Carcere, diritti e dignità: la tutela del diritto alla salute durante la pandemia da Covid-19

“Il covid in carcere è la punta dell’iceberg di come l’intero fenomeno è stato gestito nella società nel suo complesso”. Inizia così la nostra intervista con il professore Giuseppe Mosconi, referente veneto di Antigone, associazione che si occupa di garantire il rispetto dei diritti nel sistema penale e, quindi, in riferimento a diversi soggetti come le persone private della propria libertà. Proprio su queste ultime verte la nostra intervista che prende però una specifica direzione: quella di comprendere quale impatto ha avuto l’emergenza sanitaria in corso sui detenuti, ed in particolare in riferimento al diritto alla salute.

Fonte immagine: Linkiesta

Il diritto alla salute in carcere

 Occorre, innanzitutto, partire dal significato del termine salute, che l’Oms definisce come “la pienezza dello stato di benessere sotto il profilo fisico, psicologico e sociale”. Chiaramente questa demarcazione  fa riferimento ad un’idea ampia di salute, che in carcere parte già svantaggiata a causa della mancanza di libertà.

Importanti indicatori della salute nelle carceri, spiega Mosconi, sono il tasso di mortalità e di suicidio. Per quanto riguarda il primo di questi, siamo di fronte ad una fascia della popolazione più giovane che logicamente registrerebbe un tasso più basso di quello esterno. Invece per entrambe le rilevazioni si registrano cifre più elevate rispetto al fuori, arrivando addirittura a un tasso di 17 volte maggiore per il suicidio. Entrambi gli indicatori si fanno quindi portavoce di un malessere generale ed evidente. 

Oltre a ciò si deve anche tener conto di altre variabili che ruotano attorno alla sfera salute, come la disponibilità di risorse e la cultura che aleggia attorno a questo contesto. Ambedue i fattori, infatti, influenzano la piena fruizione del diritto ad una salute uguale per tutti, ad un accesso paritario ai trattamenti sanitari e ad un eguale considerazione dello status di paziente. In merito ai mezzi, al personale impiegato come medici, infermieri e quant’altro, il carcere  è uno dei primi settori ad essere colpito in caso di tagli alla sanità. Ne sono testimonianza diverse denunce fatte dagli stessi medici come questa risalente a ottobre 2019. Culturalmente, invece, siamo di fronte ad una ambivalenza di fondo: il detenuto è considerato normale tanto da meritare condanna e in grado di vivere l’esperienza afflittiva in modo consapevole (dal momento che la legge prevede l’incompatibilità tra malattia mentale o condizioni elevate di patologie e condizione carceraria). Tuttavia la normalità è assente nella rappresentazione sociale del soggetto, che è visto dagli operatori sanitari in una forma ricca di pregiudizi che li  porta al sospetto della simulazione della malattia e del dolore da parte del detenuto.

“Assunte tali premesse e senza voler fare di tutta l’erba un fascio- continua Mosconi- si evince che l’impegno del medico e del personale sanitario rischia di essere un impegno di serie B in quanto persiste l’idea che il paziente-detenuto non diventerà mai normale. L’atteggiamento del medico è, pertanto, culturalmente prevenuto a dare ai sintomi la dovuta importanza e ciò si traduce in terapie inadeguate, in mancate autorizzazioni per il trasporto in pronto soccorso quando necessario e, nei casi più estremi, anche in decessi”.

Fonte: Associazione Antigone

Coronavirus in carcere: i dati e le conseguenze

Come nella società esterna, la pandemia dietro le sbarre ha registrato principalmente due ondate

Per quanto riguarda la prima, che va da marzo a maggio, l’Associazione Antigone ne ha delineato il profilo nel rapporto “Il carcere al tempo del coronavirus”, concludendo che nelle carceri italiane si sono contati 159 casi di detenuti e detenute positivi, come dimostra anche questa accurata mappatura curata dall’Osservatorio Antigone. È fondamentale considerare, però, che il problema non è solo dei reclusi, che hanno una socialità molto dimensionata essendo in spazi ristretti e controllati, ma soprattutto degli agenti che entrano ed escono.

Infatti nella prima fase il numero degli agenti positivi ammonta a 215, quasi il doppio di quello dei detenuti.

