“Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”
Così recita l’articolo 27, comma 3 della Costituzione italiana. Rieducazione significa che, nel periodo che si passa in una struttura penitenziaria, il tempo deve essere impiegato in attività che permettano alle persone detenute di sentirsi in qualche modo utili alla società da cui sono estraniati e alla quale hanno creato dei “danni”. Rieducazione significa dare una nuova vera possibilità a chi ha già “consumato” la prima. Ma come si fa? Con l’istruzione, con attività culturali o sportive, con il lavoro.
L’ordinamento penitenziario in materia di lavoro

L’ordinamento penitenziario italiano considera il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurata un’occupazione lavorativa (art. 15 o. p.). Il lavoro in un istituto penitenziario dovrebbe avere una serie di caratteristiche: carattere non afflittivo, remunerato alla quantità e qualità del lavoro prestato in misura pari ai due terzi del trattamento economico dei contratti collettivi, previsione di un certo tipo di accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali tramite l’amministrazione penitenziaria. Un altro aspetto importante è il fatto che le modalità e l’organizzazione del lavoro penitenziario devono riflettere quelle del lavoro nella società libera per far acquisire una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative e favorire il reinserimento sociale dei soggetti.
Ma che possibilità ci sono di lavorare? Esiste il lavoro intramurario (all’interno delle mura carcerarie) e quello extramurario (all’esterno del carcere).
Della prima categoria fanno parte sia il lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria sia quello alle dipendenze di terzi. Per l’amministrazione si svolgono tanti tipi di attività, qualificate e non. In particolare ci sono tre tipologie: le lavorazioni per commesse dell’amministrazione stessa, vale a dire la produzione di quello che serve per tutti gli istituti penitenziari come vestiario, corredo, arredi; i lavori delle colonie e dei tenimenti agricoli vicini alle aree di detenzione; i cd. lavori domestici, ovvero servizi d’istituto (cuochi, addetti alla lavanderia,…), servizi di manutenzione ordinaria dei fabbricati assegnati a detenuti con particolari qualifiche anche acquisite durante il periodo di reclusione (elettricisti, idraulici,…); infine, mansioni esclusive dell’ambiente penitenziario come lo scrivano (addetto alla compilazione di istanze di altri detenuti) e l’addetto alla distribuzione pasti.
Il lavoro intramurario alle dipendenze di terzi riguarda per lo più cooperative sociali o anche imprese che stipulano convenzioni con l’amministrazione penitenziaria. Il rapporto di lavoro con i detenuti è gestito direttamente tra “lavoranti”, come vengono chiamati i detenuti che lavorano, e impresa/cooperativa.
Esiste anche il lavoro esterno al carcere regolato dall’art. 21 o.p. Non tutti possono essere ammessi: la procedura coinvolge il direttore dell’Istituto penitenziario e il magistrato di sorveglianza, inoltre ci sono particolari requisiti per i tempi di reclusione e di reati commessi. In questa categoria lavorativa rientrano ad esempio i lavori di pubblica utilità.
Un po’ di dati…
Anche se il nostro ordinamento vorrebbe assicurare la possibilità di lavorare a chi è detenuto, di fatto un solo detenuto su 3 ha un lavoro, secondo quanto evidenzia il XIV rapporto Antigone, basato su un’indagine svolta in 86 carceri italiane su 190.
Indubbiamente negli anni il numero dei lavoranti è cresciuto: dai 10.902 del 1991 ai 17.936 del giugno 2018, distribuiti omogeneamente sul territorio italiano, ma rimanendo circa il 30% sul totale dei detenuti.
Un dato preoccupante è che la quasi totalità (87,22%) dei lavoranti sono alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (A.P.) e quindi questo non dà loro una formazione che possa essere spesa fuori dall’ambiente del carcere, soprattutto dato che la maggior parte di chi lavora nell’A.P. svolge lavori domestici, anche se sono stati potenziate le lavorazioni per commesse.
Per lo svolgimento dei lavori che non richiedono particolari competenze tecniche, i detenuti vengono scelti in base alla durata della pena, dei figli a carico, della condizione economica. Per permettere a più persone possibili di avere una mansione, le ore di lavoro per “lavorante” vengono ridotte a brevi periodi o poche ore settimanali.
Il lavoro per cooperative e imprese

Il numero di persone che lavorano per soggetti diversi dall’A.P. sono aumentate passando dall’11,81% del 1991 al 12,78% del giugno 2018, ma con un lieve calo rispetto al dato del 2017 (13,48%). Rispetto al lavoro gestito dall’amministrazione penitenziaria quello retribuito e organizzato da soggetti esterni crea un ponte tra carcere e società, e fa svolgere ai detenuti attività lavorative richieste dal mercato. Questo collegamento fa fatica a crearsi nonostante i tentativi di potenziare queste relazioni con gli incentivi economici della legge Smuraglia (l. 193/2000) e protocolli per la realizzazione di attività produttiva nelle carceri.
Alla fine del 2017 tra i lavoranti per soggetti diversi dall’A.P. c’erano 765 detenuti in art. 21, 246 alle dipendenze di imprese e 703 di cooperative. Questi detenuti non sono ripartiti nello stesso modo nelle diverse aree geografiche: al Centro, nelle Isole e al Sud sono in pochi a lavorare per soggetti esterni, mentre al Nord c’è una particolare concentrazione in Regioni come Veneto e Lombardia. Questa importante differenza è dovuta anche alla distribuzione dei contributi della legge Smuraglia: maggiori al Centro-Nord rispetto al Sud.
Cooperative e imprese che entrano in carcere

