È dal 2015 che parliamo di “rotta balcanica” come una delle principali vie di accesso all’Europa per le persone migranti che, a piedi o con mezzi di fortuna, attraversano diversi Paesi come Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria, Bosnia, Croazia, Slovenia, Italia e Austria con la speranza di raggiungere il cuore dell’Europa. Nonostante l’accordo tra Unione Europa e Turchia, che prevede l’impegno di Ankara a impedire le partenze in cambio di 6 miliardi di euro, i migranti continuano a percorrere a piedi i Balcani, dove però violenze, violazioni dei diritti umani e respingimenti sono all’ordine del giorno.
Lo chiamano “the game”, il gioco, ed è il tentativo di raggiungere l’Italia o l’Austria dalla Bosnia, dove in migliaia si trovano bloccati in campi informali in attesa del momento giusto per continuare il viaggio. Ma non è detto che attraversare il confine tra Slovenia e Italia significhi che sono, finalmente, al sicuro. Solo nel 2020, infatti, 1.240 persone sono state respinte dalle autorità italiane e poi, a cascata, fino in Bosnia. Una pratica governata dal Ministero dell’Interno intensificatasi durante lo scorso anno e che il Tribunale di Roma, con una storica ordinanza, ha ora definito illegale.

Bosnia, il nuovo “campo” della rotta balcanica
Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nel 2020 in Bosnia-Erzegovina sono transitate 16.000 persone: più di 10.000 sono rimaste bloccate nel Paese sia per l’ulteriore chiusura delle frontiere dovuta alla crisi sanitaria sia per i respingimenti operati dai Paesi confinanti. I dati presentati dal Danish Refugee Council mostrano come nel periodo che va da maggio 2019 a novembre 2020 sono state respinte dalla Croazia verso la Bosnia circa 22.000 persone, dando origine a una vera e propria emergenza umanitaria.
La responsabilità non è da attribuire solamente alla Bosnia, ma anche agli altri Paesi che operano i respingimenti a catena e che, a volte, partono proprio dall’Italia, proseguondo poi a ritroso. Dopo il ricorso urgente presentato da un cittadino pakistano, richiedente asilo nel nostro Paese e che nel luglio 2020 era stato riammesso dall’Italia alla Slovenia, da qui in Croazia e quindi in Bosnia, il Tribunale di Roma ha sancito l’illegittimità della procedura di riammissione attuata al confine in quanto in palese violazione delle norme internazionali, europee e interne che regolano l’accesso al diritto di asilo. Inoltre – ulteriore elemento di illegittimità – il Tribunale di Roma ha evidenziato come l’intera procedura di respingimento sia stata completata senza consegnare agli interessati alcuna notifica formale e senza alcun esame delle situazioni individuali, dunque ledendo il diritto alla difesa e la possibilità di presentare un ricorso effettivo.
Nonostante i numerosi e violenti respingimenti illegali, largamente testimoniati (tra gli altri) dal Border Violence Monitoring Network, i tentativi di raggiungere l’UE in cerca di sicurezza e dignità sono continuati. Gianfranco Schiavone, studioso delle migrazioni internazionali, presidente di Consorzio Italiano di Solidarietà di Trieste e vicepresidente di ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), intervistato da The Bottom Up, spiega che “la rotta balcanica non è mai stata chiusa (nonostante l’accordo UE-Turchia, n.d.r.), nel senso che, dal 2015 e nel corso degli anni ha semplicemente cambiato traiettoria a seconda degli eventi politici dei vari Paesi. Fino alla fine del 2017 la via principale passava per la Serbia, l’Ungheria e l’Austria. La Slovenia e l’Italia erano passaggi secondari, diventati ora la tratta principale, insieme a Serbia, Bosnia e Croazia”.
Secondo i dati UNHCR, le persone che intraprendono questo percorso vengono prevalentemente da Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria e Bangladesh, ovvero da alcune delle aree più complesse del pianeta. “Nella maggior parte dei casi hanno diritto alla protezione internazionale, sono persone rifugiate, che fuggono da conflitti pluridecennali, violenze collettive e persecuzioni. In Italia arrivano soprattutto afghani e pakistani, ma quando possibile preferiscono non segnalarsi alle autorità e proseguire il viaggio puntando ad altri Paesi europei”, continua Schiavone.