Per quanto riguarda la seconda fase la tendenza alla crescita risulta confermata. Un primo dato, rilevato dal sindacato di polizia penitenziaria UILPE, registrava un importante punto di svolta nel weekend del 24 e 25 ottobre. Prima di tale data si contavano 75 reclusi e 117 agenti positivi. In soli tre giorni la rilevazione è salita rispettivamente a 145 e 199. Attualmente, secondo i dati ufficiali, in carcere risultano 658 detenuti positivi di cui 32 ricoverati in ospedale, e 824 contagiati della polizia penitenziaria, nonché 65 tra i dipendenti amministrativi. Questo aumento repentino di contagi rispetto alla fase 1, può essere in parte correlato alla crescita della popolazione reclusa dopo gli effetti deflattivi adottati nella prima fase e non riprese nella seconda. Se, infatti, ad  inizio pandemia, il numero di detenuti è sceso da 60 mila a 54 mila alla fine di aprile, già dai mesi estivi si nota dal grafico una tendenza alla ripopolazione delle carceri. Nella crescita si vedono gli effetti della compressione dei reclusi in spazi più limitati, del mantenimento di ampi contatti con l’esterno, aggravato dall’aumento di detenuti dall’esterno potenzialmente contagianti.

Infatti, spiega il Professore, dopo i provvedimenti della prima fase,  sembra non esserci ora nessuna  attenzione a tenere bassa la popolazione nelle carceri per evitare contagi. Durante la prima fase si era raggiunto un importante sfoltimento sia grazie ad un orientamento della magistratura di sorveglianza sia per merito di concessioni straordinarie. Nel primo caso, la magistratura di sorveglianza ha permesso l’applicazione meno restrittiva dell’affidamento in prova ai servizi sociali per i detenuti con una pena detentiva inflitta, o anche un residuo di pena, non superiore ai tre anni. Si tratta di una misura alternativa alla detenzione prevista dalla legislazione penitenziaria e che, pertanto, potrebbe essere adottata al di là dell’emergenza sanitaria in corso.

Per quanto riguarda, invece, i beneficiari delle concessioni straordinarie, si fa riferimento ai detenuti con pena inferiore ai diciotto mesi, non responsabili di reati gravi e su cui non gravano sanzioni disciplinari, i quali hanno potuto scontare la pena ai domiciliari per un periodo di tre mesi.  Ciò ha permesso l’uscita di circa tre mila persone.

L’azione concorrente di questi due fattori ha permesso, appunto, un importante calo della popolazione carceraria di circa 8 mila persone, la quale però, dopo la fase acuta, è tornata, come si è visto, a crescere. Le ragioni di questo ripopolamento sono due: evitare l’allarmismo dell’opinione pubblica e mantenere la certezza della pena.

In ragione di questo, la legislazione penitenziaria ha adottato provvedimenti restrittivi come la chiusura delle visite parentali (che hanno scatenato le rivolte di marzo), la sospensione dell’intervento dei volontari e delle attività quali scuola, lavoro, laboratori, attività culturali al fine di limitare i contatti con l’esterno. Si tratta di limitazioni inefficaci e pretestuose dal momento che, invece, agenti, medici, personale amministrativo, cappellani ed operatori vari continuano ad entrare ed uscire, così come continuano ad entrare nuovi reclusi.

Si crea, quindi, un rovesciamento delle logiche esterne: mentre fuori si inneggia al distanziamento sociale, nelle carceri la popolazione è sempre più compressa e di conseguenza più esposta al pericolo di contagio Questa maggiore esposizione è confermata dal tasso di contagiosità: rapportando il numero di reclusi positivi a 100 mila abitanti si ottiene un indice più elevato rispetto allo stesso calcolato sulla popolazione esterna. In poche parole è più facile infettarsi in carcere che fuori.

Lo scenario sociale globale cui siamo di fronte è caratterizzato dall’ambivalenza di due poli opposti: da una parte vi è un richiamo alla solidarietà, come lo dimostrano i cori sui terrazzi, i motti di resistenza collettivi, l’inno all’”unione fa la forza”,  e dall’altra al distanziamento, il sospetto reciproco e la diffidenza che portano anche a denunciare chi non rispetta le regole. Tale ambiguità raggiunge il suo estremo quando si lasciano le persone più deboli e vulnerabili da sole: vale per gli anziani, gli immigrati, i senza fissi dimora, così come vale per i carcerati. Essa a livello interno si presenta ancor più elevata rispetto all’esterno e persiste ad essere sostenuta da fattori intrinseci quali una cultura punitiva di fondo, la disciplina interna dell’istituto di pena e la morbosa attenzione all’opinione pubblica. Come detto all’inizio, l’emergenza covid in carcere, è la punta dell’iceberg di un fenomeno più complesso  nella sua interezza ed essendo, dunque, la parte più percettibile, è quella da cui occorre partire per risolvere un passo alla volta, i problemi più profondi della società del nostro tempo. 

Annita De Biasi

Fonte immagine di copertina: Associazione Antigone

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