Bene, se siete qui avete fatto una scelta decisiva per la vostra esistenza e le strategie di clickbait, contro ogni aspettativa, hanno funzionato. È germogliato quel seme che non sapevate di avere dentro ma che è sempre stato lì fin dalla vostra nascita. Sì, finalmente avete scoperto di aver bisogno delle struggenti liriche di Franco Califano.
Non ridete, il momento delle esperienze musicali alternative è finito; da troppo tempo vi gingillate nell’idea di essere ancora in diritto di ascoltare Calcutta quando siete stat* mollat* – tanto sapete camminare benissimo – o perché il vostro revanscismo vi spinge a puntare sulle ultime aitanti leve degli anni Novanta. Dovreste ormai aver realizzato che il vostro ideale di uomo piuttosto che Tommaso Paradiso dovrebbe essere Franco Battiato e – i vostri dubbi in merito presto svaniranno – percepite che l’accostamento delle parole “vivere” e “volare” non sia del tutto farina del sacco di Brunori Sas. Si, perché, cari lettori di The Bottom Up, grazie ai dati in nostro possesso su di voi [risata diabolica] ci piace pensare a voi come giovani dandy che conoscono come va il mondo – in questo TBU cerca sempre di aiutarvi – e che hanno accumulato un bagaglio d’esperienze che inizia a farsi consistente e, quanto a vissuto, nessuno ne ha accumulato e descritto più di Franco Califano.
Da Tripoli a Roma, la vita del Califfo – conclusasi già da quattro anni – è stata talmente sregolata da aver quasi adombrato la sua grandezza di cantautore: amante della vita notturna, arrestato per possesso abusivo di armi e traffico di droga insieme con Enzo Tortora, scrisse lettere dal carcere a Bettino Craxi, del quale divenne amico, e del Maestro si dice che abbia avuto un numero di donne talmente elevato da far sembrare gente come Mick Jagger e Keith Richards dei seminaristi. Lo stile di vita spregiudicato, segnato da repentini capovolgimenti di fortuna, di chi è sopravvissuto a se stesso e che ha rischiato, come detto, di oscurare una parabola artistica notevole. La sovrapposizione arte/vita nel Califfo è forte ma non totalizzante, dalle canzoni – oltre un migliaio – scritte per sé e per molti altri grandi artisti, emerge un Califano iper-umano, che ha vissuto tutte le vite possibili solo per poterle raccontare agli altri, un grande prontuario dell’esistenza emotiva e fenomenica descritta con minuzia e che nella musica italiana non ha eguali. Abbiamo individuato per voi alcuni filoni tematici nell’opera del Califfo per aiutarvi a compiere questo decisivo passo di autoanalisi califaniana.
Il neorealismo
Nella vasta opera di Franco Califano il neorealismo, più che tema è una costante: alla base di tutto c’è l’esperienza dell’umiltà, la poetica degli ultimi, l’Io califaniano tende ad affratellarsi con questo tipo di umanità nell’album d’esordio ‘N bastardo venuto dar Sud del quale Semo gente de’ borgata è la main track, il Califfo introietta il punto di vista degli ultimi, dei borgatari, degli stanchi operai, ed è da questo punto di vista che partirà la sua esplorazione in quasi tutti i pezzi. Nelle sue canzoni, però, la classe operaia non va mai in paradiso.
La vocazione poetica, l’esperienza sensibile
Al di sopra di questo sostrato di dura realtà popolare c’è la meditazione sulla vocazione poetica e la costante affermazione del primato dell’individuo. La meditazione sul compito del poeta raggiunge vette meta-cantautorali in un brano come Poeta saltimbanco – il cui incipit recita: “Poeta non insistere a cantare / canzoni piene di malinconia / il pubblico si vuole divertire / e se ne frega della tua poesia / metti del borotalco sul tuo viso / e sulle labbra un poco di rossetto / diventa saltimbanco all’improvviso / per quelli che han pagato già il biglietto” che rievoca Vesti la giubba, celebre struggente aria di Pagliacci di Leoncavallo – e nel calviniano Che fine hai fatto cantautore? Il dominio del soggetto diviene sempre più forte nel corso della carriera dell’artista, lo si vede già nella progressiva definizione del soggetto che emerge fin dai titoli di album come ‘N bastardo venuto dar Sud (1972), Secondo me, l’amore (1975) …tuo Califano (1980); ma è con La mia libertà del 1981 che Califano rivela il suo manifesto programmatico dell’Io. Il brano che dà il titolo all’album è uno straordinario inno alla vita pienamente vissuta, così come si presenta, nella totale indipendenza.
Il Califfo sarà sempre più autoreferenziale, lo possiamo vedere, ad esempio, nell’album del 1994 dal titolo Ma io vivo. Naturalmente nel ’94 la sua carriera ha già superato l’apice creativo e il personaggio Califfo comincia a prevalere sul cantautore malinconico della prima ora. Permane comunque uno sperimentalismo che porta a un brano nel quale un ingenuo razzismo si mescola al dialetto romanesco e all’inglese, si tratta di Vino bianco, vino nero.
