racial profiling

Il racial profiling ha già fallito, ma negli States è ancora la prassi

“In Paterson that’s just the way things go

If you’re black you might as well not show up on the street

Less you wanna draw the heat”

Siamo nel 1976. Chi canta è niente meno che Bob Dylan. Il testo denuncia senza mezzi termini un fatto di cronaca reale, le vicissitudini giudiziarie di Rubin “Hurricane” Carter, pugile professionista (nero) accusato ingiustamente di triplice omicidio nel 1966. Carter scontò ben 19 anni di carcere, prima di essere assolto in appello dalla Corte Federale perché il processo sarebbe stato inquinato da “pregiudizi razziali”. Il pugile, dalla cui autobiografia è tratto anche il film Hurricane – il grido dell’innocenza (1999), ebbe effettivamente, fin dall’infanzia, piccoli problemi con la giustizia, che lo portarono ad essere conosciuto, per non dire perseguitato, dalle forze dell’ordine di Paterson, New Jersey.

Hurricane è l’ennesima vittima collaterale di un sistema di polizia che troppo spesso ricorre al fallace strumento del racial profiling per fare giustizia. Per racial profiling si intendono tutte quelle pratiche discriminatorie messe in atto da funzionari di polizia con lo scopo di individuare i presunti autori di reato sulla base di piccoli precedenti, razza, colore, origine etnica, religiosa o nazionale. Quindi in sostanza sulla base di stereotipi. Si tratta a tutti gli effetti di prassi razziste, tanto più difficili da individuare se gli agenti decidono di agire sulla base di un mix di motivazioni, tra le quali può comparire anche un’effettiva violazione della legge, sebbene di solito si parla di reati minori (guida ad alta velocità, disturbo della quiete pubblica, piccolo spaccio, furto).

racial profiling USA
Credits: field-negro.blogspot.com

Le vittime designate sono per lo più afroamericani, o comunque persone dalla pelle scura. Questi trattamenti discriminatori non si limitano purtroppo a fermi e perquisizioni, che sono ad ogni modo rappresentativi della discrezionalità con cui viene esercitato il potere, ma si concludono di frequente con scontri violenti e uccisioni brutali. Basta un atteggiamento oppositivo, una postura sbagliata, qualche forma di protesta. La realtà è che spesso nemmeno l’arrendevolezza più completa, o la sostanziale mancanza di prove circa la fattualità dei reati, bastano a tenersi stretta la propria esistenza.

Le morti di Alton Sterling e Philando Castile, uccisi ad un giorno di distanza l’uno dall’altro rispettivamente il 5 e il 6 luglio 2016 in Louisiana, hanno attirato molta attenzione mediatica, contribuendo ad evidenziare la frequenza degli abusi verso la componente “nera” della popolazione. Sebbene i neri rappresentino solamente il 13% del totale della popolazione degli Stati Uniti, secondo i dati raccolti da mapping police violence la polizia ha ucciso 303 afroamericani solo nel 2016, 346 l’anno precedente. Un nero ha il triplo delle possibilità di essere fermato rispetto ad un bianco. La percentuale di neri disarmati uccisi dalla polizia risulta essere 5 volte superiore alla percentuale di bianchi. Per la maggior parte corrispondono al profilo del “giovane maschio nero”, con un’età media tra i 18 e i 35 anni, ma tra le vittime compare anche qualche donna.

Nel 2015, solamente in 10 casi (su 102), gli ufficiali di polizia coinvolti nelle uccisioni sono stati chiamati a rispondere dei propri atti. La pressoché totale impunità che il corpo di polizia gode da parte di magistratura e giustizia offre di fatto una legittimazione all’uso ricorrente, eccessivo e non giustificato della violenza. Ed evidenzia un rapporto non scevro da legami clientelari e favoritismi. Il sindacato di polizia parla il più delle volte di “legittima difesa”. Di fatto, anche laddove l’abuso sia documentato, il 97% degli agenti non viene nemmeno incriminato. Aspetti che non hanno fatto altro che aumentare la rabbia delle comunità afroamericane, sollevando ondate di proteste e manifestazioni in tutti gli Stati Uniti (nota a tutti è l’associazione Black Lives Matter, nata nel 2013).

