reportage lipa bosnia

Oltre Lipa. Reportage sulla Rotta Balcanica ai margini dell’Europa

La Bosnia è l’ultimo Stato, in ordine di tempo, sui cui ha virato il percorso della rotta balcanica: i primi arrivi risalgono alla fine del 2017. Al tempo la popolazione, così come la polizia, era amichevole e spesso solidale con le persone in arrivo, anche a causa della sanguinosa storia recente del paese. Con il passare del tempo però la situazione si è deteriorata, complici l’incremento degli arrivi nel periodo 2018-2019, poi diminuiti nel 2020, e i continui respingimenti effettuati dalla Croazia (e a catena anche da Italia e Slovenia), che hanno reso il cantone nord-occidentale di Una-Sana un concentramento di corpi speranzosi in attesa inshallah – di raggiungere l’Europa e un futuro migliore. 

campo di Bira, Bosnia
Foto 1: la coda per la mensa nel campo di Bira, aprile 2019

La politica e la stampa locale hanno lanciato dure critiche sulla presenza dei migranti e sulla gestione dei campi profughi volti a contenere il flusso, creati in fretta e furia da IOM (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni – al link la mappatura dei campi più aggiornata secondo l’organizzazione, ma che non tiene conto degli ultimi sviluppi), senza che si riuscisse ad avviare una gestione efficace, né garantire condizioni igienico-sanitarie minime per la dignità delle persone in transito. Come già successo in Serbia, in Grecia e negli altri paesi lungo la rotta balcanica, molte persone si sono dovute arrangiare in strutture fatiscenti e abbandonate chiamate squat, oppure nelle jungle, cioè campi informali nelle foreste, fatti con teli di plastica raffazzonati. Qualcuno l’ha fatto per scelta, per allontanarsi dai campi ufficiali dove non si respira libertà; qualcun altro è stato costretto, e avrebbe preferito restare nelle strutture di IOM dove almeno viene distribuito qualche pasto.

Migranti in uno squat in Bosnia
Foto 2: migranti in uno squat, rifiutati al Bira perché non c’era posto, aprile 2019

Fino all’autunno scorso a Bihać, principale centro urbano della regione, la polizia locale compiva ronde quotidiane per catturare i migranti presenti in città, negli squat o negli accampamenti informali, e costringerli fino a Lipa, località distante venticinque chilometri in direzione sud-ovest, dove si trovava il principale campo di IOM nella regione, nato come emergency camp per il Covid nell’aprile 2020. Prima di Lipa il processo di sgombero era simile, con una destinazione differente, ossia il campo di Vucjak: una tendopoli costruita per volontà del comune di Bihać su una discarica, nel mezzo di un campo ancora minato dai tempi della guerra e gestito dalla Croce Rossa locale. Vucjak (letteralmente “tana del lupo”) venne chiuso dalla commissaria UE per i diritti umani nel dicembre del 2019, a causa dell’insostenibilità delle condizioni di vita per i migranti, nonché di lavoro per gli operatori. Allo stesso modo, anche la chiusura del campo a Lipa era stata annunciata da tempo, e alcuni migranti e attiviste locali raccontano che potrebbe essere stata la stessa IOM ad appiccare il fuoco tramite il proprio servizio di sicurezza privata, per recuperare i fondi dell’assicurazione. 

Campo di Vucjak Bosnia
Foto 3: il campo di Vucjak, luglio 2019

Questo è il terzo inverno di rotta balcanica in Bosnia, e come ogni anno il disastro umanitario largamente preannunciato torna a ripetersi. La differenza questa volta è che il grande incendio, seppur non diverso da altri già avvenuti in passato, ha risvegliato l’attenzione della stampa internazionale e quindi della società civile.

Prima della distruzione di Lipa nemmeno le attiviste locali e internazionali avevano vita facile. Portare aiuti ai migranti fuori dai campi ufficiali è illegale: si rischiano sanzioni, l’arresto, e se non si è residenti anche l’espulsione. Tutte le distribuzioni di cibo, vestiti, legna e medicinali venivano fatte di nascosto, di notte, per ridurre il rischio di essere prese in flagranza di reato. Questo inquadramento legale che criminalizza la solidarietà permane nella teoria ma non nella pratica, almeno per ora. 

