Fast fashion: il prezzo della moda low cost

Il termine “fast fashion” (letteralmente “moda veloce”) fu usato per la prima volta dal New York Times sul finire del 1989 per descrivere la filosofia del marchio spagnolo Zara, che in quel periodo stava aprendo i propri negozi negli Stati Uniti. La sua missione e il suo punto di forza consistevano nella rapidità con cui un prodotto passava dall’essere una semplice bozza disegnata sul taccuino dello stilista a un capo d’abbigliamento finito, esposto nelle vetrine e pronto per essere venduto: questione di pochi mesi, qualche settimana a volte. Da allora, i ritmi di questa nuova tipologia di moda non hanno fatto che aumentare. Al giorno d’oggi, alcuni marchi arrivano a immettere sul mercato 52 micro-collezioni all’anno. Vale a dire, mediamente una ogni sette giorni.

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Logica e filosofia della moda moderna

Affinché questi ritmi siano economicamente sostenibili per le aziende e, soprattutto, redditizi, è essenziale produrre a costi molto bassi e rivendere a prezzi altrettanto bassi, affinché l’offerta venga recepita dal pubblico e questo sia invogliato a comprare nuovi prodotti con la necessaria frequenza. Tale logica si sposa perfettamente con lo sfrenato consumismo della società moderna, la cui arma più potente è stata definita “obsolescenza programmata”, ovvero quella strategia di marketing per cui il ciclo di vita di un prodotto è fin dal principio limitato, in modo che questo diventi obsoleto e vecchio, oltre che fuori moda, in tempi predeterminati e il consumatore senta il bisogno di sostituirlo con qualcosa di nuovo e più recente. Questo è vero per la tecnologia, cellulari e computer in primis, ed è altrettanto vero per l’industria della moda. Gli acquirenti sono spinti a ritenere che ciò che già possiedono non sia più adeguato e al passo coi tempi e la bassa qualità dei materiali utilizzati fa sì che spesso un indumento non sopravviva oltre un certo numero di lavaggi. Su queste basi prospera il fast fashion, secondo il principio dello spendere poco e rinnovare frequentemente il proprio guardaroba, per potersi sempre vestire secondo le ultime tendenze.

Morire per la moda: cosa nascondono quelle t-shirt a 4,99€

Ritmi incessanti e prezzi contenuti inevitabilmente implicano la necessità di delocalizzare le fasi produttive verso Paesi in cui i costi del lavoro sono bassi e la legislazione più blanda o facilmente aggirabile. Bangladesh, India, Sri Lanka e Vietnam sono tra le mete predilette dall’industria tessile occidentale. La Cina, pur rimanendo la più grande esportatrice del settore a livello mondiale, ha iniziato ad arrancare negli ultimi anni proprio a causa dell’aumento dei costi del lavoro.

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Il caso del Bangladesh, in questo senso, è illuminante. Il 24 aprile 2013, il Rana Plaza, un grande edificio alla periferia di Dhaka, crollò. Oltre a banche e negozi, la struttura ospitava diverse fabbriche di abbigliamento, dove migliaia di operai, in maggioranza donne, producevano per marchi occidentali rinomati, quali Primark, Benetton e Mango. L’edificio, costruito ben tre piani più alto di quanto fosse stato progettato, aveva iniziato a dare chiari segni di problemi strutturali. Preoccupanti crepe di cinque centimetri di ampiezza si erano aperte sui muri, ma, alle richieste di intervento da parte delle lavoratrici allarmate, i proprietari avevano risposto che tutto era sotto controllo, obbligandole a continuare a lavorare dietro la minaccia di non essere pagate. Nel crollo morirono oltre 1100 persone.

Passato alla storia come il peggior disastro che abbia mai colpito l’industria tessile mondiale, la tragedia non fu comunque un evento isolato. Solo pochi mesi prima, nel novembre 2012, un incendio in un’altra fabbrica tessile di Dhaka (la Tazreen Fashion) aveva lasciato oltre 200 feriti e circa 120 vittime, che non erano riuscite a scappare a causa dell’inadeguatezza delle vie di fuga, molte delle quali si sospettò fossero chiuse a chiave per evitare allontanamenti durante le ore di lavoro.

