Un mese fa, il 22 febbraio 2019, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare pacificamente, dopo la comunicazione della ricandidatura di Abdelaziz Bouteflika, 82enne presidente dell’Algeria, colpito da un ictus nel 2013 e per questo impossibilitato a svolgere pienamente la funzione pubblica già da quello stesso anno. Bouteflika ha deciso di ritirare la candidatura per bloccare le proteste ma queste non si sono fermate.
La protesta
La prima manifestazione è stata organizzata tramite i social network, come era successo anche durante le Primavere Arabe nei paesi vicini, e da allora le proteste hanno coinvolto le principali città del Paese: la capitale Algeri, Constantine, Oran, Tizi Ozou, Sétif e molte altre. Si sono svolte in maniera per lo più pacifica, anche se in alcune città non sono mancati degli scontri con le forze dell’ordine. Il carattere civico e l’auto-regolamentazione interna che caratterizza questi moti hanno permesso di evitare i momenti di tensione e di dirottare i percorsi di fronte ai cordoni dei poliziotti, che nella maggior parte dei casi hanno reagito al massimo con qualche lacrimogeno. I manifestanti si sono riuniti in lunghi cortei e hanno marciato attraverso le città, con striscioni e bandiere. Si sono aggregati in maniera quasi spontanea perché l’annuncio di una ricandidatura per un quinto mandato ha risvegliato l’orgoglio nazionale e ha provocato l’indignazione di chi si è sentito preso in giro da questo atto. Nemmeno la promessa di Abdelaziz Bouteflika di un mandato più breve, con l’obiettivo di convocare una conferenza nazionale con il compito di modificare la legge fondamentale per poi indire nuove elezioni, ha funzionato. Infatti, molti algerini ricordano che questa stessa promessa era stata fatta nel 2012 e che le riforme che erano state annunciate sono state più volte rimandate e infine boicottate dalle élite e dai gruppi che avrebbero dovuto parteciparvi. Non bastava più una promessa, serviva qualcosa di più. Per questo sono scesi in piazza: veterani della guerra di liberazione, sindacati, rappresentanti dei partiti politici non di governo, intellettuali, esponenti di alcune professioni come avvocati, giornalisti, insegnanti. Ma soprattutto tanti giovani, studenti, liceali e universitari.
Il ruolo dei giovani
Sono proprio i giovani l’anima di queste proteste e questo ha un significato a partire dalla demografia del paese. Il 54% della popolazione algerina ha, infatti, meno di 30 anni e il 45% meno di 25. Nonostante siano una componente così rilevante dal punto di vista demografico, il governo non fa molto per loro. Il tasso di disoccupazione è dell’11%, ma quello giovanile sale drammaticamente quasi al 30%. Questo significa che molti lavorano nell’economia informale o in settori i cui salari sono modesti e instabili. Infatti, il tasso di partecipazione attiva alla forza lavoro è appena del 41%.
Questa situazione socio-economica non permette ai giovani di costruirsi un futuro. Un governo con lo stesso presidente, lo stesso partito di maggioranza e la stessa élite politica non può aiutare questi cittadini, come del resto non ha fatto negli anni precedenti. Moltissimi giovani hanno conosciuto solo Bouteflika come presidente, che è in carica dal 1999. Un cambiamento è necessario: prima di tutto politico e poi anche economico.

La situazione politica
La “longevità” della leadership di Bouteflika è il cuore delle proteste. È stato presidente della Repubblica algerina per quattro volte di seguito, dalla fine degli anni ‘90 appunto. Fin dal suo primo mandato ha cercato di rafforzare il potere presidenziale a discapito di quello dei vertici militari che in alcuni Paesi dell’Africa ha un ruolo fondamentale e in parte ci è riuscito, anche se il ruolo dell’esercito è comunque rilevante e il suo sostegno determinante. Con una maggiore centralizzazione del potere è stata, però, favorita l’ascesa di una ristretta cerchia di imprenditori che hanno monopolizzato l’iniziativa economica del Paese. Inoltre, le forze di sicurezza sono state rese compiacenti verso il governo centrale, grazie a un continuo ricambio dei vertici con promesse di benefit nell’ambito privato. Quindi c’è un sostegno reciproco che impedisce un vero cambiamento.
Il partito di maggioranza è il Front de Libération Nationale (FLN) che ha rappresentato una costante della vita politica algerina successiva alla liberazione. Ci sono, anche, dei partiti di opposizione ma sono tra di loro divisi, non riescono ad accordarsi per presentare un candidato comune che possa competere con Bouteflika e di fatto non sono completamente liberi nel manifestare le proprie opinioni. Secondo l’indice di Freedom House, l’Algeria non è un paese libero per quanto riguarda i diritti politici e civili. Una delle più importanti limitazioni è quella alla libertà di stampa e di espressione.
