A metà tra Cina e Italia: un problema di identità e di ingiustizie

In Italia ci sono circa 330 mila residenti cinesi, dati che fanno della comunità cinese una delle più grandi del nostro Paese. La prima comunità cinese proveniente dalla regione meridionale dello Zhejiang è arrivata a Milano nel primo dopoguerra, ma il vero e proprio fenomeno migratorio ha avuto inizio solamente negli anni Ottanta. Questo flusso di migrazioni ha dato vita a una seconda generazione di cinesi, che è nata o cresciuta lontano dalla patria dei suoi genitori, ma che rappresenta il punto d’incontro tra due culture diverse tra loro, quella cinese e quella italiana.

Questa diversità ha accompagnato entrambe le generazioni, sia la prima che la seconda, ma in modo diverso. Mentre i genitori, una volta arrivati in Italia, hanno dovuto affrontare difficoltà legate soprattutto al lavoro e alla lingua, i figli si sono ritrovati a prendere coscienza della loro identità e delle differenze tra la realtà che vivevano dentro casa e quella di cui facevano esperienza fuori.

In un questionario del Ministero dell’Interno del 2018, è emerso che per i cinesi di seconda generazione che vivono in Italia il problema più sentito è quello delle discriminazioni. Seguono poi le difficoltà nel lavoro, dell’isolamento, della depressione, le condizioni di vita difficili, il rapporto con gli italiani, le cure mediche, la mancanza di informazioni, la discriminazione nei confronti dei figli e l’ottenimento del permesso di soggiorno. Ma se da una parte la convivenza con gli italiani presenta tutti questi problemi, la controparte cinese non è molto più gentile. “香蕉人 (xiangjiaoren)”, letteralmente “persone banane”, è un termine creato e utilizzato con un connotato dispregiativo dai cinesi stessi per riferirsi ai cinesi di seconda generazione. Persone additate nella loro identità multipla: “gialli fuori, bianchi dentro”, mettendo in contrapposizione i tratti somatici tipicamente asiatici e il background culturale occidentale.

Troppo orientali per essere italiane, troppo occidentalizzate per essere cinesi, qual è il posto per queste persone?

Non abbastanza italiana, non abbastanza cinese”

Valentina Wang. Foto di V.Wang

Ne abbiamo parlato con Valentina Wang, studentessa del terzo anno di Lingue, Culture e Società dell’Asia e dell’Africa Mediterranea all’Università Ca’ Foscari, che da qualche anno si impegna a fare informazione sui social, condividendo la sua esperienza e denunciando le ingiustizie che subisce.

Valentina è una cittadina italiana nata in Italia, mentre i suoi genitori sono nati e cresciuti per gran parte della loro vita nel Sud della Cina. Fin da piccola, Valentina ha notato che c’erano delle differenze tra la sua vita e quella dei suoi compagni di classe: “Per me era assolutamente normale tornare a casa da scuola alle 16 e fare i compiti fino a sera, oppure studiare di domenica o a Natale. Per i genitori dei miei amici invece era inconcepibile e si lamentavano con le maestre perché ritenevano che fosse troppo pesante per dei bambini. Non riuscivo a capire. I miei genitori mi hanno sempre spinta a lavorare duramente, a impegnarmi al massimo in tutto quello che facevo per avere un futuro migliore del loro. Il tempo libero non era contemplato.”

Valentina si è sempre sentita dire che era fortunata ad essere cresciuta in mezzo a due mondi, ma lei ha vissuto questa situazione con enorme frustrazione. “Non ho mai percepito l’appartenere a due culture così diverse tra loro come una ricchezza, al contrario per me è sempre stata una privazione della mia identità: trovarsi a metà è frustrante, qualsiasi scelta io faccia finisco per deludere qualcuno. Fino a un paio di anni fa, se decidevo di uscire il sabato sera ricevevo la disapprovazione dei miei genitori che non concepivano l’idea di divertimento. Se invece decidevo di restare a casa, ricevevo la disapprovazione dei miei amici, che non concepivano l’idea di passare un sabato sera in famiglia. Solo ultimamente ho imparato a vivere la mia vita con più serenità, magari uscendo al bar con i miei amici, ma ogni volta mi sembra di star tradendo i miei genitori. Mi irrita non sentirmi capita né dalla mia famiglia né dai miei amici, è una cosa che posso capire solo io”.

Da quando ha iniziato a scavare all’interno di se stessa per arrivare a comprendere la sua identità, Valentina ha scoperto che la questione è ben più complessa di quello che pensava: “Quando da piccola le persone mi dicevano, magari in buona fede, che per loro ero italiana, mi faceva piacere, probabilmente perché mi vergognavo delle mie origini cinesi. Crescendo, però, ha iniziato a darmi sempre più fastidio perché sembra che il mio bisogno di validazione e la ricerca della mia identità dipenda da come mi percepiscono gli altri e non da come io percepisco me stessa. Io al momento non mi sento né italiana né cinese, mi sento semplicemente non abbastanza. Non abbastanza cinese, non abbastanza italiana.”

Valentina non ha dovuto fare i conti solo con la sua identità, ma anche con una serie di ingiustizie. Fin dai primi anni di scuola è stata vittima di bullismo, i suoi compagni di classe la prendevano continuamente in giro per le sue origini. Ha anche sempre sentito il peso degli stereotipi: “Voi cinesi siete tutti uguali!”, “ma come fate a mangiare con le bacchette? Io non ce la farei mai”, “ ma è vero che non sapete pronunciare la lettera R?”. Con gli anni gli attacchi a sfondo razzista si sono fatti via via sempre più rari e Valentina ha iniziato a pensare che l’Italia si stesse finalmente abituando a una società multiculturale. Finché due anni fa non ha avuto la conferma che le cose non stanno esattamente così.

