Il 18 aprile scorso si è tenuta presso il centro Cassero LGBT di Bologna la presentazione del volume Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali, edito da Mimesis (2015). Erano presenti i curatori del libro, Massimo Filippi e Marco Reggio, i quali hanno esplorato le teorie di Butler relative alla questione animale. Ad affiancarli nell’indagine anche Nicola Riva e Federico Zappino, autore dell’ultimo saggio contenuto in Corpi che non contano, con il quale avevamo avuto l’opportunità di confrontarci qualche mese fa in occasione della discussione in Parlamento del DDL Cirinnà.
Il principale oggetto dell’analisi di Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali. Scene domestiche e questione di specie è il potere che si occulta dietro la barra della dicotomia umano/animale, dicotomia gerarchizzante e violenta come tutte le altre, ma tuttora profondamente ignorata in quanto considerata “naturale” e, come tale, immune al pensiero critico e ai processi politici trasformativi. Come avviene ad Amherst College, Massachusetts, 1985. Una giovane docente introduce la sua classe ad alcuni testi scritti da autrici lesbiche premettendo, tuttavia, “in quanto donna non lesbica”, di sentirsi come svantaggiata nella comprensione di quelle opere. L’effetto che quella candida dichiarazione ha su tre studentesse, in quanto donne lesbiche, è quello di uno «stridente disconoscimento fobico»:
Esiste un pretesto mendace sulla presunta simmetria fra i termini del binarismo eterosessuale/omosessuale, quando l’eteronormatività è alla stregua di un regime politico, pervasivo e delimitante. Un’egemonia che assume tratti molto più simili a un dominio.
Nella Prefazione all’edizione del 2008 di Epistemology of the Closet del 1990, Eve Sedgwick definisce il queer come una forma di resistenza alla categorizzazione omo/eterosessuale, una forma di resistenza che si fonda sulla sospensione della necessità della norma eterosessuale dalla quale dipende anche l’intelligibilità dell’omosessualità. Il queer, inoltre, favorisce la creazione di contesti, di relazioni, di pratiche incarnate in cui le sterili astrazioni che pretendono di definire la sessualità possano perdere la propria autorevolezza, in modo da rendere giustizia alla specificità, materialità e varietà delle pratiche sessuali, nonché ai diversi significati che assumono nella vita di ognuno.
Il pensiero queer deve molto a quello di Foucault, che soleva rispondere alle posizioni (da lui definite) freudomarxiste, per le quali sarebbe stato necessario «liberare il desiderio»: «No! Dobbiamo creare nuovi piaceri. Allora, forse, seguirà il desiderio». Parafrasando Foucault, nel queer non risiede alcun desiderio che attenda di essere liberato dalle stratificazioni coercitive dell’eteronormatività, né dai godimenti indotti e imposti dal capitale. Il Desiderio, infatti, si è costituito dialetticamente proprio con (talvolta in risposta a) quelle coercizioni e con quei godimenti. Di conseguenza, il queer intende sospendere la necessità del Desiderio, uscire dalla contrapposizione dialettica, forse proprio liberarsi dal Desiderio, e iniziare liberamente a creare, sperimentare, testare nuove forme di piacere, di relazione e nuovi modi di concepire se stesse e gli altri, nuove modalità a partire dalle quali desiderare. Si tratta di forme di resistenza concrete e consapevoli dell’intrascendibilità dal più ampio insieme di relazioni di sapere e potere. Zappino, attingendo da Illuminismo e critica di Foucault, si riferisce a tutte le procedure e gli effetti di conoscenza che un campo specifico è disposto, in un dato momento storico, ad accettare. Il regime di verità è, dunque, determinato da tutta quella serie di «meccanismi particolari, definibili e definiti, in grado di determinare dei comportamenti o dei discorsi». Ciò che è riconosciuto, e che dunque conta come “vero” è stabilito in precedenza e finisce per strutturare il mondo nel modo che i soggetti pervengono, a loro volta, ad accogliere come “vero”.

Nel modo in cui Foucault descrive la costituzione della soggettività, specialmente nelle sue ultime opere, uno specifico “regime di verità” definisce i termini in base ai quali il riconoscimento di sé è possibile. Si tratta di termini che eccedono il soggetto, e che, dunque, ne stanno fuori. Al contempo, però, Foucault li presenta come le norme attraverso le quali il riconoscimento di sé ha luogo. Ciò significa che ciò che io posso essere è predefinito: un regime di verità stabilisce quale sarà (o non sarà) la forma di essere riconoscibile. Tuttavia, ciò significa anche che il regime di verità non agisce per costrizione: la forma non detta necessariamente termini “deterministici” sul soggetto. Piuttosto, si limita a fornire la cornice di intelligibilità al cui interno avranno luogo soggettivazione e riconoscibilità, delineando chi verrà qualificato come soggetto riconoscibile.
