioni a favore dei muri, sia da parte della classe politica che dei cittadini. Si pone l’accento sulla sicurezza, sul fatto che grazie a questo muri i cittadini dei quartieri più ricchi possono muoversi in tranquillità senza avere il timore di essere derubati.
Chiunque sia stato in qualche città dell’America Latina non può negare, e sarebbe un’ipocrita se lo facesse, che un atteggiamento di questo genere è più che comprensibile da parte di un comune cittadino. Perché è facile gridare, dal nostro bell’angolo del mondo, che si tratta di una terribile ingiustizia, ma poi bisogna trovarcisi in quelle situazioni. Provate a camminare in una realtà simile e quasi sicuramente verrete pervasi dalla paura e dalla diffidenza nei confronti di chiunque vi si avvicini.
Dovremmo però indignarci per l’incapacità statale di gestire e risolvere situazioni così. Secondo la Banca Mondiale, infatti, quattordici tra i paesi più diseguali al mondo si trovano in America Latina, facendo riferimento alla distribuzione del reddito e non al livello di povertà. Per misurare il livello di diseguaglianza si usa l’indice di Gini, ovvero l’indice di concentrazione che tiene conto di due variabili assolute: lo zero, ovvero stesso reddito per tutti e quindi perfetta uguaglianza, e l’uno, ovvero una persona detiene tutto il reddito, quindi assoluta disuguaglianza. Ad esempio, nel 2014 il Perù aveva un indice di Gini del 44,14, l’Argentina del 42,67, il Messico del 48,21 e il Brasile del 51,48 (la Banca Mondiale per comodità usa un indice che va da 0 a 100). I muri di cui abbiamo parlato rappresentano materialmente questi indici. E i governi cosa fanno?
Fingono di non vedere i muri o addirittura li promuovono, cercando di nascondere le loro debolezze. Nessuno è così ingenuo da pensare che sia facile gestire simili realtà, ma ghettizzarle non sembra certamente la soluzione migliore. I problemi di sicurezza e violenza non si risolvono con i muri e con una maggiore repressione. Bisognerebbe aspirare a una maggiore integrazione, cercando di assicurare acqua potabile e illuminazione a tutti, un livello minimo di educazione a tutti coloro che vivono in questi quartieri di serie B, aumentare il sostegno e i centri di riabilitazione per coloro che rimangono incastrati nel tunnel della droga. La risposta a questa problematica dovrebbe essere la giustizia sociale e non la segregazione. Solo in questo modo gli abitanti delle varie ville dell’America Latina smetteranno di fare paura agli altri abitanti e finalmente avranno accesso alle stesse possibilità di vita dei loro concittadini. Non si può pensare di ignorare il fatto che molte volte la criminalità e la violenza sono dettate dalla necessità e dall’impossibilità di accedere a un’alternativa migliore, più che da una genuina volontà.
Nascondere la situazione con un muro non aiuta nessuno, né ricchi né poveri. E certamente non aiuterà i paesi latinoamericani a raggiungere l’importanza a cui aspirano sulla scena mondiale. Non è l’ombra di un muro quello che serve, ma un raggio di sole che porti alla luce tutti i problemi e l’energia e la volontà necessarie per risolverli.
Sabrina Mansutti
[L’immagine di copertina è tratta da urgente24.com]