Le elezioni, che dovrebbero essere un momento in cui il popolo esprime la propria opinione, hanno un’affluenza bassa: alle presidenziali del 2014 era del 49%. La sfiducia che il popolo algerino nutre verso le elezioni è acuita anche da una molto alta percezione della corruzione e una situazione economica non molto rosea.
La situazione economica
L’economia algerina dipende fortemente dal petrolio che esporta verso i paesi dell’Europa, ma non solo. Per questo motivo le entrate vengono per lo più dal mercato degli idrocarburi che negli ultimi anni ha diminuito molto il prezzo dell’oro nero. Se quindi fino a qualche anno fa, il governo poteva basare le sue politiche e la spesa pubblica sui ricavi che provengono dal settore petrolifero, oggi questo risulta più difficile proprio perché le entrate sono più ridotte. E il PIL cresce poco. Per questo motivo, nel 2016 e 2017 sono state messe in atto anche delle politiche impopolari: un aumento della pressione fiscale, compresa IVA e accise sul carburante, e un forte contenimento della spesa pubblica. A ciò si è aggiunta l’inflazione che ha ridotto ulteriormente il potere d’acquisto dei cittadini, soprattutto per quanto riguarda i prodotti alimentari che provengono per lo più dalle importazioni.
Cruciale è il profilo monosettoriale dell’economia algerina. Infatti, il settore agricolo è fortemente arretrato e produce poco, mentre nel settore dei servizi il ruolo di datore di lavoro è svolto per lo più dall’amministrazione pubblica. Dall’altro lato, il processo di industrializzazione non è riuscito completamente: le politiche attuate negli anni ‘60 e ‘70 e il tentativo di differenziare l’economia furono spazzati via dal peso sempre più importante del settore degli idrocarburi. Questo ambito però non assorbe abbastanza forza lavoro. Da qui l’alto tasso di disoccupazione e la bassa partecipazione al mercato del lavoro “formale”. Un grande numero di persone in età attiva, infatti, non sono impiegati nei settori tradizionali ma, per esempio, svolgono mansioni in ambito domestico o nell’economia sommersa, senza regolare contratto di lavoro. Inoltre i grandi capitali che provengono dall’esportazione del petrolio e del gas non sono stati redistribuiti e sono rimasti nelle mani di un potentato, il pouvoir. Questo gruppo è formato dai vertici di Sonatrach (l’impresa di Stato che gestisce il settore), dell’esercito e dell’intelligence, che non hanno alcun interesse affinché ci sia un cambiamento.
Perché solo ora?
Perché nonostante questa difficile situazione politica, economica, sociale non c’è mai stato un cambiamento negli ultimi 20 anni? Perché sia il regime sia gli osservatori esterni sono rimasti stupiti da queste manifestazioni?
L’anno in cui Bouteflika è salito al potere coincide con la fine della guerra civile conosciuta con il nome di “decade nera”. La sua figura è rispettata proprio per l’importante ruolo di conciliazione nella conclusione della guerra civile. Una guerra che coinvolse non solo i due fronti opposti ma anche molti civili. I morti furono 150mila.
Il ricordo di quegli orrori è ancora fresco nelle menti di molti algerini. E la paura che una manifestazione o una protesta si trasformi in una guerra civile come quella, è molto forte. E spesso questo timore così diffuso è stato sfruttato dal governo per sopire i malcontenti.

Ha funzionato anche nel 2011, durante le Primavere Arabe. Le richieste di migliori condizioni economiche furono soddisfatte attraverso politiche mirate tra cui, per esempio, sussidi per le classi più povere. Misure di successo, almeno temporaneamente perché rese possibili dagli introiti delle risorse petrolifere.
Oggi, però, quei guadagni così elevati non ci sono più. E anche se ci fossero non basterebbero. Perché la richiesta è diversa. Più democrazia, elezioni libere, veri candidati alternativi, sviluppo economico che non interessi solo i grandi imprenditori petroliferi, ma anche altri settori, arretrati come l’industria, l’agricoltura. Un investimento di lungo periodo.
Finora le concessioni che sono state fatte dal governo e dal presidente Bouteflika sono queste: il rinvio delle elezioni politiche alla fine del 2019, la convocazione di una conferenza che modifichi la Costituzione attuale e la promessa di una non-ricandidatura. Basterà?
Le proteste non si sono fermate e il 26 marzo 2019 il capo dell’esercito algerino, Gaid Salah, ha chiesto l’applicazione dell’art. 102 della Costituzione che prevede la destituzione del presidente in caso di “impedimento fisico all’esercizio delle sue funzioni”. Spetta ora al Parlamento e al Consiglio costituzionale valutare l’incapacità del Capo dello Stato. Cosa accadrà ora?
Erica Torresan
Copertina: Il Post
Questo articolo è parte del Project Work che Erica, studentessa del corso di laurea in Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani dell’Università degli Studi di Padova, sta svolgendo presso la redazione di The Bottom Up.
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