Le proteste e l’indignazione che il dramma del Rana Plaza suscitò riuscirono inizialmente a portare a qualche passo avanti nelle condizioni di vita dei lavoratori. Se alla vigilia del crollo il salario medio di un operaio bengalese era di appena una trentina di euro al mese, questo fu aumentato a circa 78€, rimanendo comunque tra i più bassi a livello mondiale. Le condizioni di lavoro restano tutt’oggi precarie e gli operai continuano ad essere vittime di minacce e abusi da parte di supervisori e proprietari delle fabbriche, ancor più frequenti da quando hanno iniziato ad organizzarsi in sindacati e associazioni. Diverse donne hanno riportato di aver subito intimidazioni e ricevuto lavoro extra così che, nella logica dei supervisori, esse fossero troppo occupate per poter incontrare le altre colleghe. Un operaio ha addirittura rivelato di aver subito minacce di morte.

Nonostante la presenza di legislazioni nazionali più stringenti (la legge bengalese detta una settimana lavorativa di 40 ore e vieta più di 10 ore di lavoro al giorno) e codici di condotta imposti dagli stessi brand occidentali per migliorare la situazione degli operai, molto spesso la realtà quotidiana delle fabbriche, in Bangladesh come in India o Sri Lanka, è ancora lontana dal garantire condizioni di vita decorose per i lavoratori.

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Può il fast fashion essere ecosostenibile?

Esiste una contraddizione di fondo tra la filosofia del fast fashion e la sostenibilità da un punto di vista ecologico. Ogni fase del processo di produzione comporta un qualche impatto (negativo) sull’ambiente, che aumenta al crescere delle quantità coinvolte. Secondo diverse stime, l’industria tessile è responsabile di almeno il 5-10% delle emissioni totali di Co2 a livello globale. La produzione di indumenti richiede inoltre grandi quantità di acqua: gli impressionanti dati riportati dal World Resource Institute mostrano come la fabbricazione di una sola maglietta in cotone richieda 2700 litri di acqua, ovvero quanto un individuo beve in media in 2 anni e mezzo. Non solo: il 20% dell’inquinamento industriale delle fonti acquifere è causato dall’industria tessile e ogni anno cinque milioni di miliardi di acqua vengono utilizzati per il solo processo di tintura dei tessuti.

Sebbene questi numeri si riferiscano all’industria dell’abbigliamento nel suo insieme, essi fanno comunque riflettere su quale sia l’impatto reale che essa ha sull’ambiente. Tale consapevolezza ha, negli anni, portato alla nascita di diverse iniziative interessanti per tentare di invertire la tendenza, puntando su tecniche innovative e maggiore ricerca, su fonti di energia rinnovabili, sul riciclo dei tessuti e dei materiali, su uno sforzo di sensibilizzazione su vari livelli. Il Fair Fashion Center, ad esempio, riunisce diverse centinaia di aziende del mondo della moda per favorire la ricerca e un cambiamento dall’interno. Il Fashion Revolution Day, per contro, organizzato ogni anno il 24 aprile (anniversario del crollo del Rana Plaza), è una giornata di eventi a livello mondiale volti educare l’opinione pubblica ai temi della moda etica e sostenibile e a esortare i brand a maggiore trasparenza.

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Fonte: independent.co.uk 

Per una moda etica: meno “fast”, più responsabile

Fino al secolo scorso, gli indumenti venivano riparati e rattoppati più volte, passati di fratello in fratello prima di essere gettati. Ora, invece, molto spesso sono gli stessi marchi a eliminare i capi rimasti invenduti per poterli sostituire con nuove collezioni. Chiaramente, lo stile di vita odierno e le condizioni economiche attuali del cittadino medio occidentale sono ben diverse da quelle del primo Novecento. Possiamo certamente permetterci di disfarci di quel vecchio maglione sgualcito che abbiamo nell’armadio e comprarne di nuovi. Tuttavia, è bene essere consapevoli di quello che finanziamo quando entriamo in un negozio e, convinti di aver fatto un affare, ne usciamo con una nuova t-shirt pagata appena 4,99€. La soluzione, quindi, qual è? Smettere di comprare marchi low cost non significherebbe, come si domandano in molti, far perdere ai tanti operai dell’industria tessile dei Paesi più poveri del mondo un lavoro? Un calo delle vendite potrebbe implicare tagli alla produzione. Una risposta sta nel pretendere maggiore responsabilità dai marchi occidentali. Massimizzare i benefici per tutte le persone coinvolte nel processo di produzione e per i consumatori e, al contempo, minimizzare l’impatto ambientale è possibile, ma richiede un impegno profondo e continuativo. Una moda un po’ meno “fast”, forse, un po’ meno low cost, ma più giusta: una moda che rispetti il pianeta, nonché la dignità umana di chi per essa lavora.

Alessia Biondi

Fonte immagine di copertina: Spiegel Online.

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