Dalla fine di settembre, con la chiusura del campo di Bira, una ex-fabbrica in disuso che ospitava fino a 2000 persone, e la distruzione di Lipa il 23 dicembre scorso, le disponibilità di accoglienza in strutture ufficiali nel cantone di Una-Sana si sono ridotte in modo drastico. Le occupazioni informali si sono moltiplicate, ma le temperature rigide e l’arrivo di una fiumana di reporter ha temporaneamente bloccato le attività repressive della polizia bosniaca, che sta concedendo una sorta di tregua a migranti e operatrici. 

Durerà, se va bene, fino a quest’estate – prevede Zemira, attivista musulmana da anni in prima linea con la sua associazione, Udruzenje Solidarnost, nel sostenere i migranti fuori e dentro i campi a Bihać. Racconta che ora non c’è posto nei campi ufficiali, per cui anche sgomberando le situazioni informali la polizia non saprebbe dove metterli. È per questo che al momento sia le persone in transito che le attiviste vengono lasciate in pace. Secondo Zemira ci vorrà giusto il tempo di ripristinare il campo di Lipa, che a suo dire sarà molto più grande e più simile a un centro di detenzione, perché le ronde e la criminalizzazione della solidarietà ricomincino. Voci parlano di cinquemila posti previsti tra uomini single, famiglie e minori non accompagnati pronti già nella prossima estate: in pratica un altro Moria, ma più vicino, proprio sulla frontiera della Fortezza Europa.

Una parte minoritaria dei cittadini a Bihać e nelle altre città si è organizzata in gruppi anti-migranti, che identificano e denunciano alla polizia chi, locale o internazionale, è solidale alle persone in transito. Dopo aver ricevuto minacce, Zemira aveva dovuto interrompere le attività per paura di ritorsioni, ma nell’ultimo mese ha ripreso a portare aiuti alla luce del sole nei due squat principali della città, il Dom Penzionera e il Krajina Metal, che al momento ospitano ciascuno circa 200 persone, completamente abbandonate dalle organizzazioni delle Nazioni Unite. 

Foto 4-5: il Dom, fuori e dentro, febbraio 2021

Al Dom, Zemira viene intervistata da una televisione pubblica turca, alla quale racconta che attorno a Bihać esistono circa un centinaio di situazioni informali, tra squat e jungle camps, con numeri variabili dalle quattro alle cinquanta persone, che hanno periodicamente bisogno di rifornimenti. Un furgoncino bianco arriva inaspettato e parcheggia poco distante. Dall’edificio fatiscente accorrono in fretta una miriade di ragazzi che formano una fila ordinata, mentre due ragazze scendono dal veicolo e aprono i portelloni posteriori, iniziando a distribuire generi alimentari e per l’igiene personale nell’euforia generale. La scena dura in tutto cinque minuti, poi le ragazze salgono sul furgone e scappano via. Zemira prosegue, raccontando che le realtà più bisognose sono proprio quelle più piccole, che spesso sfuggono ai radar della solidarietà. Al Dom e al Krajina Metal, luoghi conosciuti, le distribuzioni sono più frequenti.

Foto 6-7: Il Krajina Metal, distribuzione di legna, gennaio 2021

Decidiamo di seguire Zemira nella jungle che, secondo lei, è la più isolata e difficile da supportare. Ci abitano dodici ragazzi pakistani da quando il Bira ha chiuso lasciandoli per strada. Carichiamo la macchina con pacchi di farina, riso, zenzero, pollo, olio, latte e tanto altro e ci mettiamo in moto sotto la neve. Dopo venti minuti alla guida ci fermiamo sul limitare di una strada sterrata, piena di pozze e fango misto a nevischio. Due ragazzi ci stanno aspettando, sorridono felici di vederci. Ci carichiamo tutto in spalla come muli e ci incamminiamo verso i campi immacolati, non si sa bene dove. Dopo altri venti minuti di marcia si abbandona la carraia e si taglia attraverso un campo, sprofondando ad ogni passo mezzo metro nella neve. Il campo declina in un pendio, al termine del quale scorre un ruscello impetuoso. Tre pietre barcollanti ci assistono nell’attraversamento, poi una salita scivolosa di fango e neve porta a intravedere in lontananza alcuni teli di plastica, tesi attraverso i rami scuri e contorti. Queste tende raffazzonate sembrano disegnate da Picasso, il paesaggio è desolante ma, dopo la lunga traversata, il fuoco che scoppietta dentro un secchio di latta al riparo dai fiocchi di neve fa subito pensare ad una casa accogliente. Veniamo invitati a bere un Chai attorno al fuoco, perché dobbiamo scaldarci un po’ prima di tornare indietro, ma soprattutto perché la cortesia è il modo migliore, forse l’unico a disposizione, per rivendicare la propria dignità ed uguaglianza. 

