Due settimane fa, sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco ci notiziava che la Ced, la Comunità di difesa progettata negli anni 50, fallì anche perché “gli americani non volevano strutture militari in concorrenza con la Nato”. Questo non è vero. La storiografia non è una scienza esatta, ma in questo caso sembra che sia vero esattamente il contrario di quello che afferma Panebianco. Gli americani volevano quella comunità di difesa, al punto tale che minacciarono gli Stati dell’Europa occidentale di abbandonarli, se non avessero approvato il progetto di difesa comune (Duchin).
L’articolo di Panebianco è uscito sul principale quotidiano nazionale. È perciò sconfortante realizzare che un Paese dovrebbe informarsi ed educarsi con mezzi così approssimativi, soprattutto quando è facilissimo accedere a tante altre fonti, anche in italiano, che danno informazioni corrette.
Un giornalista non è uno storico, certo (ma nel caso di Panebianco è comunque uno scienziato sociale). E sicuramente è necessario, perfino in un editoriale sul principale quotidiano nazionale, ricorrere a frasi apodittiche, di cui non viene citata la fonte o che difettino di ulteriore spiegazione. È così per ragioni di spazio e di logica: non tutto ha bisogno di essere spiegato ab origine ogni volta; e comunque: intelligenti pauca. Ma la mancanza di spazio non è una scusa valida per introdurre interpretazioni personali senza specificarlo al lettore. Non si dovrebbe ammantare di oggettività quello che oggettivo non è (e le scienze sociali non mi sembra che lo siano). Né, in ogni caso, la mancanza di spazio, o perfino l’essere giornalisti, sono una scusa valida per essere ignoranti.
Per esempio, io affermo che “l’importanza storica, economica, politica, e perfino culturale dell’Unione Europea gioca un ruolo fondamentale nel dibattito pubblico italiano”. Ignorare questo ruolo, o ignorare l’Unione Europea, è impossibile. Mi sembra un fatto così evidente che specificarlo ulteriormente (tramite dati, analisi di discorsi di uomini politici, leggi etc) sarebbe addirittura pedante. Appunto, intelligenti pauca.
L’articolo di Panebianco mi ha fatto pensare che gli errori non sono tutti grossolani. Ne esistono di più sottili: il modo in cui viene raccontato il “progetto Europeo”. Vorrei perciò sfatare una certa retorica che circonda un soggetto così importante: l’Unione Europea. Partendo dal presupposto che si tratta comunque di interpretazioni storiografiche.
Nel discorso di insediamento del 2015, il Presidente della Repubblica Italiana ha detto che “Il sentimento della speranza ha caratterizzato l’Europa nel dopoguerra”. Altro esempio, comprensibile se non scusabile, di affermazione apodittica. Ma questa retorica, del “sentimento della speranza”, permea i discorsi semplificati o ideologizzati a cui siamo esposti. Questo è il mito: l’Unione Europea venduta come progetto di pace voluto da alcuni personaggi illuminati (“leader visionari”, li definisce il sito ufficiale dell’Unione Europea. Il Papa li ha chiamati “araldi della pace e profeti dell’avvenire”).
I nomi di questi funzionari, altrimenti ignoti, sono ripetuti ovunque, dal Parlamento alle scuole: Robert Schuman, Jean Monnet, Altiero Spinelli. Questi “leader visionari” (il sintagma ha in effetti un certo fascino) negli anni Quaranta, mossi da ideali comuni (“la pace, l’unità e la prosperità in Europa” sempre il sito ufficiale), si sarebbero accorti che cooperare era meglio che farsi la guerra. È questa un’interpretazione riduzionista che vorrei rifiutare, o per lo meno ridefinire. Altrettanto da ridefinire è, ovviamente, la retorica opposta dell’UE che fagocita banche e sovranità nazionale. Ma questa è tanto populista e grossolana da meritare meno ragionamenti per essere distrutta.

C’è una frase dello storico inglese Tony Judt che esprime bene la mia posizione: “L’Europa pacifica, cooperativa, post-nazionale, del welfare state, non è nata dal progetto ottimista, ambizioso e rivolto al futuro che si immaginano, con un certo amore del passato, gli Euro-idealisti di oggi. Era il bambino insicuro dell’ansia”. (The insecure child of anxiety).
Il mito è originato dall’interpretazione prevalente sull’ “integrazione europea”, quella “Federalista”, che è rimasta in voga dalle origini fino almeno agli anni Settanta- quando, cioè, all’apertura degli archivi nazionali sono cominciati i primi lavori di ricerca storiografica sull’UE. Prima che gli storici si mettessero a spulciare gli archivi, i soli ad occuparsi (o ad interessarsi) dell’argomento erano stati dei giursiti. L’interpretazione federalista (eg il giornalista e storico inglese Mayne) vedeva il processo di integrazione degli Stati dell’Europa Occidentale come desiderabile ed inevitabile. Il superamento dello Stato-nazione, da parte dei campioni dell’integrazione (Adenauer, Schuman, e la social democrazia in generale), è quindi una storia di successo e sviluppo costante.
Ma la storia non è andata proprio così trionfalmente. Negli anni 80, Lipgens, federalista convinto, progettò un’opera monumentale che raccogliesse materiale d’archivio sulla storia dell’integrazione europea. Furono pubblicati, anche postumi, quattro volumi di Documenti sulla Storia dell’Integrazione Europea. Anche i giuristi, che come menzionato avevano il monopolio dell’ “interpretazione” dell’UE, formularono a partire dagli anni 70 il paradigma che avrebbe permeato la concezione dell’UE nelle scienze sociali. Weiler e Stein, prima indipendentemente poi congiuntamente, descrissero la “Costituzionalizzazione dell’Europa”. Nella loro interpretazione, la Corte di Giustizia avrebbe creato, tramite intepretazione teleologica dei trattati, dei meccanismi tali da aver reso l’Unione Europea (e i suoi predecessori) de facto simile ad una federazione.
