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“Questo è il mio nome”: il viaggio dei rifugiati a teatro

“Forse il teatro può ancora parlare al cuore dello spettatore e non soltanto al sentire cognitivo, forse il teatro è un rito antico dove gli uomini si incontrano ancora e di questo abbiamo bisogno, di andare al cuore, di incontrare l’altro” per questa ragione proprio il palcoscenico è il luogo ideale per incontrare il migrante: spesso considerato vittima, o peso, mai o quasi essere umano. Monica Morini e Bernardino Bonzani, della compagnia il Teatro dell’Orsa, sono i promotori del laboratorio teatrale avviato circa due anni fa su sollecitazione della cooperativa Dimora d’Abramo, capofila della gestione del progetto Sprar in provincia di Reggio Emilia e che ha coinvolto un gruppo di richiedenti asilo provenienti da Senegal, Costa d’Avorio, Mali, Nigeria e Gambia. L’obiettivo del laboratorio voleva essere promuovere l’integrazione attraverso attività di socializzazione e di espressione grazie al teatro. Non avrebbero mai immaginato che, due anni dopo, il laboratorio si sarebbe trasformato in uno spettacolo dal titolo Questo è il mio nome e che avrebbero conquistato anche il Premio del Pubblico al Festival di Resistenza, Premio Museo Cervi – Teatro della Memoria.

teatro dell'orsa questo è il mio nome

Monica e Bernardino ci raccontano che, inizialmente, il laboratorio era più un’opportunità che loro hanno scelto di cogliere per poter incontrare e conoscere queste persone in un contesto del tutto particolare come il teatro. “Fin dall’inizio ci siamo resi conto che questo incontro di umanità era una grande ricchezza, quasi un privilegio.” È emersa una forte curiosità da parte dei ragazzi, anche se nessuno aveva le idee veramente chiare su che strada avrebbe preso il laboratorio. Fondamentale è stato il “gioco della fiducia”, un esercizio silenzioso fondato sullo scambio di sguardi che ha aiutato ad abbattere i muri. Si è trattato di un momento così intenso che Ogochukwu Aninye, Djibril Cheickna Dembélé, Ousmane Coulibaly, Ezekiel Ebhodaghe, Lamin Singhateh oggi lo replicano all’inizio di ogni rappresentazione di Questo è il mio nome.

monica morini e bernardino bonzino questo è il mio nome

Come hanno reagito i ragazzi all’inizio e durante il progetto? Quali sono stati gli ostacoli più duri da superare? E una volta sul palco qualcosa è cambiato?

All’inizio abbiamo avuto 20 partecipanti che spontaneamente hanno scelto di fare il laboratorio teatrale. Parlavamo in francese e inglese, in più il mediatore culturale, preziosissimo, ci aiutava anche con le lingue africane. Con queste persone siamo approdati in tre mesi a una prima prova aperta, non proprio uno spettacolo, ma una dimostrazione di lavoro davanti a un pubblico. Anche noi eravamo in scena, per guidarli e accompagnarli nella performance. Il nostro metodo non mirava a ottenere necessariamente qualcosa di performativo, sollecitava memorie, semplici racconti, tutti, tranne qualcuno che poi ha scelto di finire lì il proprio percorso con noi,  tutti,  dicevamo hanno compreso dove volevamo andare e ci hanno dato fiducia. Poi sul palco, davanti al pubblico, è scattata la scintilla che ha fatto fluire l’energia e la potenza che ha sorpreso tutti.

Dalla prova ad un vero e proprio spettacolo teatrale. Quali sono le domande e le esigenze che hanno generato la scrittura scenica?

Si è scelto di non partire dalle ferite del viaggio che li ha portati in Italia né dai momenti più duri che li hanno spinti a partire. Al contrario, i giorni felici, l’infanzia, le tradizioni cui sono legati sono stati i primi argomenti di confronto con il fine di rivitalizzare quel sapere condiviso che nelle Questure di tutto il mondo viene necessariamente appiattito in una serie di moduli da compilare. Tutto ciò sulla scena galleggia, portando alla luce il patrimonio incandescente di queste vite umane.

attori richiedenti asilo questo è il mio nome

Che ruolo hanno avuto i ragazzi nella strutturazione dello spettacolo?