I respingimenti: dall’Italia alla Bosnia senza lasciare tracce
L’arrivo in Italia, per i migranti, e il riconoscimento dei loro diritti è diventato sempre più difficile perché si scontrano con la realtà dei respingimenti operati, illegalmente, dalle autorità italiane. Secondo i dati trasmessi dal Ministero dell’Interno ad Altraeconomia, dal 1 gennaio al 15 novembre 2020 l’Italia ha riammesso in Slovenia 1.240 persone, a loro volta respinte a catena fin verso il territorio bosniaco. Se confrontati con i numeri dello stesso periodo nel 2019, quando i respingimenti furono 237, si nota un aumento significativo del 423%. Dalla metà del mese di maggio 2020, infatti, i respingimenti sono diventati sistematici, quando il prefetto di Trieste Valerio Valenti ha annunciato una “ulteriore intensificazione del dispositivo di controllo di retro valico in funzione di contrasto agli ingressi irregolari in territorio nazionale”.

L’aumento dei respingimenti al confine non è passato inosservato. Il deputato di +Europa Riccardo Magi il 24 luglio 2020 ha presentato un’interpellanza urgente in Parlamento, rivolgendosi al Viminale, a proposito delle iniziative di riammissione dei migranti in Slovenia, domandando se esse avvenissero nel pieno rispetto della normativa in materia di protezione internazionale. Nelle parole di Magi leggiamo che “le riammissioni sono state effettuate non in ragione del ripristino dei controlli alle frontiere interne, mai formalmente avvenuto, ma in applicazione dell’Accordo bilaterale fra Governo della Repubblica italiana e Governo della Repubblica di Slovenia sulla riammissione delle persone alle frontiere, un accordo firmato nel settembre 1996”. Si tratta di un accordo di natura politica, ovvero firmato dai Governi interessati, ma che non è mai stato ratificato dal Parlamento italiano.
Secondo Schiavone, fondamentale per comprendere le intenzioni del Governo italiano è la risposta fornita dal Viminale. Lo stesso Ministero dell’Interno italiano dichiara, infatti, di aver dato istruzioni precise per non formalizzare le domande di asilo e che tali riammissioni vengono effettuate anche “[..] qualora sia manifestata l’intenzione di chiedere protezione internazionale”. “A maggio, grazie a varie testimonianze, sapevamo già come stavano andando le cose,” aggiunge Schiavone “ma è tutto rimasto nel silenzio più totale, anche da parte delle agenzie internazionali, in particolare dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati”. Le dichiarazioni di luglio del Viminale hanno confermato le varie ipotesi e testimonianze sui respingimenti illegali che si stavano svolgendo nei mesi. “La vera domanda è: come mai dal 25 di luglio non è successo niente fino alla fine di dicembre?”
Sempre nella stessa occasione, inoltre, il Ministero ha confermato che tali riammissioni avvengono senza provvedimenti formali, ovvero senza un atto amministrativo notificato all’interessato, con la conseguente impossibilità per lo straniero di potersi rivolgere a un giudice. “L’obiettivo non era respingere i richiedenti asilo in Slovenia, bensì annullare la domanda di protezione in Italia, in Slovenia e in Croazia, trasformando così il richiedente asilo in migrante irregolare e facendolo sparire in Bosnia. Dal momento che i respingimenti forzati non sono attuati sulla base di un provvedimento notificato, viene impedito alla persona di difendersi contro questa operazione di allontanamento materiale. E questo non per ingenuità o per interpretazione errata della norma, ma per una precisa volontà di non lasciare tracce”.