Questa tesi, di una storia progressiva di “costituzionalizzazione” e di successo, ha dominato il campo non solo in materia giuridica ma anche di altre scienze sociali, come quella degli americani che hanno scritto, più di recente, sull’integrazione europea (Stone Sweet, Garrett). Questi scienziati politici utilizzarono gli strumenti analitici della propria disciplina per analizzare la Corte di Giustizia come se fosse un’istituzione di una “normale” federazione. Schuman è diventato l’uomo simbolo di questo trionfale discorso federalista. Originario della Lorena, democristiano, cattolico.
Naturalmente, nota lo storico inglese Dinan, già i “federalisti” avevano problemi a riconciliare il ruolo messianico di presunti social democratici con le opinioni personali degli stessi protagonisti: Jean Monnet non solo non era social-democratico. Non era nemmeno religioso. Né ha mai spinto per progetti federali, ma solo per integrazione economica. E così un altro noto campione dell’Unione, Alcide De Gasperi, è assurto a simbolo dell’integrazione anche se il suo ruolo è stato decisamente marginale, e le sue motivazioni erano molto di più il contenimento del Partito Comunista Italiano che non ad aspirazioni federaliste.
Ma questa “favola bella che ieri mi illuse, che oggi ti illude” non è la sola chiave interpretativa. Negli anni 90 altre “narrative” furono offerte per spiegare il fenomeno dell’integrazione. Il prodigioso percorso federalista cominciò a sgretolarsi. Per esempio, il lavoro dello storico dell’economia Alan Milward si proponeva in diretta alternativa alla spiegazione federalista. Per Milward, l’integrazione si ottenne attraverso il perseguimento, da parte di potenti Stati-nazione, di interessi individuali e specifici. Anche più radicalmente, Milward sostenne che la Comunità Europea aveva addirittura rafforzato gli Stati-nazione europei. Né idealismo né progetti visionari: la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) era nata, per Milward o Gillingham, dalla pressione Americana di stabilizzare le relazioni Franco-Tedesche.
Di nuovo studiosi americani, per lo più scienziati politici, si interessarono al tema negli anni Novanta. Moravcsik interpretò il processo dal punto di vista dei desideri degli Stati: solo gli interessi commerciali determinarono le preferenze degli Stati. Parson ha interpretato la creazione della CECA come combinazione di ideologia (Schuman) e circostanze domestiche favorevoli in Francia. Solo grazie ad un sistema di alleanze puramente contingente su temi di politica domestica la CECA e la Comunità Economica Europea furono approvate (e la Comunità di Difesa rifiutata). Madsen e Vauchez sono arrivati a sostenere che la narrativa di “costituzionalizzazione” andasse smascherata come tentativo di “self-empowerment” dei giuristi.
Attualmente, il campo è in mano ad una nuova “wave” di storici, “the new historians”, che stanno re-interpretando il processo di integrazione europea concentrandosi su attori che sono stati finora trascurati (per esempio il ruolo dell’accademia, o della “Federation Internationale de Droit Européen”, o dell’opinione pubblica).
Diverse argomentazioni, a volte contrastanti, sono state fornite per spiegare come i “leader visionari” siano arrivati alle soluzioni che hanno fatto la storia dell’integrazione europea. Chi scrive non crede che ci sia un solo vero storico. Crede tuttavia nella necessità di criticare le “narrative” e di non dare niente per scontato, soprattutto se le interpretazioni sono dominanti.
Luigi Lonardo
Per saperne molto di più:
Dinan, Europe Recast. A History of the European Union (Lynne 2014)
Duchin, “The ‘Agonising Reapprisal’: Eisenhower, Dulles, and the EDC” (1992) 16 Diplomatic History 202.
Garrett, “The Politics of Legal Integration in the European Union” (1995) 49 International Organization 171
Gillingham, Coal, Steel, and the Rebirth of Europe, 1945-1955. The Germans and French from Ruhr Conflict to Economic Community (CUP 2005)
Iggers, Historiography in the Twentieth Century. From Scientific Objectivity to the Postmodern Challenge (Wesleyan University Press 2005)
Judt, Postwar. A History of Europe since 1945 (Vintage 2010)
Kauppi and Madsen, « Institutions et Acteurs: Rationalité, Réflexivité et Analyse de l’UE » (2008) 25 Politique Européenne 87
Lipgens and Loth (eds), Documents on the History of European Integration(4 voll, 1985-1990)
Mayne, The Community of Europe. Past, Present and Future (1963)
Milward, The Reconstruction of Western Europe, 1945-1951 (Univertity of California Press 1984)
Milward, The European Rescue of the Nation State (Routledge 1999)
Moravcsik, The Choice for Europe (Princeton University Press 1998)
Parsons, A Certain Idea of Europe (Cornell University Press 2003)
Rasmussen, “Rewriting the History of European Public Law: the New Contribution of Historians” (2013) 28 American University International Law Review 1187
Stein, “Lawyers, Judges, and the Making of a Transnational Constitution” (1981) 75 American Journal of International Law 1
Stone Sweet, Governing with Judges: Constitutional Politics in Europe (2000)
Vuchez, “The Force of a Weak Field: Law and Lawyers in the Government of the European Union (For a Renewed Research Agenda)” (2008) 2 International Political Society 128
Weiler, “The Transformation of Europe” (1991) 100 Yale Law Journal 2403
Un pensiero su “Miti e leggende sulla storia dell’integrazione europea”