DANZA URBANA BOLOGNA

Danza Urbana a Bologna: focus sul Mediterraneo

Il Crescentone è ancora caldo per l’estate bolognese quando comincia a popolarsi, il 4 settembre, di danzatori ansiosi di performare davanti ad un pubblico di cittadini curiosi.

È la XXII edizione di Danza Urbana, festival internazionale di danza nei paesaggi urbani.

Nato dall’esuberanza di giovani studenti universitari, il festival mira a far conoscere alla città i linguaggi della danza contemporanea, diffusi solo tra il pubblico del teatro, e a sperimentare nuove possibilità di ricerca coreografica in spazi diversi da quelli tradizionali.

I bar del centro diventano camerini, i portici amplificatori, gli spettacoli si guardano seduti per terra, o tra una schiena e una spalla, in punta di piedi. Si rompono mezze misure, gli artisti sono incredibilmente vicini dove si sente il respiro, o incredibilmente lontani, sagome indefinite.

Quasi sempre sono entusiasti, come Agnes Sales che, a quanto ci racconta una ragazza dello staff, non faceva che ripetere “Non vedo l’ora”, ballando nel tragitto dalla stazione al luogo dello spettacolo.

Cappella Farnese, Chiostro di San Martino, Pinacoteca e anche – fuori dalla città, in collina – Monterenzio, dove il sito archeologico di Monte Bibele viene apparecchiato per la performance dei ragazzi di PHREN.

Quest’anno il festival si tinge di blu, protagonista il Mediterraneo: è il mare nostrum, il “mare fra le terre” che si scontrano e si incontrano, panorama di movimenti politici, religiosi, sociali. Questo mare è come una tavola attorno alla quale tutti ci sediamo. C’è chi sta a destra e chi a sinistra, chi a nord e chi a sud, c’è chi pensa che questa tavola blu divida, chi dice che tutti hanno il diritto di partecipare.

Anche a Bologna si cerca un modo per “fare comunità”, con 11 performance e artisti da Grecia, Iran, Italia, Marocco, Siria, Spagna e Tunisia.

“La scelta del focus sul Mediterraneo – spiega Massimo Carosi, direttore artistico del festival – ha una sua valenza politica. Osservare quest’area geografica oggi significa far emergere quegli artisti che portano delle istanze legate al proprio contesto politico e sociale, portare all’evidenza del pubblico le condizioni di paesi dove questa è un’arte proibita o soggetta a severe prescrizioni.”

È il caso di Sina Saberi, un artista iraniano che nel suo Prelude to Persian Mysteries racconta quarant’anni di oblio della danza, bandita con la rivoluzione nel 1979, e porta alla Pinacoteca un lavoro di reinvenzione della pratica corporea persiana, prendendo le mosse proprio da questo vuoto storico incolmabile e da un passato quasi irrimediabilmente lontano.

In Displacement (di Mithkal Alzghair è profugo in Francia da due anni) assistiamo alla frantumazione dell’identità del corpo siriano, diviso tra guerra ed esilio, fuga e milizie. Muove da un solo isolato ad un trio di uomini, cercando un possibile ponte verso l’interazione.

Dal contesto tunisino provengono Shine my blind way di Seifeddine Manai e il documentario Les Amoureux des Bancs Publics diretto da Gaia Vianello, che dimostra la forza politica e resistente della danza. Nella Turchia post-rivoluzionaria, la street-art vive negli spazi pubblici e sulle panchine, esclusivamente per la comunità, per essere fruita da tutti e contrastare le tendenze radicali con l’arte.

“Tutti questi artisti -continua Massimo Carosi – hanno le stesse radici proprio nel Mediterraneo, che è matrice da cui si sviluppa la nostra cultura.” E così sembra che la giovane danza contemporanea si faccia d’improvviso storica e responsabile.

Pennac avrebbe forse da obiettare, nella sua Storia di un corpo: “Il corpo è un’invenzione della nostra generazione, per come ne si dà spettacolo. […] Più lo si analizza, più lo si esibisce, meno esso esiste”, come in una nozione deteriore di medicina diventa un insieme di molecole e geni e anticorpi. Diventa un anti-corpo.

Gli risponde il direttore del festival: “Jean Luc Nancy ci fa invertire la prospettiva: il corpo non è qualcosa che abbiamo, è qualcosa che siamo. Siamo innanzi tutto corpo. E tutte le volte che parliamo di corpo come qualcosa di esterno, altro da noi, non facciamo che negare la nostra corporeità. Dimentichiamo spesso che discendiamo da un retaggio neoplatonico che ci spinge a considerare anima e corpo come entità ben distinte.

Per questo bisogna fare attenzione a distinguere esibizione ed espressione o estensione. Esibire significa offrire il corpo come un oggetto. Un corpo esteso è un corpo che si offre, un corpo abitato. Non dobbiamo quindi imparare a controllare il corpo, la danza rinascimentale sapeva già farlo. Ma dobbiamo abituarci ad un corpo esteso, naturale, non codificato.”

E questo processo di liberalizzazione ha bisogno di tempo per divenire quotidianità, come una tavola per essere apparecchiata.

Rebecca Neri

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