Foto 8: Zemira assieme a tre ragazzi pakistani, portano rifornimenti al jungle camp, gennaio 2021

Sorseggiando il tè oltremodo zuccherato uno dei ragazzi racconta la sua storia: è fuggito dal Pakistan perché i talebani volevano costringerlo ad arruolarsi, e lui si è rifiutato. Hanno provato a sgozzarlo, ma lui è sopravvissuto. Mostra la lunga cicatrice che gli attraversa il collo da parte a parte. Bilal, questo il suo nome, cerca un paese qualsiasi dove poter vivere in pace, senza rischiare ritorsioni, dove fare in fretta le carte per il ricongiungimento con la moglie e le figlie, che in Pakistan aspettano sue notizie. Bilal in Europa ci è già entrato diverse volte, ed ogni volta è stato respinto. L’ultima, a ottobre, è arrivato fino in Italia. Quando ha visto il golfo di Trieste dall’altopiano carsico, le luci ronzanti della città nella bruma mattutina, ha pensato di avercela fatta. Gli ultimi chilometri che separano la frontiera italiana da Trieste però sono anche i più controllati: Bilal viene intercettato dall’esercito e portato in una caserma, dove chiede asilo. Gli vengono presentati dei fogli in italiano, mentre un mediatore gli consiglia di firmare, dicendogli che serve per la sua richiesta di accoglienza. In realtà quelle sono le carte di espulsione, ma Bilal non lo sa, e fiducioso le firma. 

Foto 9: Bilal mostra la cicatrice a una fotoreporter, gennaio 2021

Ciò che avviene dopo è uno dei 1240 respingimenti a catena documentati che l’Italia ha operato – illegalmente – nel corso del 2020. Sono il quadruplo rispetto all’anno precedente, e uno di questi è costato al Viminale una prima storica condanna lo scorso 18 gennaio. Probabilmente il numero reale è anche più alto, infatti diverse persone hanno riferito di essere state consegnate dall’Italia alla Slovenia senza che si facesse alcuna carta. Bilal è stato consegnato alla polizia slovena, poi a quella croata, che l’ha picchiato, spogliato, derubato e infine ributtato in Bosnia. Ci sono circa dodicimila storie simili a quella di Bilal documentate con particolari nel “Black Book of Pushbacks”, presentato da Border Violence Monitoring Network al Parlamento Europeo lo scorso dicembre. I numeri reali sono anche più alti, e inchiodano la responsabilità dell’Unione Europea sui propri confini, evidenziando la schizofrenia politica di un’istituzione che predica bene e agisce malissimo, a sfregio dei propri valori fondanti. 

Foto 10: Signore algerino mostra le percosse subite dai suoi amici in uno squat a Velika Kladusa, febbraio 2021

Ancora qualche parola va spesa sulla Croazia, “bestia nera” del momento. Questa, tenendo nei propri corpi di polizia più di un nostalgico Ustascia, commette nefandezze di ogni genere, facilmente definibili torture, ma lo fa su mandato della stessa Unione Europea, la quale supporta con uomini, tecnologie e finanze le ormai tristemente celebri espulsioni collettive. In questo rapporto perverso, viene da pensare, anche il potenziale ingresso della Republika Hrvatska in area Schengen deve giocare un certo ruolo. 

