Chiedi chi era Tim Duncan

Il resto è silenzio

Amleto
, V, II

Lo sport, oltre che essere un discreto travaso di sudore e una forma sottaciuta di spreco dei bacini idrici tramite bibite e docce, ha a che fare con i modelli. Da qualche parte lessi che il rock’n’roll è puro mito e che la “realtà”, semplicemente, non esiste. Questi aforismi tornano in mente, se penso a Tim Duncan. Perché se giochi in quella che è la lega professionistica che a livello globale più si è riadattata a palcoscenico, il tuo concetto di realtà non può essere lo stesso che ho io. Cosa distingue la realtà dal resto? Un argomento scettico che ha fatto la fortuna di molti filosofi e che Descartes ha risolto solo facendo appello a Dio cosa c’entra con Tim Duncan? Calma, non c’è fretta.

Lo sport, dicevo, offre dei modelli. Un musicista, se si ha un po’ di onestà con se stesso, non potrà mai essere un vero modello di vita. Certo, alcune vicende umane degli artisti sono vicinissime e quasi consustanziali alla loro opera. Penso a John Grant o, dall’altro lato dello stesso arcobaleno, a qualche bluesman del Mississippi di inizio Novecento. Ma credo che sia quel ‘quasi’ che frega definitivamente la categoria degli artisti. Ogni sera, sul palco, ricreano lo stesso sogno, che in precedenza è stato sezionato, esaminato, ricomposto, abbellito in qualche studio di registrazione.

Uno sportivo è diverso? Proviamo a dir di sì: la parte manifestamente finta è altrettanto finta, finché parliamo di superstar mondiali. La parte vera, beh, quella non può che essere improvvisata, davanti a tutti, per quanto ci sia un accurato lavoro preliminare. Ha solo due fondamentali differenze rispetto a tutto quello che può capitare a un musicista sul palco: primo, non c’è una scaletta; secondo, c’è un numero uguale di altri tizi che faranno le stesse cose che farai tu per ottenere un risultato migliore del tuo.

Competizione, agonismo. Kobe Bryant, che si è ritirato quest’anno, dopo averlo annunciato dodici mesi prima, è stato uno dei più grandi agonisti in questo senso. In particolare, ancor più di Jordan, aveva (che strana sensazione lascia questo imperfetto…) un pungolo personale rispetto a tutta la faccenda. Era lui a giocare. Sì, certo, in campo c’erano altri quattro sempre in gialloviola, ma lasciate perdere.

tim duncan

Tornando ai modelli, provo a fare un esempio.

Tim Duncan, innanzitutto, per timore reverenziale lo chiamerò sempre per nome e cognome. Venerando e terrificante, come l’anziano Parmenide per Socrate. E anzi, quest’espressione omerica riciclata da Platone hanno stratificazioni fertili. Il termine che traduciamo con “venerando” deriva in realtà dal tema della parola “vergogna” (aidòs) e, in secondo luogo, il “terrificante” (deinòs) lo capiamo grazie all’inglese terrific confrontato con il lemma italiano, ambivalente nel suo significare una cosa tanto imponente o a causa del suo esser bella, al contrario, del suo essere tremenda.
Tim Duncan era così: altissimo, muscoloso ma dalle proporzioni eleganti, con gli occhi grandissimi e raramente accesi da un’emozione; complessivamente tale da incutere un rispetto che più che sfociare nella “venerazione” nasce dal sentirsi sminuiti al cospetto dell’altro. In questo modo, all’occorrenza si può essere rassicurati o intimoriti dalle stesse qualità. E infatti Tim Duncan ha capito tanto tempo fa che il silenzio mette l’interlocutore davanti al più atroce dei dubbi pratici. Il silenzio fa sì che tu non possa rispondere a una domanda che non ti è stata posta – e allora apro la bocca prima io così certifico di essere il più stupido tra i due?

Ecco, questo è un modo in cui Tim Duncan può averci insegnato qualcosa. Niente trash talking, niente punzecchiature infantili. Questo, attenzione, non significa che a volte non gli sia scappata qualche serena stronzata (“FIBA sucks“, dopo l’eliminazione degli USA ad alle Olimpiadi di Atene, a seguito di una partita in cui – pacificamente – gli furono sanzionati un po’ troppi falli tutto sommato veniali). Ma quello che conta è il viaggio – ipse dixit – non la destinazione. Certo, quando hai vinto quello che ha vinto lui e battuto i record che ha silenziosamente superato lui, risulta un po’ più facile dirlo. Ma anche nelle vittorie Tim Duncan è stato misurato. Le emozioni erano semplicemente nascoste, come durante la sanguinosa sconfitta in finale nel 2013 con gli Heat: l’amarezza mise il primo mattone per la vittoria dell’anno successivo.

