L’accoglienza, in Italia, è nata fin da subito in maniera spontanea. Quando negli anni Novanta arrivarono i migranti che fuggivano dalla guerra nelle aree balcaniche, le leggi non avevano istituito un vero e proprio sistema di accoglienza, ma questo venne improvvisato tramite la decretazione d’urgenza che poco si adattava a situazioni che sono durate anche molti anni. Così qualche associazione come la Caritas, insieme ad alcuni enti locali che volevano collaborare, iniziarono a formare progetti di accoglienza che fossero più recettivi delle necessità di queste persone. Venne così “riempito” il vuoto legislativo. Quando poi venne istituito un vero e proprio sistema di accoglienza si partì proprio da quelle esperienze che avevano funzionato. Questi luoghi rimangono il centro del sistema, anche se oggi sono inseriti in una rete nazionale più organica.
Nonostante ciò le strutture che funzionano da centri di accoglienza sono molto diverse tra loro e sono spesso inserite nei diversi contesti locali. Uno dei tanti volti sono le comunità religiose che si sono rese disponibili per accogliere alcune categorie di migranti. Ma come nasce nel concreto questa esperienza?
Ecco come le Discepole del Vangelo sperimentano nelle loro fraternità, in particolare in quelle di Castelfranco Veneto, l’accoglienza, attraverso le parole di una di loro.
Accoglienza, solidarietà e valori

Le Discepole del Vangelo sono un istituto religioso nato dopo il Concilio Vaticano II, nel 1973, con l’intento di “vivere la vita religiosa in modo autentico e secondo uno spirito di apertura, di rapporto con il mondo, con le persone non soltanto credenti ma con tutti e quindi con uno sguardo universale.” La loro spiritualità si ispira a Charles de Foucauld, come ci spiega sorella Cristina, era “un sacerdote francese che ha cercato per tutta la vita di imitare Gesù, donandosi ai fratelli, in particolare ai più poveri”. Di questa spiritualità, le Discepole del Vangelo hanno fatte proprie tre caratteristiche, che costituiscono il loro carisma:
- la preghiera (comunitaria e personale) e la contemplazione, che consiste nel leggere i segni della presenza di Dio nei fatti della vita quotidiana;
- l’accoglienza e la condivisione che “viviamo nelle nostre fraternità, di solito composte di tre o quattro membri”;
- l’evangelizzazione, “attraverso uno stile semplice simile a quello di Gesù a Nazareth, nella cura delle relazioni, di amicizia, del vicinato”.
L’accoglienza è quindi uno degli aspetti della scelta di vita di questa comunità. “Di fatto noi abbiamo sempre accolto nelle nostre fraternità donne in situazioni di difficoltà di vario genere: per problemi di dipendenza, che avevano bisogno di una famiglia per avviare un percorso di fuoriuscita, perché avevano problemi psichici, problemi familiari, perché erano vittime di violenza, o agli arresti domiciliari.”
A partire dal 2000, le Discepole del Vangelo hanno cominciato ad ospitare anche donne vittime di tratta, che provenivano dall’Est Europa e, in particolare, Albania, Romania, Moldavia, Ucraina. “I carabinieri hanno cominciato a portarci alcune donne che raccoglievano nelle strade quando facevano le retate; non sapevano a chi affidarle e cercavano un posto dove dare loro una prima accoglienza e noi siamo diventate così un punto di fuga, cioè un luogo in cui le ragazze possono stare, riposarsi, riprendere un ritmo di vita normale e avere il tempo di pensare.”
Questa attività è sempre stata fatta, ci spiega l’intervistata, “in collaborazione con le forze dell’ordine, i servizi sociali e il numero verde antitratta con cui collaboriamo tuttora”.
Questo numero (800 290 290), che è in contatto con tutti i servizi sociali d’Italia, ha sede nel Comune di Venezia e opera all’interno del Ministero per le Pari Opportunità, gestisce tutte le chiamate di emergenza che arrivano direttamente dalle ragazze oppure da altri enti, come i Comuni, li supporta nella valutazione della loro situazione attraverso operatori e mediatori culturali, facendo se necessario anche dei colloqui.
“Questa attività di valutazione delle motivazioni e della storia personale richiede del tempo. Per questo la prima accoglienza è importante per acquistare un po’ di fiducia in sé e negli altri, senza il timore di essere in pericolo. Noi siamo per loro un po’ questa casa, questa famiglia che le accoglie e dà loro questo tempo.”