A farne le spese sulla propria pelle sono gli ultimi della terra, che malgrado tutto non si perdono d’animo e continuano a perseguire un futuro dignitoso, con una resistenza caparbia e sorridente che difficilmente saprebbe mostrare chi, in Occidente, è abituato al benessere. Un caso peculiare è quello di Amir Labbaf, dissidente iraniano otto volte arrestato nel suo paese, perché intento a difendere i diritti della propria minoranza religiosa. Costretto a scappare nel 2018, ha raggiunto la Turchia, attraversato l’Egeo su una barchetta con altre dieci persone e poi ha risalito a piedi tutta la penisola Balcanica, chiedendo metodicamente asilo politico in ogni paese e ricevendo solo rifiuti o noncuranza. Nella sua buona fede, Amir è entrato di sua sponte in una caserma di Polizia in Croazia, dove ha chiesto per l’ennesima volta asilo politico. Gli hanno riso in faccia e l’hanno deportato in Bosnia. A questo punto Amir ha capito di dover arrivare in Slovenia, e ha tentato un game, cioè l’attraversamento a piedi dell’intera Croazia. Camminava di notte sul ciglio della strada quando, per evitare di essere investito da un’automobile, è caduto in un dirupo rompendosi le vertebre lombari. Paralizzato dalla vita in giù, è stato aiutato da alcuni ragazzi pakistani che percorrevano la sua stessa strada in cerca di salvezza. Dal ciglio della strada, una volante della polizia più caritatevole delle altre lo ha trasportato all’ospedale di Rjieka. Sembrava potesse ricevere le prime cure, ma così non è stato: l’indomani una pattuglia è venuto a prelevarlo dal suo letto, gli ha fatto indossare un busto che lo sostenesse il minimo indispensabile per caricarlo in macchina e portarlo via. Malgrado le sue condizioni, Amir è stato pestato, spogliato e derubato, e lasciato in piena notte, invalido, sul confine bosniaco. Da qui, fino alla mattina successiva, Amir ha strisciato sui gomiti, fino a raggiungere una strada dove è stato soccorso da un camionista di passaggio. Ora risiede al campo Sedra a Ostrozac, costretto su una sedia a rotelle. L’attivista Lorena Fornasir, presidente dell’associazione Linea d’Ombra, ha da poco lanciato una petizione per aprire un corridoio umanitario e portare Amir Labbaf in Italia, dove potrà ricevere asilo e le cure di cui ha bisogno.

Foto 11: Amir Labbaf e Lorena Fornasir si incontrano a Ostrozac, febbraio 2021

A testimoniare l’ipocrisia dell’Unione Europea stanno i budget allocati a Frontex, l’agenzia che controlla le frontiere esterne, al centro di diversi scandali per aver effettuato respingimenti collettivi nell’Egeo verso la Turchia nel 2020 e, più di recente, per aver speso più di due milioni di Euro in feste e serate di gala. Due milioni di Euro, sul budget totale dell’agenzia, sono in realtà poca cosa: a titolo d’esempio i contribuenti europei nel 2015 hanno stanziato per Frontex 137 milioni di Euro. Negli anni la cifra è cresciuta in modo vertiginoso, fino a superare il miliardo e mezzo di Euro solo nel 2021. Per fare un paragone si pensi che, dal 2018 ad oggi, alla Bosnia sono stati stanziati 89 milioni di Euro per la gestione del flusso migratorio, di questi circa 70 spesi direttamente da IOM nella manutenzione dei campi ufficiali, quindi azioni di tamponamento non orientate alla ricerca di una soluzione strutturale.

Foto 12: uomini algerini deportati il giorno precedente, mostrano i segni delle percosse croate dallo squat in cui hanno trovato riparo a Sturlić, luglio 2019


Oltre alle parole di impegno e cordoglio profuse negli anni sul tema dei diritti dei migranti, ciò che si registra di tangibile è quanto l’attenzione internazionale si risvegli, ciclicamente e per un breve lasso di tempo, solo se capita qualcosa di grave o toccante, come l’incendio di Lipa, di Nayapara o prima ancora di Moria, oppure il ritrovamento di un corpicino senza vita su una spiaggia, come fu per Alan Kurdi

Silvia Maraone, coordinatrice di IPSIA e punto di riferimento per le realtà solidali attive in Bosnia, in questi giorni sta lavorando dall’alba al tramonto sul cantiere del nuovo campo a Lipa. è il suo venticinquesimo anno di servizio in Bosnia, è qui dai tempi della guerra civile e sa bene come girano le cose. Le chiedo del nuovo Lipa e mi risponde: “Che orrore che sarà. Ma Lipa è già nel dimenticatoio, e con lei la Rotta Balcanica. Di nuovo”. L’alternativa al pianto, per chi vive le migrazioni nel quotidiano, è una risata amara. Le ultime parole di Silvia sono una domanda retorica, dura e sardonica: “Dovrà bruciare un altro campo?”

Francesco Cibati

Tutte le fotografie © Francesco Cibati.