Yeki bud, yeki nabud… c’era qualcuno, non c’era nessuno. Così cominciano i racconti persiani, e l’ultimo film del regista iraniano Asghar Farhadi conserva un antico fascino per la narrativa. Farhadi ha abituato il suo pubblico ad intrecci gustosi, che svelano una rete di personaggi ed emozioni, nel progressivo sviluppo vorticoso di trame che procedono al ritmo di colpi di scena – senza mai offrire soluzioni aspettate.
Eppure, in nessuno dei precedenti successi internazionali del regista – About Elly (Iran 2009), A Separation (Iran 2011), The Past (Francia-Italia-Iran 2013) la trama è semplicemente uno strumento per raccontare una storia: è piuttosto un artificio per esplorare le situazioni e le interazioni fra i personaggi. La trama è pazientemente e espertamente costruita, ma il film non si riduce mai alla sola trama. Quello che si scopre nei film di Farhadi non è mai quello che i personaggi cercano (e talvolta trovano). Quello che conta non è la soluzione della trama.
Alcuni parlano di ‘MacGuffin’, per indicare un elemento che muove la trama senza però che l’oggetto in questione sia oggetto di spiegazione o che lo scioglimento dell’intreccio lo riguardi. Cosi nei tre recenti film di Farhadi crediamo di cercare qualcosa, invece il film si rivela essere su tutt’altro.
Nanni Moretti ha detto una volta che un regista gira sempre lo stesso film, solo un po’ meglio ogni volta. È sicuramente il caso di Asghar Farhadi. In Forushande – in italiano Il Cliente (Iran-Francia 2016) – Farhadi porta alla perfezione il meccanismo narrativo. Anche in questo caso, come in suoi film precedenti, un’ellissi nasconde il nodo centrale dell’intreccio, ma stavolta quello quello che assilla i personaggi è oggetto di una soluzione abbastanza lineare. La trama è semplificata rispetto alle ricerche dei film precedenti, ma la densità dei temi e la profondità dei dubbi morali dei personaggi rendono questo film maturo, elegantissimo, complicato.

L’azione si svolge in Iran, Paese d’origine e ossessione di Farhadi, con cui i suoi personaggi hanno un rapporto tormentato e mai risolto. Il palcoscenico su cui recitano i protagonisti di Forushande è Teheran, e i temi messi in scena sono quelli cari al regista: il rapporto tra passato e presente, tra uomo e donna, tra marito e moglie; la casa e la sua distruzione; il sacrificio; il perdono; la colpa.
Aiutato da una recitazione eccellente del protagonista Shahab Hosseini, il film è magistralmente costruito intorno a una coppia di attori amatoriali che deve lasciare l’appartamento perché, simbolicamente o no, le fondamenta del palazzo in cui vivono stanno venendo distrutte. “La strada è piena di macchine. Non c’è un filo d’aria nel quartiere. L’erba non cresce più, non si possono coltivare carote nel giardino. Avrebbero dovuto fare una legge contro la costruzione di appartamenti” è una battuta dell’opera teatrale Death of Salesman di Arthur Miller, ripetuta quasi letteralmente dal protagonista di Forushande. Proprio l’opera di Miller, al quale peraltro è ispirato il titolo del film, viene messa in scena dalla coppia protagonista. E come in Death of a Salesman, la vecchia casa ha dei muri trasparenti (e come i vetri di Fireworks Wednesday (2006), anche pieni di crepe: i personaggi possono ispezionarsi a vicenda, pur essendo in stanze diverse. La separazione e l’unione sono meticolosamente costruite anche dal punto visivo. Come ogni grande opera, il film è ricco di parallelismi e contrasti: l’episodio del taxi con la spiegazione che ne dà il protagonista all’allievo e la sofferenza della moglie; la domanda ironica dello studente allievo “come ci può trasformare in mucca?” e la progressiva trasformazione del protagonista; il trucco che trasforma la coppia in attori la sera.

Perdono, peccato e colpa: sono temi che mi hanno ricordato molto l’opera del Dostoevsky maturo. Come Rowan Williams ha parlato per Dostoevsky di trame che non offrono soluzioni semplici e anzi lasciano le questioni dolorosamente aperte, cosi in The Salesman la responsabilità e il dovere, il torto e la ragione, passano incessantemente da un personaggio all’altro senza che lo spettatore abbia mai la certezza di una base morale su cui appoggiare stabilmente il proprio giudizio. La liquidità dei confini fra i personaggi restituisce la complessità della vita reale riguardo ai giudizi morali, una complessità in cui chi scrive ha voluto leggere la conferma dell’assenza di un assoluto morale e la difficoltà di ogni giudizio. Come in precedenti film di Farhadi, ogni proposta di soluzione è rifiutata in un gioco complessissimo di colpi di scena: in The Salesman i colpi di scena sono ridotti all’essenziale, ma la visione e la tensione irrisolta rendeno lo stesso difficilissimo prendere una chiara posizione.
Il film non è solo un capolavoro narrativo e morale che affronta con maturità, sensibilità, e intelligenza un argomento difficilissimo. È anche cinema at its best, perché l’orrore non è mai né mostrato, né indicato: eppure domina tutta la storia.
Lo spettatore esce dal cinema arricchito non solo da quello che ha visto; e tuttavia non ne esce né sazio né appagato.
Come direbbe un insegnamento talmudico: “I cattivi sono morti anche quando sono fra i vivi; i giusti sono vivi anche quando sono morti”.
Luigi Lonardo
@luigi_lonardo
Fonte immagine di copertina: quinlan.it