Among the Believers è un racconto corale di quello che è il Pakistan di oggi e degli ultimi dieci anni.
Diretto da Mohammed Naqvi (autore di diversi documentari tra i quali Pakistan Hidden Shame, Shabeena’s Quest, Terror’s Children) e da Hemal Trivedi (Outlawed in Pakistan, Saving Face, Flying on One Engine) che ne è anche la produttrice, il film ha conquistato numerosi premi tra festival cinematografici internazionali come l’ALBA Human Rights Film Fest, CPH:DOX e l’Hollywood Film Festival.
Un racconto, dicevamo, che si dipana davanti a noi soprattutto attraverso le parole di quattro testimoni privilegiati: Talha, Zarina, Abdul Aziz e il dottor Pervez Hoodbhoy. Due bambini e due adulti, quattro punti di vista diversi per mondi che ci appaiono lontanissimi fra loro ma che condividono la realtà di uno stesso Paese.
Gli importanti eventi internazionali – l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la guerra al terrore, gli attacchi alle Torri gemelle – e i grandi protagonisti dello scacchiere geopolitico – Osama Bin Laden, George W. Bush, Pervez Musharraf – si mescolano e vengono diluiti nella quotidianità degli abitanti del Paese sconvolto dal fondamentalismo religioso.

Al centro del film troviamo le vicende riguardanti la Moschea Rossa di Islamabad e il movimento religioso che vi cresce al suo interno, un movimento che può vantare una rete di 30 succursali e che si occupa dell’educazione di 10mila ragazzi e ragazze. Aziz ne è la guida, Hoodbhoy vi si oppone, Talha vorrebbe farne parte mentre Zarina è riuscita ad abbandonarlo. Ma il contesto che viene descritto è molto più complicato e in breve capiamo che non si possono ridurre questi nomi a un elenco di figure stereotipate, a degli attori dai ruoli rigidamente fissati. Il più grande merito dei registi, e del taglio che hanno deciso di dare alla loro opera, è proprio quello di non accontentarsi di una narrazione astratta, bensì intuiamo la loro esigenza di parlarci del Pakistan e dei suoi abitanti, un Paese segnato dai continui colpi di stato e da governi democratici fiaccati dalla corruzione e dalla impreparazione. Dove la povertà opprimente si somma alla difficoltà di accesso al sistema educativo, così come l’elevato numero di nascite (22 per ogni 1000 abitanti contro gli 8,7 dell’Italia) va di pari passo con l’alto tasso di mortalità infantile (53,9 morti ogni 1000 nati vivi, contro i 3,3 dell’Italia).

Ed ecco quindi che le grandi adunate, le preghiere di massa, le battaglie fra esercito e studenti coranici, che pure ci vengono mostrate, si scompongono in tanti frammenti, fino a quando la telecamera non concentra le inquadrature, per cogliere una singola storia. E così conosciamo il mondo delle bambine costrette a sposarsi troppo precocemente, dei capi-villaggio che lottano per tenere aperte delle scuole dove ragazzi e ragazze studiano assieme, dei genitori che affidano alle madrasse (gli istituti di teologia islamica dove si impara a memoria il Corano) i loro figli nel tentativo di strapparli a un destino di povertà e di fame. I registi – Hemal Trivedi e Mohammed Naqvi – non offrono eccessive interpretazioni o spiegazioni a queste storie, ma lasciano che sia lo spettatore stesso ad intuire i collegamenti e le causalità che ne costituiscono le fondamenta. Tanti spaccati di umana disperazione, da cui traggono linfa vitale le madrasse e il movimento di Aziz. Sfuggite totalmente al controllo statale, l’educazione che vi viene impartita è infatti indirizzata esclusivamente verso l’apprendimento mnemonico dei versetti del Corano. Chi vi risiede non può essere definito un ospite ma non riusciamo neanche a considerarli del tutto come dei prigionieri, i giovani studenti finiscono così con l’apparire come compressi e soffocati in una specie di Sindrome di Stoccolma collettiva. Percepiamo il rigido regime di reclusione autoimposta che vige tra le mura di questi istituti religioso come la forza che genera l’autentico e inquietante scollamento col mondo esterno. È preoccupante rendersi conto che questa nuova generazione di donne e uomini musulmani, prodotto di decenni di lotte intestine e di intromissioni esterne, viene addestrata all’odio, immersa in un clima di violenza perpetua che, come ammette uno degli intervistati: “Li formerà per la vita”.
Si riesce a sorridere solo quando, in un breve tentativo di restare connessi alla normalità, gli studenti sbirciano in televisione la partita di cricket della nazionale pakistana dove gioca il loro campione preferito. Among the Believers è un documentario che offre allo spettatore occidentale molte spiegazioni e un prezioso spaccato della società musulmana e pakistana, un contributo ancora più lodevole se pensiamo che i registi sono riusciti a raccogliere la voce non solo di leader religiosi e della società civile, ma anche il punto di vista di bambine e bambini. Al contempo è un film che non riesce (o non vuole) a offrire delle soluzioni concrete per superare la crisi che attraversa da anni il Pakistan. Troppo flebile ci pare la protesta del dottor Hoodbhoy di fronte alle disumane giustificazioni che Aziz tenta di accampare per il massacro di 141 bambini in una scuola di Peshawar. E questo inevitabilmente lascia amareggiati e preoccupati.
Marco Colombo