“Stavo aspettando il treno per tornare a casa alla stazione di Mestre. Dei ragazzini che avranno avuto al massimo 14-15 anni hanno iniziato ad importunarmi dicendomi frasi come “prova a pronunciare la lettera R, tanto non sei capace”. All’inizio ho deciso di ignorarli, forse per abitudine, ma una volta saliti sul treno si sono fatti sempre più insistenti e allora ho deciso di rispondere a tono. Al posto di smetterla, come avevo chiesto loro di fare, hanno continuato dicendomi non solo slur razzisti, ma anche misogini. Prima di scendere alla loro fermata, hanno pensato bene di sputarmi addosso.”

Il problema, però, non sta solo nel gesto, ma anche nell’indifferenza della gente. Valentina ci dice che “dei presenti, nessuno è intervenuto, nessuno mi ha dato una mano. Quando sono andata a denunciare il fatto al controllore del treno e alle autorità presenti, nessuno ha fatto niente. Addirittura alcune persone mi hanno detto che è stata colpa mia, che avrei dovuto semplicemente allontanarmi dalla carrozza. Solo quando ho deciso di condividere quello che mi è successo su Facebook e il mio caso è diventato noto sono stata contattata da chi di dovere per provare a risolvere il problema in qualche modo. Anche quando ero piccola il problema non veniva mai ritenuto abbastanza importante. Le maestre mi dicevano di lasciar perdere i miei compagni di classe che mi bullizzavano.”

Le piccole cose accumulandosi diventano un macigno”


Illustrazione di Nabeeha Anwar

Un’altra ragazza, che preferisce mantenere l’anonimato e che per questo chiameremo B, ha accettato di parlarci della sua esperienza. La storia di B e di Valentina sono in qualche modo simili: entrambe cittadine italiane nate qui, entrambe figlie di due culture opposte. Ma ogni storia ha le proprie unicità, e B ce lo dimostra.

“I miei genitori hanno lasciato Shanghai negli anni ’90 alla ricerca di un futuro migliore in Italia. Oltre alle valigie, hanno portato con loro anche la mentalità cinese. Sono sempre stati dei gran lavoratori e hanno sempre fatto il possibile per non farmi mancare niente, rifiutandosi spesso di appoggiare le mie scelte per fare di testa loro. Per esempio, non ho avuto la possibilità di scegliere l’indirizzo scolastico che volevo perché mio papà era convinto che non mi avrebbe portata da nessuna parte. A un certo punto mi sembrava che i miei genitori non fossero più i miei genitori, sembravano più degli impiegati che lavoravano per me. Crescendo ho capito che tutto quello che hanno fatto l’hanno fatto per il mio bene e mi sono resa conto che le loro scelte sono state giuste, ma quando ero più piccola era difficile. Ha gravato anche il fatto che fossi una femmina e che fossi figlia unica. Mio papà è sempre stato molto protettivo nei miei confronti e non capivo perché molte cose che faceva mio cugino io non le potessi fare. Mi veniva detto semplicemente che era perché ero una bambina, una ragazza.”

Anche per B la questione della propria identità non è stata una passeggiata. “Da piccola, se qualcuno mi avesse chiesto se mi sentissi più italiana o più cinese, avrei detto più italiana. Poi andando in Cina quasi ogni anno mi sono resa conto che volevo mantenere entrambe le culture, perché entrambe sono parte di me. Penso che sia la cultura italiana che la cultura cinese mi abbiano arricchita tanto come persona, mi hanno dato la possibilità di avere due prospettive diverse e questo mi ha permesso di comprendere le mie scelte. Queste culture, però, mi hanno anche fatto sentire diversa. Questa diversità mi ha accompagnata un po’ per tutta la mia vita: mi sentivo diversa in Italia, ma mi sentivo diversa anche in Cina. In questo momento direi che mi sento più vicina alla cultura cinese, ma ci sono comunque moltissime cose che non sento mie. Per esempio non sopporto quest’abitudine dei cinesi di parlare sempre di soldi.”

Purtroppo anche B, così come Valentina e molte altre, ha alcune esperienze spiacevoli da raccontarci. “Non ho mai subito gravi casi di discriminazione, ma le piccole cose accumulandosi diventano un macigno. Ero l’unica cinese a scuola e i miei compagni me lo facevano notare. All’inizio non ci facevo molto caso, ma più crescevo e più sentivo un peso dentro di me. Mi capita spesso che le persone guardandomi mi facciano versi strani, per esempio qualche tempo fa ero a cena fuori con dei parenti e degli amici, tutti cinesi, e qualcuno continuava a dirci “chin chun chan”. È un tipo di divertimento che non concepisco, non ha alcun senso, ma è sempre capace di rovinare un po’ la serata. Dopo lo scoppio del covid-19 la situazione è peggiorata. Quando tutto è iniziato io mi trovavo in Cina, ma quando sono tornata in Italia avevo paura di uscire di casa.”

Carlotta Favaro

foto di copertina: illustrazione di Nhung Lê

2 pensieri su “A metà tra Cina e Italia: un problema di identità e di ingiustizie

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