Molte sono le cooperative che entrano in carcere, attive in progetti e iniziative diverse a seconda dell’area geografica e delle tradizioni locali. Ce ne sono che lavorano nel settore alimentare, in quello agricolo, nella riparazione di alcuni strumenti di uso quotidiano come macchine da caffè, nella produzione di oggetti di pubblica utilità come le lampade per l’illuminazione stradale, oppure esistono redazioni “dal carcere”.
La cooperativa Sprigioniamo Sapori collabora con alcuni istituti penitenziari della Sicilia tra cui la Casa circondariale di Ragusa, e ha costituito un laboratorio di torroni e altri prodotti dolciari a base di mandorla, pistacchio e nocciola. Utilizza materie prime che vengono dall’agricoltura biologica, valorizzando le eccellenze del territorio. Oltre a questa attenzione per quello che viene fatto, viene riservata una particolare cura anche al percorso personale di tutti i detenuti che vengono coinvolti nel progetto, permettendo un loro futuro inserimento nel mondo del lavoro.
Passando al centro della penisola un’esperienza interessante è quella del Progetto Gorgona. Il nome di questa attività viene dall’isola-penitenziario che si trova nell’arcipelago toscano in provincia di Livorno dove, nell’agosto 2012, è nata una collaborazione tra Frescobaldi, un’azienda vitivinicola e l’amministrazione penitenziaria. Grazie a questo progetto, i detenuti trascorrono l’ultimo periodo di pena lavorando a contatto con la natura per sviluppare professionalità nel campo della viticoltura con la collaborazione e la supervisione degli agronomi ed enologi. Lo sviluppo di queste competenze ha lo scopo di facilitare il reinserimento nella realtà lavorativa e sociale, una volta “esaurita” la pena.
L’ultimo esempio riguarda la Cooperativa Rio Terà dei Pensieri che collabora con l’A.P. del Carcere femminile della Giudecca e di quello maschile di Santa Maria Maggiore. Le attività che vengono portate avanti sono un laboratorio di serigrafia, con la produzione di stampe su tessuto, uno di PVC riciclato, con cui vengono realizzate borse e accessori, un laboratorio di cosmetica e un orto biologico. I primi due sono realizzati nell’istituto penitenziario maschile, gli altri alla Giudecca. Ognuna di queste attività è attenta all’ambiente e alla provenienza delle materie prime.
Cosa significa poter fare un’esperienza lavorativa per chi si trova in carcere a scontare una pena? “La voglia di incominciare ad essere più attiva l’ho avuta per cercare di far stare meno male i miei, dice una ex detenuta, Ho frequentato il corso e dopo tre mesi ho iniziato a lavorare nel laboratorio di cosmetica. [Qui] piano piano sono riusciti a farmi tornare il sorriso. [Lezione dopo lezione] sono riuscita a fare un prodotto da sola. Ho detto Volendo qualcosa di buono riesco a farlo! Riesco a fare qualcosa, riesco a sentirmi meglio.”
Un altro ex detenuto racconta: “La svolta è stato il lavoro all’interno del laboratorio [di serigrafia]. È un lavoro creativo, vedi il risultato di quello che fai e ti da anche una grandissima soddisfazione. […] Ho deciso di affrontare la mia pena, tutta quanta. Questa presa di coscienza è dovuta anche alla possibilità di lavorare. Mi ha dato la forza di credere di nuovo in me stesso e di cercare di ricominciare.”
Una grande opportunità ma riservata a pochi
Molto interessante è vedere quali e quante sono le opportunità di lavoro che permettono un reinserimento sociale di chi è stato detenuto per un certo periodo, che diminuiscono la recidiva, cioè il ritorno in carcere. Triste è essere consapevoli dai dati del Ministero della Giustizia e in particolare del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) che questa possibilità arriva a un terzo dei detenuti e che solo un 13% di chi lavora lo fa per un ente esterno, con un’attività che possa portare a un vero e proprio reinserimento sociale. Infatti, dai racconti di ex detenuti che hanno avuto la possibilità di lavorare traspare l’idea di essere stati fortunati.
Erica Torresan
Fonte immagine di copertina: il laboratorio di pasticceria Giotto del carcere di Padova in una fotografia di PadovaOggi.
Questo articolo è parte del Project Work che Erica, studentessa del corso di laurea in Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani dell’Università degli Studi di Padova, sta svolgendo presso la redazione di The Bottom Up.