Un atto illegale: il Tribunale di Roma condanna l’Italia
Secondo la storica ordinanza emessa il 18 gennaio 2021 dal Tribunale di Roma, la procedura delle riammissioni dall’Italia alla Slovenia viola le norme internazionali, europee e nazionali che regolano l’accesso alla procedura di asilo. In particolare, esse violano l’articolo 10 della Costituzione italiana, l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati che sancisce il divieto di respingimento (non refoulement) e l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ricorso era stato presentato dalle avvocate Caterina Bove e Anna Brambilla nell’interesse di un richiedente asilo originario del Pakistan riammesso nel luglio del 2020 dall’Italia alla Slovenia. Come si può leggere dalla ricostruzione presente nell’ordinanza, il ragazzo era fuggito dal proprio Paese avendo subìto persecuzioni a causa del proprio orientamento sessuale e, appena giunto a Trieste aveva manifestato la volontà di presentare domanda di protezione internazionale, ma nel giro di poche ore era stato respinto verso la Slovenia senza alcun provvedimento, poi in Croazia e successivamente in Bosnia Erzegovina, dove si trova tuttora sprovvisto di alcun tipo di supporto.
La sentenza ha riconosciuto che, a prescindere dalla richiesta di protezione internazionale e quindi dallo stato giuridico di una persona, il fatto stesso di aver esposto la persona al rischio di violenze e poi di abbandono in Bosnia viola l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), che tutelano l’individuo da trattamenti inumani e degradanti e tortura, un diritto assoluto a cui corrisponde l’obbligo dello Stato.
Per quanto riguarda il diritto a presentare la domanda di asilo e i divieti dei respingimenti a catena, entrano in gioco anche le norme dettate dal Regolamento UE n. 604/2013 (cosiddetto Regolamento Dublino III), che prevede una precisa procedura per individuare il Paese competente a esaminare la domanda di asilo presentata da un cittadino di un Paese terzo, disciplinando anche le modalità dell’eventuale trasferimento del richiedente nel Paese individuato come competente. L’articolo 3 del Regolamento, infatti, recita che “ogni Stato membro ha diritto di prendere in esame una domanda di asilo presentatagli da uno straniero, anche se detto esame non gli compete in virtù dei criteri definiti nella presente convenzione”.

Secondo Gianfranco Schiavone “c’è stata la volontà politica di creare confusione, scambiando il diritto a presentare la domanda di protezione internazionale, che non può essere mai negato, con la questione dell’eventuale trasferimento della domanda al Paese ritenuto competente, che non per forza è o deve essere l’Italia”.
A fronte della condotta delle autorità italiane, in contrasto con obblighi di diritto interno, anche di rango costituzionale, e di diritto internazionale, il Tribunale applica l’art.10 comma 3 della Costituzione e consente l’ingresso sul territorio nazionale al ricorrente al fine di presentare la domanda di protezione internazionale. “La questione fondamentale dell’ordinanza è che viene accolta la tesi secondo la quale le persone che hanno visto negarsi la facoltà di accedere alla procedura di protezione sono, in realtà, in ragione di farlo. Il giudice riconosce e ripristina così il diritto del ragazzo pakistano, che si trova ancora a Sarajevo, di accedere in Italia e vedere esaminata la propria domanda di asilo”.
Per quanto riguarda gli altri oltre 1.200 migranti respinti, servirebbe un ricorso per ognuno di loro per farli rientrare in Italia e permettere loro di presentare richiesta di asilo politico. La procedura non è semplice, poiché per prima cosa serve risolvere la questione dei documenti necessari per far avere agli avvocati le procure. L’intenzione di Anna Brambilla sarebbe infatti di provare a raccogliere una procura unica sulla base del fatto che molti migranti non hanno i documenti perché sono stati distrutti dalla polizia croata.
Per Gianfranco Schiavone questa sentenza dovrebbe garantire degli effetti benefici e far sì che il Governo non attui più queste pratiche, dichiarate illegittime. “Se volesse continuare, dovrà assumersi tutte le sue responsabilità politiche e si procederà con altri contenziosi”.
Francesca Capoccia
Tutte le fotografie © Francesco Cibati.
3 pensieri su “Rotta balcanica: per il Tribunale di Roma i respingimenti italiani sono illegali”