Che (teatro) fare? Il Festival 20 30 salta nel vuoto

Cosa? Come? Dove? Per chi? Perché?

Sono domande inevase sul teatro, che pochi hanno il coraggio di fare e di farsi. Ma tra i pochi, i giovani tra i venti e i trent’anni del festival di teatro bolognese.

Giovedì, dentro un piccolo portone di via delle Moline (a Bologna), si apre un grande sipario su artisti e spettatori, intenti a riflettere sul futuro del teatro.

Il Teatro delle Moline diventa una tavola rotonda, le luci da palcoscenico sono accese ma non c’è né palco né platea: attori, critici, passanti e curiosi seduti in cerchio.

Abbiamo rotto la quarta parete, tanto per cominciare.

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L’incontro comincia e Lorenzo Donati di Altre Velocità racconta, citando un titolo di Francesco Targhetta, che oggi veniamo bene in fotografia. Ci autorappresentiamo e ci autodipingiamo. Se un tempo il teatro parlava del mondo, ora parla dell’Io, che, seppur particolare, si allarga sempre più.

Questo Io si mette in discussione? Prima o poi, dovrà approdare ad un Noi? La prima edizione del festival, secondo Nicola Borghesi che la diresse nel 2014, fu “solitaria” e la percezione era di freddo. In quattro anni si può dire di essere diventati un Noi, di essersi scongelati in una sorta di tepore in cui tanti Io si sono avvicinati senza sciogliersi.

Dal freddo al caldo, dal mondo alI’Io, dall’Io al Noi, e gli altri?

Interviene la Konsulta di Modena, un gruppo di giovani spettatori attivi, con la soluzione: un teatro che esce dal Noi e incontra gli altri è un teatro in città, nei parchi, nelle strade. Insomma un teatro fuori dal teatro.

E piano piano, oltre alla quarta parete, si smontano la terza, la seconda e la prima, e il teatro trasforma il suo spazio.

Il suo spazio e il suo tempo: il “qui e ora” è ormai un cliché. La vita di tutti i giorni è tutto e subito, immediata, non-mediata, senza schemi e senza filtri. La necessità teatrale diventa quindi di essere filtri corporei e sonori della realtà. Non può essere soltanto un autoaffresco generazionale, che ci ritrae in un solo momento, fisso.

Un attimo fotografato, dipinto, segnato

E quello dopo perduto via

Senza nemmeno voler sapere come sarebbe stata

La sua fotografia
Ivano Fossati

Auguriamoci di vivere nel presente, certo, ma in un presente storico.

Giovanni Ortoleva, regista teatrale e drammaturgo, nonché collaboratore di The Bottom Up, ha parlato dell’importanza di reiserirsi in un percorso e in un contesto storico, a cui ci sentiamo estranei. Proprio in forza di questa riconquistata storicità possiamo riprodurre i classici, non pedissequamente, ma riconoscendoci in essi.

Il festival 20 30 fa memoria, dunque, ma salta nel vuoto.

Dopo la “Catastrofe” del 2017, “Salto nel vuoto” è il tema di questa edizione. Il vuoto è la dimensione di oggi, e questo non ci va giù. Le Avanguardie 20 30 decidono invece di abitare questo vuoto, di imparare ad ascoltarlo, ad accoglierlo. Scrivono: “Ma ora, se dobbiamo schiantarci, tanto vale goderci il volo.”

Diamoci il tempo di occupare il vuoto, diamo tempo al tempo.

Camille Pelicier, della Comedie de Reims, ci racconta l’esperimento di costruire uno spettacolo sul tempo ad episodi, non assimilandolo a qualsiasi telenovelas, ma cercando di farlo respirare.

Un teatro che vive nella consuetudine, dunque, come la Volpe che torna dal suo Piccolo Principe ogni giorno alle tre. La necessità teatrale è di stare nelle maglie della relazione, ma anche nelle maglie del conflitto, nelle maglie dell’irrisolto.

Nove: almeno una produzione per stagione deve essere ripetuta o eseguita in una zona di conflitto o di guerra, senza alcuna infrastruttura culturale.

Parla chiaro il penultimo punto del Manifesto di Gent, decalogo normativo e provocatorio sul teatro pubblicato da Milo Rau a maggio scorso. Ce lo ha letto Daniele Turconi, che sostiene un teatro coraggioso, che “scaglia fulmini”, che ci fa agire e progredire.

Uno: non si tratta più soltanto di ritrarre il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa.

Non è solo rappresentazione, è anche realtà.

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Il teatro può essere un grande contenitore di realtà, forse il più grande e neutro tra le arti. Giovanni Ortoleva sostiene che esso stesso possa assumere preponderanza in un ottica di contaminazione e commistione tra le arti, proprio per questa sua malleabilità.

Teatro è più della semplice rappresentazione, più degli attori sul palco e della sceneggiatura. È l’educazione allo sguardo di Agnese Doria, che si occupa di laboratori e di formazione ad essere spettatori con bambini e ragazzi dai 6 ai 19 anni. Se si chiede ad un bambino cosa gli è piaciuto di più, risponderà che il lampadario del teatro era bellissimo, o che gli è piaciuto il viaggio in autobus. Intorno allo spettacolo c’è un alone, una strada che ci porta lì.

C’è un effetto “risonanza”, “come un cuore caldo in modalità di scatto”, scrive una piccola partecipante del laboratorio, di nome Ambra.

E questa risonanza, quest’eco è la mediazione che il presente immediato non offre.

Il teatro sta nel presente, ma vuole essere strabico, un occhio al passato ed uno al futuro.

“E anche quando credete di star guardando lontano, guardate ancor più lontano”. B. P.

Rebecca Neri

 

Un pensiero su “Che (teatro) fare? Il Festival 20 30 salta nel vuoto

  1. Buongiornissimo Maragoni,

    Il sole splende alto là fuori (beh più o meno) e io ti inoltro il pezzo di Tbu sul teatro di cui ti parlavo ieri. l’ho letto velocemente e non è che c’abbia proprio capito un granché, ma confido che il tuo essere del settore aiuti

    M

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