Dopo un anno dall’avanzamento della sua proposta da parte del governo di centrosinistra, in Spagna la Camera dei Deputati ha approvato la legge “Solo sì è sì”. L’ultima votazione è avvenuta lo scorso 25 agosto e ha contato 205 sì, 141 no e 3 astensioni.
La lotta appena conclusa è stata portata avanti da una serie di manifestazioni iniziate nel 2016. In quell’anno il famosissimo caso di cronaca spagnolo detto “La Manada” aveva scatenato l’opinione pubblica spagnola e un’ampia serie di proteste.
L’evento scatenante
“La Manada”, che in italiano si traduce “il Branco”, era il nome del gruppo WhatsApp creato dai 5 uomini protagonisti della vicenda. Il 7 luglio del 2016 a Pamplona, durante la festa di San Fermín, i ragazzi si offrirono di accompagnare la ragazza, conosciuta la stessa sera, alla sua auto. La portarono, però, nell’androne di un palazzo, l’aggredirono e la violentarono. Il reato è stato ripreso dagli aggressori in vari video, in cui si vantano di poter diffondere le immagini. La ragazza denunciò l’accaduto alle autorità che arrestarono i colpevoli, accusati di stupro.
Le proteste presero piede dopo una prima sentenza del Tribunale di Pamplona che condannò i cinque uomini a 9 anni di carcere con l’accusa di abuso sessuale. Durante il processo, i legali degli imputati affermarono che la vittima era consenziente, in quanto nei filmati si vede la ragazza immobile con gli occhi chiusi che, terrorizzata, non riusciva a opporsi verbalmente o fisicamente. Questa era la prova del suo consenso, valida per affermare l’assenza di violenza o intimidazioni da parte degli uomini e attribuirgli una pena minore.
La precedente legge spagnola distingueva, infatti, i casi di abuso da quelli di aggressione (reato più grave). E a determinare questa fondamentale differenza non era il consenso, ma la resistenza della vittima o la violenza utilizzata dall’aggressore. Il caso fu ribaltato dal Tribunale Supremo spagnolo che condannò gli aggressori a 15 anni di reclusione.
Il caso aveva fatto emergere le criticità di una legge immersa in quella che si definisce rape culture – cultura dello stupro. Il termine indica una cultura nella quale le violenze di genere, gli abusi e le aggressioni sessuali sono comuni, normalizzate o minimizzate dalle istituzioni, dalle norme o dai media. La necessità di un cambio di rotta rispetto alla precedente legge sulla violenza sessuale ha guidato il paese verso l’approvazione della nuova legge, che pone il consenso al centro di ogni caso di violenza e sarà tale solo quando liberamente espresso.
#IoLoChiedo
Il cambiamento è stato promosso e incentivato da una campagna di Amnesty International creata per ribadire l’importanza del consenso. L’organizzazione è impegnata anche in Italia con l’iniziativa #IoLoChiedo, dal 2020. Tina Marinari, coordinatrice campagne di Amnesty International Italia, ha parlato con The Bottom Up dell’importanza di #IoLoChiedo, anche in relazione alla percezione della tematica nel nostro Paese. Infatti, una fase preliminare alla campagna ha incluso la realizzazione di un questionario (a livello nazionale) che inquadrasse la presenza degli stereotipi in relazione alla violenza di genere. «I risultati erano identici a quelli del 2014», anno in cui, come racconta Marinari, la Fundamental Rights Agency dell’Unione Europea ha eseguito un’indagine sulle stesse tematiche. «Ciò vuol dire che tutti gli impegni presi con la Convenzione di Istanbul – La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, firmata nel 2011 – non erano stati rispettati».
«La campagna #IoLoChiedo ha due obbiettivi: uno è la modifica dell’articolo 609-bis, l’altro è la diffusione in Italia della cultura del consenso, opposta alla cultura dello stupro». L’articolo 609-bis del Codice Penale, infatti, prevede di punire la condotta di chi «con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali». Esattamente come nel caso spagnolo il consenso e il principio “Il sesso senza consenso è stupro” sono secondari rispetto alla brutalità dell’aggressore. «Un cambio culturale deve essere sempre accompagnato da uno legislativo e viceversa», afferma Marinari. Per questo sarebbe importante agire sui due fronti all’unisono e sarebbe ancor più importante farlo ora, vista la campagna elettorale che andrà avanti fino alle elezioni del prossimo 25 settembre. «Abbiamo incontrato l’Onorevole Boldrini e la Senatrice Valeria Valente, Presidente della Commissione Femminicidio, ed entrambe si sono impegnate affinché qualcosa si muovesse, così come alcuni rappresentanti del Movimento 5 Stelle. Ma c’è una grossa paura nel toccare una legge che parla di violenza sessuale e della volontà delle donne». Nonostante l’Onorevole e la Senatrice abbiano affermato la necessità del cambiamento, entrambe hanno anche chiarito il bisogno di una volontà trasversale che al momento non è altrettanto forte. «A dicembre la Senatrice aveva presentato un disegno di legge dove si chiedeva la modifica dell’articolo 609-bis, assegnato alla Commissione Giustizia, che ad oggi non è mai stato calendarizzato».
