Emarginazione e violenza, le voci di donne dalle periferie

Lo scorso 14 novembre WeWorld Onlus, organizzazione non governativa impegnata nella difesa dei diritti delle donne e nell’eliminazione della violenza di genere, con progetti attivi in Italia, Africa, Asia e Sud America, ha presentato a Roma, presso la Camera dei Deputati, i risultati di una ricerca condotta tra maggio e luglio 2018 in alcune periferie metropolitane italiane insieme ad Ipsos, con un focus specifico sulla condizione di vita, lavorativa e familiare, delle donne che abitano queste aree. La data non è casuale: di lì a pochi giorni si sarebbero infatti celebrate la Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (20 novembre), e la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne (25 novembre).

Come ricorda il presidente Marco Chiesara nell’introduzione al report finale “Voci di donne dalle periferie. Esclusione, violenza, partecipazione e famiglia”, “la violenza sulle donne è un fenomeno strutturale caratterizzato da trasversalità territoriale, generazionale e di appartenenza sociale”. Ciò significa che non è necessariamente connesso alle condizioni educative, economiche e sociali di “vittime”[1] e maltrattanti, come spesso si è portati a pensare.

A confermarlo sono i dati delle più importanti ricerche nazionali ed internazionali (WHO, 2013; ISTAT, 2014; FRA, 2014), che rilevano inoltre come la violenza venga esercitata per lo più tra le mura domestiche. Secondo l’OMS, si tratta di un problema di salute globale di proporzioni epidemiche” che colpisce il 35% delle donne nell’arco della loro vita. In Italia, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito qualche forma di violenza fisica o sessuale: come si legge nel comunicato stampa ISTAT (2014), “il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri”. E ancora: “I partner attuali o ex commettono le violenze più gravi. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Gli autori di molestie sessuali sono invece degli sconosciuti nella maggior parte dei casi (76,8%)”. Numeri che ribadiscono, qualora ce ne fosse bisogno, la pervasività di un fenomeno che è ampio e diffuso.

Tuttavia, condizioni economiche svantaggiate e livelli di istruzione medio bassi possono invece incidere sulle possibilità di intraprendere percorsi di fuoriuscita dalla violenza, talvolta persino di riconoscerla, soprattutto quando viene esercitata nelle sue forme più subdole e meno evidenti, com’è il caso della violenza economica e di quella psicologica. In alcuni casi, nemmeno le reti amicali e familiari sono in grado di comprendere e di fornire il supporto necessario.

“Mia mamma è soltanto contenta perché mi sono liberata di questa persona perché comunque si vedeva che proprio stabile non era e che non mi trattasse bene. Mio padre è ancora più complesso perché come uomo non riesce a capire perché io abbia allontanato il bambino dal padre, cosa che non è andata così, non l’ho allontanato io, sono state le circostanze, i giudici.”

37 interviste in profondità condotte a donne di età compressa tra i 16 e i 61 anni, di cui sette di origine non italiana, residenti a Milano Nord, San Basilio a Roma, Scampia a Napoli e Borgo Vecchio a Palermo, dove WeWorld Onlus ha avviato nel 2014 (più recentemente a Milano) il Programma d’intervento Spazio Donna, con l’obiettivo di fare da supporto ai centri antiviolenza e ai servizi territoriali nell’emersione e prevenzione della violenza contro le donne, nonché nell’interrompere la trasmissione intergenerazionale della violenza familiare sui bambini. Perché non possiamo dimenticare la violenza assistita, fenomeno spesso trascurato che vede più del 60% dei figli assistere alle violenze intrafamiliari: ogni anno 500.000 bambini sono oggetto di maltrattamenti e 145.000 sono vittime di violenza assistita (ISTAT 2014). Sul totale delle intervistate, 18 donne hanno dichiarato di aver vissuto nella loro vita una qualche forma di violenza, nella maggior parte dei casi proveniente dal partner e perpetrata di fronte ai figli, anche minorenni. Assistere o vivere direttamente la violenza sembrerebbe aumentare il rischio di divenirne a propria volta autori.