Dopo le prime prove aperte con il pubblico, sono rimasti quelli che di più credevano nel progetto ed erano disposti ad impegnarsi fino in fondo. Con loro abbiamo affrontato un intenso periodo di prove in teatro, prove che portavano progressivamente alla creazione e alla stesura dello spettacolo. Noi proponevamo temi, quadri, movimenti scenici, ma spesso i ragazzi stessi attraverso un gioco di memorie, di canti e di storie, ci suggerivano le scelte. Questo abbiamo cercato di realizzarlo attraverso soprattutto il piacere e il divertimento del “fare teatro”, cosa che ha alleggerito l’impegno e ha creato un gruppo che sta bene insieme, si rispetta e si sostiene a vicenda, nonostante le differenze di provenienza, lingua, etnia e religione.

A proposito di inaspettati punti di incontro tra culture differenti, come è venuta l’idea di far cantare “Mamma mia dammi cento lire” e qual è il messaggio che vuole veicolare?

Ci raccontavano delle loro partenze e il nostro pensiero non poteva non andare a quei migranti italiani che quasi un secolo prima avevano vissuto la stessa odissea verso un futuro che essi speravano migliore, lo abbiamo raccontato a loro, abbiamo fatto sentire la canzone ed Ezekiel che ama imparare canzoni italiane a memoria si è subito offerto di cantarla. L’effetto per il pubblico è straniante, anche per la verità che sanno portare gli interpreti.

questo è il mio nome una scena

Spesso le storie del viaggio migrante raccolgono momenti fortemente drammatici e non sono rari i traumi per i ragazzi, come vi siete relazionati con ciò? Come avete scelto di replicare le storie non solo a parole, ma anche con i gesti e i movimenti del corpo?

Non abbiamo chiesto di raccontare i momenti drammatici che tutti hanno vissuto sulla propria pelle, guerre, conflitti, perdite, umiliazioni. I racconti sono arrivati a poco a poco, a volte come una confidenza, a volte in modo aperto. Sapevamo di non voler farne un uso strumentale per costruirci sopra lo spettacolo, alcuni racconti sono venuti in modo organico, così come il senso che sottendono i gesti e i movimenti del corpo, corali e non. A quel punto voleva dire che era il momento per comunicarli, per dire quello, anche a nome di coloro che si trovano sepolti nel Mare Mediterraneo.

Presentando lo spettacolo si fa riferimento alla necessità di riscoprire la legge dell’ospitalità. L’ospite è diventato un potenziale nemico, qual è, a vostro avviso, la ricetta giusta per ribaltare nuovamente la prospettiva?

Gli argomenti possono davvero essere tanti, a cominciare dal fatto che il fenomeno dell’immigrazione non si fermerà e quindi ci riguarderà molto da vicino per molto tempo, e imparare a convivere può essere solo un vantaggio. Forse la “ricetta” è soprattutto culturale e ha molti fronti dove giocarsi, ma più di tutto con i giovanissimi, più disponibili al dialogo e a incontrare l’altro, perché è solo dall’incontro che può nascere un cambio di prospettiva.

Un cambio di prospettiva che, in Italia soprattutto, trova nel teatro un potente alleato. Sono diverse le esperienze artistico-culturali che oggi in Italia promuovono un’idea di accoglienza e dialogo oltre barriere e confini. Perché sono l’arte e il teatro ad aver assunto il ruolo sociale di abbattitore di muri?

L’arte e il teatro permettono di ritrovare e riconoscere la bellezza.  La bellezza di queste persone abbaglia: hanno forza, dignità, riconoscenza. Sono forti, tanto forti, ciò li ha fatti sopravvivere nonostante tutto. Stanno a braccia aperte, pronti a fare, a ricominciare senza lamentarsi, a dare un contributo. L’energia che portano fa bene a noi tutti, scuote da torpori e false idee di felicità. Ci ricorda perché viviamo.

Angela Caporale

@puntoevirgola_

Le immagini sono gentilmente concesse da Teatro dell’Orsa.

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