Nel cambiare la legge e nella volontà di mettere al centro il volere della vittima, Marinari ci spiega che esistono tre modelli giuridici di consenso: «il “modello consensuale puro” – applicato dalla Spagna con la nuova legge, per il quale si sottolinea l’affermazione positiva ed è reato qualsiasi atto sessuale nel quale ciò manchi. Il modello opposto a questo (“modello consensuale limitato”), che si basa sul “no”: chi ha subito la violenza deve aver dichiarato o dimostrato dissenso. E il “modello vincolato” – quello presente in Italia – che è, appunto, vincolato all’uso della forza, della violenza o della coercizione».
Il caso italiano
Nonostante il modello di consenso vincolato presente, la Corte di Cassazione da anni cerca di indirizzare la legislazione verso un modello di consenso puro. In Italia, dunque, l’atto di un aggressore e la relativa condanna dipende dal livello di coercizione e violenza utilizzata nei confronti della vittima. Le aggravanti sono previste nel caso in cui la vittima abbia fatto uso di alcol o stupefacenti, sia un minore o una persona con disabilità. «Non c’è una distinzione tra violenza sessuale e stupro. Il riferimento è sempre quello dell’articolo 609-bis». I presupposti sono, quindi, gli stessi che hanno permesso agli aggressori del caso “La Manada” di essere condannati con pene ridotte perché la vittima era fisicamente incapace di opporsi. E dipendentemente dall’applicazione che si fa della legge in tribunale, i risultati potrebbero essere i medesimi anche in Italia.
«Gli avvenimenti spagnoli ricordano, in parte ciò che è successo a Fortezza Da Basso» afferma Marinari. La vicenda italiana risale al 2008, quando sei ragazzi furono accusati di aver stuprato una ragazza di allora 22 anni. La vittima aveva sporto denuncia quattro giorni dopo. Durante le indagini gli imputati vennero arrestati e rimasero un mese in carcere e due ai domiciliari. Il processo terminò nel 2013 con una condanna di quattro anni e sei mesi di reclusione per gli aggressori. La condanna presentava delle aggravanti a causa dello stato di ebrezza della vittima. I sei ragazzi ricorsero in appello e questa sentenza, arrivata a marzo 2015, rovesciò completamente la precedente. Gli aggressori furono assolti. La Corte di appello assolve i ragazzi perché, come si legge nelle pagine della sentenza «il fatto non sussiste». Le motivazioni sono colme di giudizi morali che si rifanno alla vita personale della vittima, mettendo in luce una precedente relazione omossessuale e il fatto che la ragazza fosse da poco uscita da una relazione seria e avesse rapporti fisici occasionali. La Corte fa, inoltre, riferimento all’«inattendibilità della persona offesa» a causa delle incongruenze nelle sue versioni dei fatti e confutando la sua dichiarata ebrezza perché la sera stessa aveva dimostrato equilibrio nel gioco del toro meccanico.
I casi di violenza di ogni paese sono pieni di questo genere di esempi e sono una delle cause principali per cui le vittime di violenza non riescono a denunciare le aggressioni. In Italia, secondo i dati Istat del 2014, il 78% delle vittime non si è rivolta ad alcuna istituzione e non ha cercato aiuto presso servizi specializzati. Le vittime sono costrette a rivivere il trauma ancora e ancora, in ospedale, nelle domande degli inquirenti, al processo. «C’è una paura enorme. C’è la paura di quella che gli specialisti definiscono “vittimizzazione secondaria”, la paura di finire sotto i riflettori. Nel caso che coinvolge l’imprenditore Genovese a Milano – caso di Alberto Genovese – sapevamo anche il tipo di biancheria intima che la ragazza indossava. A che cosa serve quell’informazione, se non a creare l’immagine della ragazza che “se l’è andata a cercare”? Questo spaventa».
Come se questo non fosse abbastanza, a trattenere le vittime dal denunciare ci sono anche i numeri. «Secondo l’indagine della Commissione Femminicidio del 2018, il 50% dei processi di questo tipo si conclude con l’assoluzione degli imputati».
Considerando i dati riportati sul sito della campagna di Amnesty International, su 31 paesi europei, soltanto 9 di questi hanno leggi sullo stupro basate sul consenso della vittima. Altri 10 lo definiscono come assenza di consenso, ma in tutte le altre legislazioni – tra cui quella italiana – la legge richiede che ci sia un elemento di minaccia o coercizione.
Diletta Pianezzi