Dunque, è necessario lavorare per radicare l’idea che la violenza domestica si fonda sulla discriminazione di genere e su una cultura patriarcale che considera la donna proprietà e complemento maschili.

patriarcato non una di meno
foto tratta dalla pagina Facebook di Non Una di Meno

La condizione femminile che emerge dalla ricerca ci restituisce infatti uno spaccato poco felice: tra le donne sposate, permane una forte divisione dei ruoli di genere, fondata sullo stereotipo che la donna sarebbe “naturalmente” portata all’accudimento della prole, il livello di istruzione è medio basso, spesso “condizionato da una cultura fortemente discriminatoria nei confronti delle donne”, l’occupazione scarsa. Sulle donne pesa in maniera esclusiva e totalizzante la gestione domestica: solo un terzo delle intervistate lavora fuori casa, per la difficoltà di trovare un’occupazione stabile ma anche per lo scetticismo di riuscire a conciliarla con la cura della famiglia. “Durante il giorno sto a casa. Faccio la casalinga, porto i bambini a scuola, a calcetto, faccio la spesa. Questo è, diciamo, quello che faccio”, racconta Rita, sposata con tre figli. In molti casi, il compagno/marito breadwinner esercita vere e proprie forme di controllo sulle scelte lavorative della partner, e ciò si traduce tra l’altro in uno stato di dipendenza economica assoluta.

Infine, ad incidere sull’esclusione sociale delle donne considerate nel campione sono anche le condizioni degradate e le mancanze strutturali di queste periferie: in controtendenza rispetto ai discorsi politici e mediatici, a preoccuparle maggiormente non sono la sicurezza né l’immigrazione, ma la manutenzione degli spazi pubblici e del verde, la gestione dei rifiuti, la pulizia delle strade e l’isolamento fisico. L’opinione negativa del proprio quartiere può tradursi anche in un atteggiamento remissivo, di accettazione passiva e nel mancato accesso ai servizi, spesso presenti ma inutilizzati o poco conosciuti.

“Azioni quotidiane diventano impossibili e sono quelle che fanno la qualità della vita. per cui se anche una cosa semplice, quotidiana, normale deve essere una corsa diventa complicata e diventa faticosa da conseguire come obiettivo, ne va della qualità della vita”, ci dice Patrizia, 50 anni, sposata, due figlie.

24 novembre
Fonte: pagina Facebook di Non Una di Meno

Investire sull’empowerment femminile è fondamentale affinché le donne prendano consapevolezza delle proprie risorse e capacit-azioni. In questo senso, la presenza di figli spesso è la molla in grado di far scattare la reazione delle donne, ma gli esiti non sono scontati. E non dobbiamo stupircene, alla luce del modello familiare tradizionale ed eteropatriarcale che continua ad essere promosso. Immediatamente il pensiero corre al DDL Pillon, che ribadisce, in un’ottica del tutto adultocentrica, la necessità di garantire la bigenitorialità. Ma se il padre fosse un genitore maltrattante? Mediazione familiare obbligatoria – in aperto contrasto con la Convenzione di Istanbul del 2011, che ne proibisce l’obbligatorietà – e il riferimento alla sindrome di “alienazione parentale” sono strumenti di ricatto che inficiano lo spazio di manovra delle donne, costantemente minacciate di perdere la custodia dei figli. Dunque, meglio non separarsi.

Oppure aspettare che i figli crescano, tirando avanti e sopportando. Drammatico, se si considerano i dati diffusi dal Ministero dell’Interno e dalla Casa delle donne per non subire violenza di Bologna sul numero di femminicidi, che a differenza del numero degli omicidi di individui di sesso maschile, in calo, rimane costante. Nel 2016, in tre casi su quattro sono stati commessi in ambito familiare.

Martina Facincani

 

[1] Negli ambienti femministi si è progressivamente fatto strada, a partire dagli anni ’70, l’utilizzo del termine sopravvissuta al posto di vittima, perché più adatto a riconoscere il ruolo attivo esercitato da tutte le donne che lottano contro le violenze subite.

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