“Ogni parrocchia accolga una famiglia”, l’invito di Papa Francesco

Quando poi Papa Francesco, nel momento di maggiore emergenza migratoria, ha invitato gli istituti religiosi ad accogliere, “noi ci stavamo già interrogando e abbiamo deciso di aprire le nostre porte anche alle migranti. Da ottobre 2015 abbiamo cominciato ad accogliere nelle nostre fraternità. All’inizio volevamo metterci a disposizione per quella che viene chiamata “terza accoglienza”, ovvero ospitare donne che avevano già fatto un primo percorso con la Caritas e accoglierle per l’ultimo tratto, aiutandole per un percorso di autonomia. Non essendoci in quel momento donne in questa situazione, ci siamo aperte all’accoglienza diretta, vale a dire la “prima accoglienza”, quella che avviene subito dopo gli sbarchi. Quindi, in rete con altre realtà ecclesiali, ci siamo rese disponibili per accogliere donne in convenzione con la Prefettura, configurandoci come centro di accoglienza straordinaria (CAS) per dieci posti“, ovvero come struttura di un “ampliamento” della rete nazionale SPRAR (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati).
Essendo strutture collegate al sistema nazionale è anche previsto un compenso economico per ogni persona accolta che le Discepole del Vangelo hanno deciso di destinare “alle donne e per le loro necessità”.
Fin da subito però nelle fraternità che accoglievano si sono rese conto che il programma previsto dal sistema nazionale si adattava poco alla condizione delle donne migranti. “Intanto, una grande maggioranza tra le donne sbarcate erano nigeriane e provenienti da Benin City. Queste donne (molte delle quali provenienti da situazioni di povertà e analfabetismo) vengono assoggettate attraverso dei riti voodoo, che in queste aree sono molto diffusi, alle persone che si prendono l’onere di portarle in Europa, e si obbligano così a pagare il debito che contraggono per partire. Gli intermediari chiedono loro cifre enormi: dai 50 ai 70 mila euro”. Queste donne erano quindi “vittime di tratta: non erano ancora andate in strada ma ci sarebbero andate appena ottenuto un documento.”
È stata segnalata la situazione in Prefettura, si è cercato di rendere consapevoli le migranti di ciò, suggerendo loro anche la possibilità dei colloqui con il numero verde, ma non è facile convincerle perché, non conoscono pienamente i vincoli a cui sono legate e talvolta non sono state ancora costrette a prostituirsi, “faticano di più a credere a quello che viene loro detto da noi che siamo estranee alla loro cultura”. Qualcuna è scappata, come spesso avviene in tante altre strutture, mentre altre si sono fidate. “Sappiamo che non è facile perché queste ragazze vengono vendute ai loro trafficanti da persone di famiglia, e si ritrovano dentro una rete di relazioni forte per cui diventa difficile fidarsi degli sconosciuti”. Lo è ancora di più quando “non sono molto istruite quindi non sanno la lingua, non riescono ad esprimersi, hanno un inglese povero.”
La condivisione e l’accoglienza concreta in queste fraternità
Le modalità di accoglienza sono molto semplici. “Condividiamo con loro i nostri spazi, le nostre giornate, le nostre amicizie. Mangiamo insieme, a volte cucinano anche loro. Nel tempo libero creiamo occasioni per uscire, andare a vedere insieme qualcosa di bello, proponiamo loro di partecipare alle feste della nostra comunità, senza obbligarle in nulla, lasciandole libere nella misura in cui ciò è possibile.” Infatti, non possono uscire da sole e c’è un programma che viene stabilito dagli operatori del numero antitratta per la loro tutela.
Inoltre, “nella fraternità dove sono accolte ci sono diverse giovani in formazione, cioè ragazze che stanno sperimentando la vita comunitaria per una scelta di vita, e anche giovani che partecipano alle diverse attività di volontariato e quindi le migranti, se vogliono, vedono e possono relazionarsi con persone della loro età e possono vivere relazioni positive.” Cioè “relazioni disinteressate, non legate al dare/avere. Sperimentano che il mondo non funziona solo economicamente, a prestazioni, do ut des, ma esiste anche la forma della gratuità, del dare senza necessariamente avere in cambio.”
Questa relazione funziona anche all’inverso. Per le sorelle di questa comunità questa forma di accoglienza è importante non solo perché fa parte del loro stile di vita ma anche perché “ci aiuta a stare in relazione gratuita, imparare a voler bene alle persone che hanno un’altra cultura, a conoscerla.”