Canzoni di congedo sentimentale
Naturalmente una simile affermazione di indipendenza non può portare a legami duraturi. Il solitario cantautore passa da una donna all’altra, colleziona esperienze con un gran numero di donne, ama in modi molto diversi donne diverse e, soprattutto, si separa da ognuna in maniera differente. È un campionario di amori finiti che però non distruggono la solida interiorità del poeta ma la rafforzano, ne incrementano il pragmatismo. Buona fortuna Annamaria, ad esempio, vede il soggetto intento a spiegare alla donna le ragioni per le quali vuole interrompere la relazione con memorabili versi: “Ormai noi semo due che se so’ dati troppo e mo nun c’hanno idee, perciò che stamo a fa’, la gara a chi rifiuta meglio la realtà”.
Le note inziali di Primo di settembre sono le stesse di Across the universe, qui però danno il via a una pastorale recitata/cantata in cui l’Io narrante, di fronte al pensiero che la donna un tempo amata stia voltando pagina, sente la necessità di chiamarla, forse di ricominciare. La struttura del testo raggiunge la pennellata impressionista: brevi frasi descrivono sentimenti, una chiamata disturbata e, infine, il pentimento per aver chiamato.
Io me ‘mbriaco racconta di un uomo lasciato che lentamente cerca di ricominciare, la sua vita è il trionfo dell’orgoglio ferito che si risolleva, della volontà di opporsi al dolore ma che al tempo stesso cerca rifugio nell’alcol. Ora dite che non è meglio di Cosa mi manchi a fare.
In Ma che piagni a ffa’ notiamo uno dei topoi più destabilizzanti del Califfo, l’amore con una ragazza giovanissima, praticamente un’adolescente. Siamo all’inversione totale della prospettiva di Lolita di Nabokov: nel romanzo nabokoviano Humbert Humbert è soggiogato dal desiderio solipsistico di possedere la ninfetta a ogni costo e fino alla distruzione, nel brano del Prévert di Trastevere il rapporto amoroso con la giovane si è consumato rapidamente. L’uomo – che ha il doppio degli anni della ragazza – è libero dal solipsismo, si ravvede e allontana la ragazza da sé. Meraviglioso quel “saltavi a corda solamente un anno fa” iniziale che fa passare la voce dell’io narrante per quella di un padre affettuoso, ed è in qualche modo paterno il tono con il quale il protagonista cerca di rimediare al suo errore, l’aver ceduto alle attenzioni della giovanissima ragazza, impartendo alla giovane la prima lezione di dolore della sua vita.
Il rapporto ambivalente con i cani (e le relazioni)
Vi sembrerà strano ma non stiamo parlando di quei Cani che cantavano Non c’è niente di twee a Roma Nord. Vogliamo citare due brani del Califfo che parlano di cani in modi completamente opposti. Il primo è Pier Carlino nel quale il protagonista, per una volta coinvolto in una relazione, è costretto ogni giorno a fare jogging all’alba perché il cane della donna faccia i suoi bisogni. Il soggetto è costretto in una relazione opprimente della quale il cane è l’odiato simulacro. Si tratta di uno di quei brani recitati dai quali emerge lo humor romanesco che accomuna Califano con Er Monnezza. L’amara costrizione del soggetto all’interno del rapporto di coppia e lo storytelling alla romana si trovano anche nel brano La vacanza di fine settimana.

Arriviamo a uno dei brani più struggenti e maturi del Maestro, Io non piango. L’opera si apre con un elenco di cose di fronte alle quali l’Io narrante non prova alcun turbamento, la morte, la guerra, il suicidio. Il protagonista, tuttavia, riconosce se stesso nella solitudine del cane randagio, nella cognizione della comune solitudine; si abbandona al pianto motivato, nella seconda strofa, da quello che sembra un amore perduto o sul punto di finire. Vista la breve durata del brano, la sintesi emozionale è straordinaria.
Fenomenologia dell’esperienza amorosa
Ed eccoci approdati al gruppo di brani (per la verità un duo) nei quali Franco Califano ha maggiormente infuso il suo bagaglio di esperienze perché noi tutti se ne potesse trarre giovamento, si tratta di canzoni dal valore eterno e universale. La prima, Me ‘nnamoro de te, è il disperato canto di un uomo consapevole di essere all’ultima occasione per provare dei sentimenti verso una donna (ancora una volta più giovane), il soggetto stesso è diviso tra la bontà di questo nuovo amore e la necessità del sentimento per la vita, il vecchio uomo percepisce l’impossibilità di proseguire una vita solitaria nell’insistenza della pioggia fuori e della nebbia, contro al calore del legame con la giovane. Il suo sentimento è autentico o è il trionfo del solipsismo?
Tutto il resto è noia è uno di quegli sfortunati brani talmente noti che ormai nessuno ascolta davvero. Ecco, provate ad ascoltarla al termine di questa cavalcata nell’opera del Califfo. Fatelo adesso, con il cuore lacerato e le orecchie pure. Il Maestro descrive con minuzia frammenti i momenti salienti di un nuovo amore, vita che avete vissuto: i primi approcci, la tensione della conquista, la passione da dimostrare nella prima notte a letto, e poi la ripetizione del quotidiano e il tramonto della passione. Poche cose dell’esperienza amorosa si salvano all’interno di questo brano senza tempo, capace di parlare a tutti e, da oggi, anche a voi.
Matteo Cutrì
Immagine di copertina: Excite
2 pensieri su “Allora, Califfo, cosa mi manchi a fare?”