Credits: sociallyurban.com

Se a morire fossero persone bianche, la loro morte avrebbe lo stesso scarso valore? Si chiede in una pubblicazione del 2009 Dolores Jones-Brown, docente e direttore presso il Center on Race, Crime and Justice al John Jay College of Criminal Justice di New York. La risposta, devastante nella sua crudezza, è no. Condensata nelle parole di Ta-Nehisi Coates, scrittore e giornalista afroamericano, che al figlio quindicenne scrive:

E adesso la legge è diventata una scusa per fermarci e perquisirci, per portare a un livello superiore l’assalto al nostro corpo. Ma una società che protegge alcuni attraverso la rete di sicurezza (…), e che pensa di proteggere te solo con il bastone della giustizia criminale, ha fallito nel realizzare le sue buone intenzioni, oppure è riuscita in qualcosa di ben più oscuro”.

Il razzismo e la violenza istituzionale colgono impreparati, lasciano basiti, tolgono il respiro. Ci si sente smarriti di fronte all’esercizio extra-legale della forza da parte di coloro a cui deleghiamo la gestione della res publica. Le coscienze si affannano alla ricerca di una spiegazione plausibile, che acquieti i dubbi, come se sviscerare le circostanze delle uccisioni possa far emergere elementi a supporto della retorica della morte inevitabile, prezzo da pagare per garantire alla maggioranza di godere di una società sicura. In questo senso, ricondurre gli scontri ad episodi sporadici è pericoloso, non foss’altro per la frequenza con sui si verificano.

Non si tratta nemmeno di iniziative mosse da impulsi razzisti del singolo soggetto. Perché il razzismo è sempre stato una questione di potere, un esercizio della violenza trasversale alla società, funzionale a mantenere un determinato status quo, a legittimare il saccheggio e la conquista in epoca coloniale, e a preservare ancora oggi il privilegio di una certa componente bianca della popolazione, quella che trae beneficio da determinate segmentazioni di classe e razza, produttive, distributive e di genere, che si proiettano nella costruzione di un’identità nazionale circostanziata ed escludente.

La polizia è troppo spesso il braccio armato di una violenza di Stato che, in nome di una ben determinata gestione/controllo del territorio e della comunità, opprime le fasce più vulnerabili con politiche repressive, relegandole alla base della scala sociale, in una guerra ai poveri che è indissolubilmente legata al mantenimento dei confini, razziali e di classe. “L’America non è pronta per essere post-razziale”, scrive sempre Dolores Jones-Brown. E infatti il racial profiling è una pratica che abbiamo visto consolidarsi negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, quando a fare le spese del generale clima di panico e sospetto sono state pressoché tutte le persone provenienti dai Paesi arabi e musulmani, senza peraltro alcun collegamento con gli attacchi terroristici. Aspetti biologici, culturali e comportamentali diventano il pretesto per stigmatizzare un’altra categoria di persone: gli immigrati. Aggiungendo in questo modo un altro confine astratto e tuttavia escludente, quello della cittadinanza. L’intersezione tra gli ordini esecutivi sull’immigrazione voluti da Trump, incarcerazioni di massa e PIC (Prison Industrial Complex) non è un caso.

marcia stop racial profiling
Credits: wikimedia commons

L’Europa non può certo dirsi immune da queste dinamiche. I casi recenti di Adama Traoré e Theo Luhaka, avvenuti nell’europeissima Francia ancora sconvolta dagli attentati terroristici, delineano uno scenario chiarissimo: una morte “accidentale” per soffocamento e una violenza sessuale avvenute durante “regolari” controlli d’identità, evidentemente svolti su base razziale. Si elimina il dissenso con l’oppressione delle minoranze, la violenza è funzionale a far credere che queste dinamiche di disuguaglianza e negazione di diritti non possano cambiare.

Ripenso a qualche settimana fa, quand’ero seduta a bere un caffè in stazione Termini a Roma, in attesa del treno che mi riportasse a casa. Mai, nemmeno per un secondo, ho pensato che qualcuno avrebbe potuto fermarmi e chiedermi di mostrare i miei documenti. Bianca, giovane, donna. Nell’ora in cui sono rimasta seduta, i due carabinieri di servizio all’interno della stazione hanno fermato 5 ragazzi. Tutti uomini, tutti presumibilmente di origine araba o nordafricana. Accanto a loro è passata una ragazza, con sé aveva una borsa di stoffa con sopra scritto “illegal immigration started in 1492.

Martina Facincani

[La fotografia di copertina è di proprietà REUTERS/James Lawler Duggan]

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