Se assumiamo questo paradigma foucaultiano come punto di partenza per la definizione della “norma eterosessuale”, finiamo necessariamente per domandarci chi e quali siano i soggetti riconoscibili, stretti nei binari dell’eteronormatività. In un mondo in cui i significati, i limiti e le possibilità erano già lì, nel senso di esistere e di essere vigenti, prima del mio arrivo e a prescindere dalla mia esistenza, chi posso ambire a diventare? Chi posso ambire ad amare? Cosa accade se divento qualcuno che non era previsto dal regime di verità eteronormativo? Cosa accade se mi innamoro di qualcuno, che non era previsto da questo regime di verità, come un uomo che si innamora di un uomo eterosessuale? Ci troviamo inevitabilmente di fronte a relazioni che determinano punti di rottura all’interno degli orizzonti normativi. Queste relazioni possono contenere in sé il germe della formazione di nuove norme di intelligibilità, ma possono anche, più semplicemente e molto più spesso, essere distruttive per i soggetti in gioco: il regime di verità è molto più forte.
Secondo Zappino, la massima secondo cui i giudizi di gusto sono meramente soggettivi e indiscutibili ha prodotto forme subdole di esclusione, infiltrandosi e guastando i processi di soggettivazione e di relazione. Un po’ come avviene per il fenomeno vegan, visto ancora come una bizzarra questione di gusti, più che come una presa di posizione vera e propria.
Il veganismo, come scrive Rasmus Rahbek Simonsen nel Manifesto queer vegan, intende spiazzare in modo più radicale la concezione liberale del soggetto e delle relazioni, poiché di essa mina innanzitutto la concezione del futuro e del progresso. In altre parole, mina la sopravvivenza nel tempo di un ordine sociale stabilito da umani che si alimenta, metaforicamente e materialmente, della morte degli altri non umani, ossia della norma sacrificale. Secondo Zappino, il veganismo assume pienamente quella pulsione di morte che Foucault forclude, o che finge di non vedere. Il soggetto vegano rifiuta radicalmente di cibarsi delle carni degli animali e di vestirsi delle loro pelli, e, dunque rifiuta la nominazione e la rimozione dalla memoria psichica della dipendenza che l’essere umano sconta da sempre nei riguardi dei non umani. In questo modo, egli/ella accetta di farsi carico fino in fondo della precarietà ontologica della propria esistenza e di non rimuovere quella vulnerabilità che la norma sacrificale avrebbe provveduto a quietare.
Nella valutazione di Simonsen, il queer e il veganismo sarebbero accomunati dal fatto di sfidare e straniare le richieste normative che vengono imposte ai nostri generi, alle nostre sessualità e alle nostre diete. Tuttavia, la norma eterosessuale può essere ampiamente disattesa lasciando invariata la norma sacrificale. Infatti, è la stessa norma sacrificale a offrire strumenti per sovvertire quella eterosessuale. Scrive Zappino che un’alleanza tra il movimento e la teoria queer e il movimento e la teoria antispecista può avvenire solo a patto che i primi siano disposti a comprendere e a problematizzare quanti e quali elementi sacrificali permangono nelle proprie teorizzazioni critiche, nelle proprie rivendicazioni e nelle proprie pratiche. In Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali. Scene domestiche e questione di specie, Richard Iveson sostiene che lo specismo sia fondato più sull’uccisione che sull’omicidio di animali e che costituisca il substrato implicito di una miriade di altre esclusioni istituzionalizzate, dal razzismo al sessismo, dall’omofobia al classismo.

Secondo Judith Butler, il soggetto è il legame singolare e ventriloquo che si instaura con la rete delle reiterazioni. Il suddetto legame si costituisce nel punto di intersezione di svariati ideali fantasmatici riprodotti dalle norme regolatorie e fa sì che la materialità del corpo non potrà essere pensata (e accettata!) se non partendo dalla materializzazione di tali norme. La pratica di costruzione del genere richiede necessariamente il ricorso a pratiche che siano, al tempo stesso, razzializzanti ed eterosessualizzanti. Non esistono norme articolate in modo indipendente, ma solo egemonie di oppressione intrecciate tra loro:
Non è più pertanto possibile far precedere la differenza razziale da quella sessuale o pensarle come assi completamente separati di controllo sociale e di potere.
Reiterare pratiche significa produrre potere, il potere di produrre delimitando e differenziando i corpi. Vista questa attività regolatoria, Butler afferma la matrice delle relazioni di genere è precedente all’apparizione dell’“umano”, un effetto aggregato della regolamentazione del potere produttivo.
Come si esce dall’eteronormatività coatta della nostra società? Probabilmente, un buon punto di partenza è la decostruzione di quanto diamo per scontato, perché l’ovvio non esiste in natura.
Sofia Torre