Nel Mediterraneo centrale le navi delle ong stanno continuando le operazioni di soccorso. La Ocean Viking, nave umanitaria di Sos Méditerranée, dal 24 giugno ha effettuato otto operazioni di soccorso al largo della Libia. Non sempre, però, le navi riescono ad arrivare in tempo. Il 28 giugno, nonostante la Geo Barents di Medici senza Frontiere sia riuscita a soccorrere e salvare 71 persone da un gommone sovraccarico, almeno 30 persone sono morte. Di fronte a questi tragici ed evitabili eventi, l’opinione pubblica, con gli anni, sembra essere sempre più disinteressata.
Mattia Donati, da anni impegnato come volontario della Comunità di Sant’Egidio di Padova, ricorda come nel 2015 i naufragi abbiano lasciato tutti sconvolti e con la consapevolezza che bisognava fare qualcosa. “Proprio in quell’anno si è dato vita ai cd. corridoi umanitari, quando la Comunità di Sant’Egidio si è ribellata al fatto che molte persone morissero nei viaggi nel mar Mediterraneo”.
La nascita di un corridoio umanitario
Nell’accezione comune, il termine “corridoio umanitario” viene utilizzato per indicare il trasferimento dei profughi e dell’assistenza alle popolazioni nel contesto di un paese in guerra. La stessa espressione ha però anche un significato più specifico: è un progetto-pilota per l’accoglienza e l’integrazione di profughi in Italia realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, insieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e la Cei-Caritas.
Il progetto è stato ideato e attuato velocemente negli ultimi mesi del 2015, andando ad applicare, per la prima volta, l’articolo 25 del Codice comunitario dei visti, che definisce le circostanze eccezionali in cui qualsiasi Stato membro europeo ha la possibilità di rilasciare un visto umanitario a territorialità limitata, valido solo all’interno dello Stato che lo ha concesso. Fra queste circostanze si trovano appunto i “motivi umanitari”. La Comunità di Sant’Egidio e le altre associazioni si sono appellate a questa disposizione insieme allo Stato italiano, l’unico a poter legalmente richiedere di attivare la procedura. In seguito all’approvazione delle autorità, le associazioni hanno quindi stipulato un Protocollo d’intesa con il governo italiano e provveduto a creare il primo corridoio umanitario, ancora attivo, tra Italia e Libano nel dicembre 2015. Il modello è stato poi replicato negli anni non solo dallo stesso Stato italiano, ma anche da Francia, Belgio, San Marino e Andorra nei confronti di profughi presenti in Libano, Corno d’Africa e a Lesbo.
“I corridoi umanitari si propongono come un progetto che potrebbe diventare la norma, se ci fosse la volontà politica di farlo”, afferma Mattia, spiegando il processo di creazione di un corridoio: in seguito all’accordo tra governo italiano, governo del paese terzo e finanziatori (ovvero le stesse associazioni), i volontari delle associazioni coinvolte si recano sul territorio interessato e iniziano a conoscere le comunità di profughi lì presenti, col fine di individuare le persone che potrebbero beneficiare del progetto. Due sono i criteri secondo cui vengono scelti i beneficiari: la disponibilità data dalle associazioni e lo stato di vulnerabilità della persona. Dato il numero limitato di visti e il fatto che sono totalmente autofinanziati dalle associazioni stesse, i volontari devono infatti valutare caso per caso “quanto una tempestività dell’arrivo in Italia cambierebbe la vita di questa persona”. Dopo una verifica da parte del Ministero dell’Interno, il Consolato rilascia i visti umanitari con Validità Territoriale Limitata, permettendo ai profughi di entrare legalmente e in sicurezza nello Stato. Il visto umanitario è però solo un permesso temporaneo legato al viaggio; per poter vedere riconosciuto il diritto di asilo, i profughi, appena giunti in Italia, devono presentare la domanda di asilo. Per i beneficiari di corridoi umanitari, l’iter per il riconoscimento della protezione internazionale richiede solitamente qualche mese, ed è quindi più breve rispetto a quello per gli altri rifugiati. “Un’altra cosa positiva dei corridoi” spiega infatti Mattia “è che, prima ancora che la persona arrivi nel paese, si verifica la sua storia e se abbia diritto alla protezione internazionale”.

Il successo dei corridoi umanitari
“La bellezza di questo progetto è anche la parte successiva all’arrivo: il modello di accoglienza che noi definiamo adottivo prende in carico la persona con amore e tenendo conto di tutti i suoi bisogni, non solo quelli essenziali”, prosegue Mattia. Le associazioni, insieme a gruppi di persone e famiglie, lavorano sul territorio e aiutano i richiedenti asilo a entrare a far parte delle comunità, li aiutano con la lingua e a cercare lavoro, come successo a una famiglia accolta dalla Comunità di Trieste qualche anno fa, che ora presta servizio al centro di solidarietà e si sente parte integrante della città. In Italia negli ultimi anni sono state più di 10.000 le persone che si sono mobilitate per il progetto, per il fine di “restituire dignità alle persone e riconoscere che possono dare qualcosa anche loro agli altri”.