Un aspetto che rimane impresso è l’età di queste migranti. “Negli anni in cui abbiamo iniziato ad accogliere – racconta l’intervistata – ero ancora in formazione e le ragazze che arrivavano avevano la mia stessa età, poco più di 20 anni, ma una storia completamente diversa. Ho scoperto, vivendo con loro, che ascoltavamo la stessa musica e avevamo gli stessi sogni, studiare, avere una vita buona. Questa è stata una scoperta: riconoscere che la vita dipende molto da dove nasci, che avremmo potuto essere noi in quella situazione ma siamo state più fortunate. Questo ci ha spinto ad impegnarci ancora di più per il rispetto e la dignità di queste giovani che non hanno le possibilità che noi abbiamo.“
L’accoglienza è un’opportunità che permette di “restare sensibili alle povertà e sensibilizzare anche gli altri. È stata l’occasione per un arricchimento reciproco, per andare oltre certi pregiudizi e per qualche giovane anche di mettersi in gioco, aiutando per esempio con l’insegnamento della lingua italiana o con la ricerca di un lavoro.” Impegni belli che “ci fanno dire che la realtà non è solo quella dei telegiornali e dei giornali, degli avvenimenti sempre negativi ma è fatta anche di belle notizie e persone disponibili”.
Dall’accoglienza ai primi passi di integrazione
Nelle fraternità delle Discepole, le ragazze migranti rimangono “da pochi giorni a qualche mese.” Il percorso di queste donne è personalizzato e differenziato a seconda della loro situazione. “A volte arrivano ragazze molto giovani, anche minorenni (tra i 17 e i 18 anni) che rimangono fino a quando non viene trovata una struttura idonea per loro. Tutto dipende dal programma stabilito con gli operatori e da quello che viene deciso insieme alla ragazza, da cosa può far bene a lei. Può essere che, a volte, sia positivo sperimentare una vita fraterna e con coetanei per cui rimangono più tempo da noi. Altre volte, invece, che abbiano bisogno di entrare al più presto in un percorso come determinato dall’art. 18 del Testo Unico sull’Immigrazione”.
Fondamentale è l’autodeterminazione cioè la decisione libera di uscire dal punto di fuga per entrare in una comunità di prima accoglienza. Possono seguire un programma con dei colloqui finalizzati a decidere se entrare effettivamente.
Nella prima accoglienza ci sono delle regole tra cui il rispetto degli orari, viene loro proposto di utilizzare un numero di telefono diverso per mantenere i contatti con la famiglia ed evitare, per quanto, possibile contatti rischiosi perché “è un collegamento con la rete malavitosa da cui provengono. Possono telefonare naturalmente, ma non usano il proprio numero.” Le finalità del programma sono principalmente due. Da un lato, “ottenere un permesso di soggiorno” per risiedere regolarmente in Italia e per questo è necessario che “emerga la loro situazione di sfruttamento, denunciando o dichiarando a un operatore tale stato che verrà opportunamente verificato”. Dall’altro, “inserirsi concretamente nella vita sociale italiana rispettandone le regole”. Per questo all’interno delle comunità di questo tipo ci deve essere “un percorso scolastico e l’insegnamento di competenze che saranno utili per un lavoro”. In genere vengono sostenuti percorsi di scolarizzazione finalizzati al conseguimento di un titolo di studio.
La seconda accoglienza è finalizzata alla ricerca di un lavoro e all’autonomia abitativa. In queste strutture “l’operatore è meno presente, le ragazze convivono, imparando a collaborare in maniera positiva e sperimentando l’autonomia.”
L’esperienza delle Discepole del Vangelo confermano l’esistenza di comunità e religiose che accolgono. La vita religiosa ha “delle caratteristiche, degli spazi che possono diventare un luogo sicuro”. Ma anche le famiglie possono rendersi disponibili per fornire un “sostegno abitativo, o di vicinato, che favorisca l’inserimento nella vita sociale di queste donne nella fase finale”, quando c’è ancora “bisogno di un supporto, di un punto di riferimento che renda più solidi i passi che si sono compiuti fino a quel momento.”
La relazione che si è intessuta con l’accoglienza dura nel tempo. Alcune di loro “restano in contatto con noi, vengono a trovarci, ci informano su come stanno, su cosa stanno facendo, chiamano per un confronto, partecipano a qualcuna delle nostre feste”.
L’accoglienza non è solo aprire le porte alle persone che arrivano, decidere di fare spazio in qualche struttura, nella propria comunità. Ma significa soprattutto aprirsi all’altro, alla sua cultura, alla sua storia, cercando di comprenderlo, mettendo in discussione se stessi e le proprie convinzioni, non dando nulla per scontato. È forse questa l’aspetto più importante, che permette una vera integrazione.
Erica Torresan
Fonte immagine di copertina: Il Manifesto
Questo articolo è parte del Project Work che Erica, studentessa del corso di laurea in Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani dell’Università degli Studi di Padova, sta svolgendo presso la redazione di The Bottom Up.