Nascondere, però, non è sempre da intendersi in senso deteriore. Non tutto va mostrato. Una roccaforte interiore animata e attiva è quella che il numero 21 ha voluto costruirsi e proteggere. “La gioia profonda ha più severità che gaiezza”, diceva un altro uomo che si barcamenava con sofferenza tra facciata pubblica (nel suo caso, la politica) e vita interiore. Non occorre aver letto Montaigne o gli stoici per capire Tim Duncan, ma può aiutare. Quel che si deve fare per gli altri, è bene che lo si faccia al meglio delle proprie possibilità e col garbo necessario, ma alla fine della lunghissima e routinaria giornata, si è soli. Quando si resta autenticamente soli con se stessi si capisce bene che non si potrebbe trovare interlocutore più amico e più arduo allo stesso tempo. Il dialogo migliore, però, è quello coi grandi del passato – Bill Russell o Seneca poco importa – per mettersi alla prova e finire col portare a casa una buona sensazione su quel che si è riusciti a ottenere col proprio impegno.

Tim Duncan retires

Ora, non c’è da pensare che Tim Duncan fosse o sia un maestro di tale saggezza, ma parte della sua lezione forse consiste anzi che salire sul gradino più alto del palcoscenico non è sempre necessario, né per gli altri, né per sé. Anzi, quando una partita, specie quelle importanti, finiva male, questo bellissimo e austero edificio che ho tratteggiato si riempiva di grosse crepe, lasciando protagonisti e osservatori con una sensazione amara e stupefatta. A quel punto, di solito, leniva tutto quanto la grande sportività di Gregg Popovich, una sorta di compagno di vita, più che un allenatore: con una stretta di mano, un (raro) sorriso e qualche frase secca e tesa abbracciava la sconfitta e sembrava dire: “sì, ho fatto la faccia buia per un centinaio di gare quest’anno, ma ora è finita, c’è un mondo fuori che tutto sommato è più importante”. Il mondo “là fuori”, ovviamente, è quello privato, quello dei commerci sinceri che meritano di essere coltivati al di fuori della calca.

Di leggerezza Tim Duncan non era un campione – non certo quella tecnica, vista la scioltezza con la quale eseguiva movimenti dal coefficiente di difficoltà elevatissimo. Infatti, soprattutto dopo i 33-34 anni, il Leitmotiv degli Spurs era quello del risparmiare le energie di Duncan. Nonostante gli eccessi grotteschi (almeno una volta multati dalla NBA) in cui la cosa sfociava, c’era qualcosa di saggio in questo centellinarsi di Tim Duncan. “Non fare qualcosa che non sia fatto bene e che non ti consenta di dare il meglio di te quando conterà di più”, sembra questo essere il monito di ormai tanti anni di minutaggio col contagocce. Da qui si possono trarre almeno due conclusioni: primo, quello che governa lo sforzo personale è il risultato complessivo; secondo, c’è un’evidente tensione in questo prepararsi-per-darsi successivamente nel momento, in cui la l di “nel” dovrebbe essere maiuscola. C’è, il momento? Parlando di sport, pare chiaro che sì, perdio, ci sono i playoff, ci sono le finali, ci sono le gare 7. Questo forse è l’insegnamento più pericoloso che Tim Duncan potrebbe averci lasciato, dal momento che la vita non scorre altrettanto ben calendarizzata. E peraltro l’attendismo ha portato gli stessi Spurs a diverse sconfitte che, se maturate così, suonano male come uno sfottò malamente esibito prima di mandare un calcio di rigore in tribuna. L’unica risposta in questo caso? Due parole, tanto silenzio e ancor più lavoro.

Tim Duncan finisce quindi per incarnare diverse idee su come si sta al mondo. La cosa eccezionale è che ha trovato le forze necessarie e il contesto giusto per imporle nel luogo che meno plausibilmente avrebbe potuto accettarle: una lega professionistica statunitense.

Non ho parlato di un sacco di cose riguardanti Tim Duncan, tra cui l’uso del tabellone, l’eredità di Kawhi Leonard, la nuotata con Pop nei Caraibi, la laurea in psicologia, la morte della madre, l’espulsione per aver riso troppo in panchina, la franchigia più vincente di sempre negli sport professionistici, le 19 stagioni con una maglia sola, il trio delle meraviglie con Parker e Ginobili… ma queste le potrete trovare ovunque in questi giorni. O anzi, da qui al giorno infausto in cui l’umanità si scorderà del gioco della pallacanestro.

Filippo Batisti
@Una_t_sola

4 pensieri su “Chiedi chi era Tim Duncan

Lascia un commento