Sono 4.679 le persone che, attraverso i corridoi umanitari, hanno potuto raggiungere l’Europa in sicurezza negli ultimi sei anni, dal febbraio 2016 al maggio 2022; di queste, quasi quattromila sono state accolte in Italia, per la maggioranza dal Libano. Il 67% dei rifugiati beneficiari del progetto è proveniente dalla Siria, mentre l’Eritrea è il secondo paese di origine più rappresentato. Non sono solo i numeri a mostrare il successo dei corridoi umanitari, ma anche il fatto che la maggioranza delle persone accolte decide di restare in Italia, nonostante il loro permesso gli consenta di andare in tutta Europa (mantenendo però una residenza italiana).
Inoltre, sono state poche le resistenze al progetto, probabilmente per via di due principali fattori: l’autofinanziamento da parte delle associazioni coinvolte e il numero basso di visti concessi. Quest’ultimo elemento è secondo Mattia “in linea con una politica più ampia di avversione contro la migrazione”, una politica che i corridoi umanitari cercano di contrastare proponendo un’alternativa al respingimento.

L’esempio della Bosnia
La Bosnia-Erzegovina è stata uno dei paesi coinvolti dal progetto dei corridoi umanitari negli ultimi anni, essendo uno Stato di transito e una porta sull’Europa. Complici l’accordo tra UE e Turchia sulla gestione dell’immigrazione irregolare e la seguente chiusura dei confini da parte di Grecia, Ungheria e Bulgaria nel 2016, dal 2018 lo Stato bosniaco è diventato un passaggio obbligato per i migranti provenienti principalmente dal Medio Oriente e diretti in Europa attraverso la rotta balcanica. Nello stesso anno, la Comunità di Sant’Egidio ha deciso di inviare alcuni volontari sul posto per attestare la possibilità di un corridoio tra Italia e Bosnia; in quell’occasione però, non si è arrivati a nessun risultato.
“Siamo tornati a visitarlo [lo Stato bosniaco] all’inizio del 2021, subito dopo il famoso incendio del dicembre 2020 nel campo di Lipa” racconta Mattia, descrivendo la missione della delegazione della Comunità di Padova. I volontari si sono recati a Bihać, una delle città più vicine al territorio europeo e quindi più interessate dal fenomeno migratorio. “Durante tutto il 2021 ogni mese siamo andati in Bosnia con il tentativo di instaurare una nostra presenza nella situazione migratoria e con l’obiettivo di costruire il progetto di corridoi umanitari anche da lì”.
Negli anni il ruolo di Sant’Egidio è però cambiato; se dapprima vi era un focus specifico sui corridoi, nel tempo la Comunità ha contribuito anche a portare aiuti umanitari, specialmente al di fuori dei campi ufficiali. Grazie a queste missioni, la Comunità di Sant’Egidio ha potuto stabilire contatti con i profughi, con il governo locale e con le altre associazioni presenti nel cantone di Una Sana (l’International Organization for Migration e il Jesuit Refugee Service, per nominarne alcune). La costante attività e presenza sul territorio ha inoltre contribuito all’approvazione di nuovo protocollo, firmato il 5 agosto 2021, riguardante la creazione di un corridoio tra Libano e altri paesi di transito interessati da situazioni di emergenza umanitaria; tra quest’ultimi appunto la Bosnia-Erzegovina.
Attraverso questo progetto sono stati autorizzati 1000 arrivi, di cui probabilmente circa venti saranno provenienti dallo Stato bosniaco. Il criterio per scegliere i beneficiari del corridoio umanitario rimane quello della vulnerabilità; saranno quindi principalmente famiglie numerose e persone in situazioni di salute più critiche a entrare in Italia grazie al progetto. I profughi saranno probabilmente di origine afghana o pakistana, essendo queste le nazionalità più presenti in Bosnia. La provenienza dei migranti è rimasta stabile negli anni, anche successivamente all’inizio della guerra in Ucraina. Ciò che è cambiato in Bosnia rispetto al 2021 è invece il numero dei profughi: “i migranti in Bosnia sono molto meno,sia nei campi ufficiali che in quelli informali; probabilmente c’è stata una variazione della rotta” afferma Mattia, indicando come possibile causa il conflitto nell’Est Europa e le continue notizie dei respingimenti in Croazia.
“Sicuramente fra i beneficiari ci saranno due minori afghani, che si trovano attualmente a Sarajevo; non li abbiamo mai conosciuti, ma ce li ha segnalati il governo” afferma Mattia, precisando come il progetto sia sostenuto dalle autorità bosniache. “Ci hanno chiesto di aiutarli perché la Bosnia non è un paese membro dell’Unione europea, quindi non potranno mai arrivare legalmente, e non sono nemmeno nelle condizioni di tentare il Game, il pericoloso viaggio fatto dai migranti per attraversare la frontiera croata ed entrare nell’Unione Europea”. Altri beneficiari del corridoio verranno individuati solo nei prossimi mesi: “abbiamo notato che durante l’estate molte persone tentano il Game, quindi, anche se li identifichiamo, è molto improbabile che ci aspettino”. Mattia parla infatti di resistenze e incredulità da parte dei migranti. A due famiglie presenti in Bosnia era stata proposta la possibilità di arrivare in Italia tramite i corridoi umanitari, ma hanno deciso di fare comunque il Game, “probabilmente perché non credevano che sarebbe mai divenuta una possibilità reale”. I volontari hanno comunque mantenuto i contatti con le famiglie, che sono arrivate in Italia, passando per Padova, per poi proseguire verso Francia e Germania.
Lia Foschi
Fonte foto di copertina: Comunità di Sant’Egidio